XVIII

Il Natale del 1943 era ormai giunto, e le donne della famiglia Marchi si stavano occupando dei preparativi.

L'albero nel giardino, ormai privo di foglie, era stato decorato, qualche giorno prima, contro il volere di Agnese, che aveva chiesto di evitare di addobbarlo, come era accaduto l'anno precedente.

Le giovani figlie, però, per onorare la memoria del padre, non avevano ascoltato le preghiere e gli sproloqui della madre, aggiungendo qui e là qualche bel fiocco.

Mentre lo stavano decorando, si divertivano cantando belle canzoni che andavano molto di moda. Si trattava per lo più di canzoni del Trio Lescano, gruppo formato da tre sorelle ebree di origini olandese-ungheresi che, nel 1935, erano andate a Torino, dove sarebbe nato il trio, l'anno successivo.

La festa era ormai alle porte. Il 24 dicembre, le giovani donne Marchi si erano occupate di preparare un "cenone" piuttosto scarno, formato da semplice pasta in bianco.

Celeste aveva comprato la pasta qualche giorno prima, al mercato nero, per un prezzo esorbitante. Però voleva mangiare qualcosa di diverso almeno in quel periodo. Pertanto, aveva deciso di risparmiare più denaro possibile, per comprare quell'alimento che non compravano da tempo immemore.

Quando le sue sorelline iniziarono a distrarsi, cantando e ballando, Celeste uscì fuori casa andando a recuperare dei pacchi dal capannone, per onorare un'altra delle tradizioni di suo padre.

Aveva comprato delle piccole cose da regalare alle sue sorelline e alla madre, da porre sotto l'albero in giardino.

Quando rientrò in casa, fece totalmente finta di nulla, portando in mano dei ceppi di legno da bruciare nel fuoco. Proprio come suo padre faceva sempre con lei quando era piccina. Voleva che le sorelline e la madre, affacciandosi alla finestra, vedessero i pacchi e li andassero a prendere, per poi spacchettarli a mezzanotte esatta.

Fu Cecilia la prima ad affacciarsi alla finestra. Disse: «Sono arrivati!», con gli occhi azzurri luccicanti dall'emozione, resi più brillanti dall'arancio del fuoco nel camino.

Subito, con la gemella, uscì fuori, correndo. Quando toccò il pacco con il suo nome, le sembrò pesante. Si chiedeva cosa "Babbo Natale Celeste" le avesse regalato quest'anno.

Anastasia, al contrario, semplicemente prese il pacchetto e si rivolse alla sorella, con un ampio sorriso.

Cecilia chiese, poi, a Celeste: «Tu non vieni a prendere il tuo?»

Celeste sorrise alla sorellina. «Ma quello non è mio, Ceci», disse, andandole incontro e abbracciandola. «È per la mamma».

Agnese, ancora incerta sul da farsi, stava sull'uscio di casa. Non si aspettava assolutamente che la figlia le facesse un regalo, dopo il modo in cui si era comportata con lei.

Celeste, con un enorme sorriso, andò in aiuto alla madre. Le porse un braccio, affinché potesse prenderla a braccetto.

Quella fu la goccia che fece traboccare il vaso: Agnese scoppiò in lacrime, e abbracciò la figlia, scusandosi per tutto il dolore che le aveva causato. «Non me lo merito, figlia», sussurrò tra i singhiozzi. «Quanto hai speso?» chiese timorosa.

Celeste la strinse, contentissima di quel contatto così intimo che non avevano avuto per molto tempo, e che aveva spesso richiesto non ottenendolo. «Non importa quanto io abbia speso. E comunque sei mia madre, è ovvio che lo meriti, un regalo. Hai fatto di tutto per proteggere noi figlie, a partire dalla vendita del pianoforte. Se non l'avessi venduto, saremmo sicuramente finite nei guai». Pensò su come continuare. «Anche se le "Sorelle del swing" continuiamo a cantarle, anche senza pianoforte» aggiunse in tono umoristico.

La madre, con un sorriso, le diede uno schiaffetto debole sul viso, ben accetto da Celeste.

Vicina all'albero, Agnese raccolse il suo regalo. E notò che non vi fossero altri pacchetti, lì sotto. «E per te?»

«Io non ho bisogno di regali», rispose Celeste. «Il mio regalo siete voi, voi che state bene». Le lacrime iniziarono a scendere copiose dagli occhi di Celeste, che chiese alle altre donne di famiglia di abbracciarla forte.

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Il giorno dopo, le tre sorelle andarono in chiesa, per sentire la Parola del giorno. Il nuovo prete inviato dal Vaticano fece un bellissimo sermone, che rimase impresso nel cuore delle sorelle. Era il primo capace di farle quasi lacrimare.

Tornarono a casa, subito dopo la Messa, che finì a mezzogiorno, per preparare il pranzo.

Il pranzo, forse, fu persino più triste del "cenone", perché fu semplice brodo di gallina, con una manciata di pasta grossa. Di piccola, Celeste, non ne aveva trovata.

A un certo punto, durante i preparativi della tavola, sentirono bussare alla porta, con una certa insistenza. Anastasia, come al solito, iniziò ad andare nel panico. Si chiedeva, ogni volta che sentiva bussare, se fossero i tedeschi per arrestarle, perché cantavano continuamente musica illegale.

Quando Celeste aprì la porta, si ritrovò ad aggrottare le sopracciglia. Era interdetta e si chiedeva chi fosse la persona davanti a lei.

«Ciao, carina, sto cercando Agnese Albrizzi» disse la vecchina.

Celeste la guardò divertita. Quella donna era vestita in una maniera talmente eccessiva, da poter essere solo una donna dell'alta aristocrazia.

Portava un vestito viola, tutto merlettato, con sopra una giacca fatta in pelle, forse di zebra, essendo bianca e nera. Anche se Celeste rise al pensiero che potesse essere pelle di puzzola, visto il tanfo che quella vecchia emanava. Sulla testa un enorme cappello viola, con fiori più grandi, forse, persino della testa della vecchietta.

«Albrizzi era il cognome da nubile di mia madre». Celeste si fece leggermente di lato. «Prego, accomodatevi!» disse con un sorriso forzato, che tradiva una risata.

«Come faccio con la mia carrozza?» La voce stridula e gracchiante della vecchia fece sobbalzare Celeste.

«Quale carrozza?» chiese preoccupata. Questa era la prova ulteriore che la vecchia, fosse una donna aristocratica. Chi va più in giro in carrozza se non i nobili?

«Quella là fuori! Signorina, sei proprio una sciocca!»

A quelle parole, Celeste rimase ufficialmente sconvolta. Si affacciò alla finestra, e notò effettivamente una carrozza abnorme. Si chiese dove avrebbero potuto parcheggiarla, per il momento.

Uscì, con il freddo, e guidò il cocchiere fino al retro della casa. C'era un pezzetto di prato non ancora totalmente secco dove i cavalli potevano mangiare. Il cocchiere scese con disinvoltura dall'alta vettura, legò i cavalli alla staccionata di legno che circondava la casa, per poi andare a lavarsi le mani alla fontana di casa.

Appena Celeste rientrò in casa, rimase sconvolta da ciò che vide. Sua madre stava discutendo con la vecchietta, o meglio, era la vecchia a condurre i giochi.

«Secondo te, questo è un pranzo degno di una persona della nostra levatura?»

«Mia cara sorella. Forse la guerra per te non si sta facendo sentire, ma per noi purtroppo sì».

«Avevamo ragione che non dovessi sposare quello straccione».

«Come ti permetti?» strillò Celeste. «Piombi a casa nostra senza preavviso, dai ordini, insulti mio padre. Chi ti credi di essere, chiunque tu sia?» Aveva totalmente perso la sua buona educazione ai commenti rivolti contro il padre. Solitamente agli anziani si rivolgeva dando del "voi", per pura formalità, ma questa vecchia le aveva fatto arrivare il sangue al cervello per le cose orribili che diceva.

«Che ragazza impertinente! Con il padre che ha avuto... Si vede che le è stato di grande insegnamento». La vecchia pronunciò quelle parole con altezzosità e saccenza tali da far venire a Celeste la voglia di menarla.

«Sarò anche impertinente, ma voi non siete sicuramente meglio di me, signora». Tornata alla formalità, Celeste buttò una bomba contro la vecchia.

«D'accordo» sentenziò la vecchia, ponendo fine al discorso. «Io ho intenzione di festeggiare con voi il Natale. Ma di sicuro non festeggio in questa capanna, e con del... brodo». Finse di sentire un brivido scorrerle lungo la schiena, al pronunciare quella parola per lei obbrobriosa. «Ho un'idea».

«Sentiamo» sentenziò arrogante Celeste.

«Io ho i soldi a sufficienza per offrirvi un buon pranzo. Venite su in carrozza, che vi porto a mangiare in un ristorante come si deve».

Tutte le donne Marchi furono costrette a indossare il vestito buono. Agnese aveva sul volto un'espressione cupa. Sicuramente non si aspettava una visita del genere, ma tantomeno si aspettava che giudicasse il loro stile di vita in quel modo. Erano donne umili, e ad Agnese così piaceva. Non voleva assolutamente cambiare le cose per via di una sorella giudicona.

Salite su una carrozza per la prima volta, le sorelle Marchi, da una parte sorrisero, dall'altra erano sconvolte per il movimento oscillante continuo. A Celeste venne un leggero conato.

Era tutto strano visto dalla carrozza: tutto il mondo sembrava più piccolo, più stretto, perché la finestrella permetteva di vedere solamente piccolissimi dettagli, tra l'altro a quella velocità.

Arrivate al ristorante, che si trovava vicino alle sponde del Tevere, Celeste scese dalla carrozza come un vero maschiaccio, saltando giù con il vestito che le si alzava, a mostrarle le brache. Cecilia sembrò una diva del cinema, mandando bacetti al suo pubblico inesistente. Anastasia, da timorosa qual era, fece attenzione a come si muoveva, scalino per scalino. Le uniche che scesero dalla carrozza, come vere signore, furono Agnese e sua sorella. Celeste si chiese come fosse possibile che sua madre avesse una posa del genere e come mai avesse una sorella nobile.

Nel ristorante le donne Marchi guardarono il menù, chiedendosi cosa fossero quelle portate sconosciute.

Celeste pensò, Siccome paga la sorella di mia madre, mi sbizzarrisco nella scelta. Ma poi pensò, Non essendo abituata a tanto lusso, potrei sentirmi male, se mi ingozzassi. Doveva agire con moderatezza.

Ascoltò prima cosa prendessero sua madre e la sorella. Entrambe ordinarono quaglia.

«Perché, si mangia la quaglia?» chiese ansiosa Anastasia.

«Sì, certo» disse la vecchietta. «Agnese. Ma cosa hai insegnato alle tue figlie? Sembrano delle campagnole».

Celeste avrebbe voluto urlarle contro di nuovo, ma visto il posto in cui si trovavano cercò di mantenersi. «Sapete, gentile vecchia, che se i soldi non ci sono, non ci si può permettere la quaglia a 100 e più lire».

La vecchia la guardò arcigna e Celeste ricambiò lo sguardo. Quella vecchiaccia non l'avrebbe mai battuta a livello di insulti, anche perché Celeste aveva una gran parlantina.

«Io prendo Spaghetti allo zafferano e ricci di mare» ordinò Celeste.

«L'ho detto: campagnola. Come le salta in testa di ordinare spaghetti in un ristorante di lusso?»

«Se ci sono gli spaghetti nel menù di un ristorante di lusso li ordino, gentile vecchia» obiettò Celeste. Le sorelline ordinarono gli stessi piatti della sorella, credendo che Celeste avesse, come al solito, molto fegato nel rispondere male a quella vecchia maleducata.

Per mangiare, le sorelle, che conoscevano ben poco del galateo, aprirono i fazzoletti e, in attesa dell'arrivo dei piatti, se li misero al petto.

La madre, sorridendo, disse loro che il fazzoletto andava posto sulle ginocchia.

«Ma se la salsa spruzza colpisce il petto, non le gambe» disse ingenuamente Anastasia.

«L'etichetta vuole così» rispose la donna.

«È ufficiale che non hai insegnato loro assolutamente niente» disse la vecchietta sconcertata.

Celeste notò l'occhiataccia che la madre aveva lanciato alla sorella: l'educazione delle figlie spettava a lei, e non alla famiglia lontana. Che non si metta in mezzo!, pensò la ragazza.

Quando giunsero i piatti, le ragazze si comportarono cortesemente con il cameriere, ringraziando, attirandosi un'altra occhiata sconvolta da parte della vecchia. Degustando gli spaghetti, le sorelle Marchi pensarono di essere in paradiso, perché la crema allo zafferano si scioglieva in bocca. I ricci di mare per loro furono una scoperta: forse una delle cose più buone che abbiano mai provato. Si guardavano continuamente con sorrisi affabili.

Dopo aver mangiato, la vecchia pagò il conto di 600 lire, dicendo: «È molto meno di quanto mi aspettassi, visto che siamo state in cinque a mangiare. Sono letteralmente sconvolta».

Intanto le gemelline Marchi scorrazzavano fuori, danzando e cantando com'era loro solito.

Celeste guardava divertita le sorelle, appoggiata all'uscio del ristorante, quando sentì un urlo straziato. «No. Mi' fija». Una donna, sportasi vicino al ponticello del Tevere, indicava qualcosa nel fiume che scorreva sotto di loro.

Celeste, totalmente confusa, si avvicinò e quello che vide la sconvolse come non mai: un vestito di tela bianco, indossato da una giovane donna, che era smosso delicatamente dalla corrente. Il corpo della donna sembrava quello di un fantasma: era pallido e non dava segni di vita.

Guardò la donna urlante che, ormai, rappresentava un quadro di totale angoscia. Le ricordava molto la posa del personaggio all'interno del quadro di Munch intitolato L'urlo, che aveva visto in delle cartoline.

Chiese alla donna che cosa fosse successo. «Purtroppo, all'inizio del mese delle cattive persone le hanno fatto del male. È sempre stata una ragazza fragile. Quando ha capito di essere rimasta incinta, non volendo né potendo, io e mio marito, farle perdere il bambino, ha deciso di fuggire via, lontano da noi. Non è riuscita a sopportare il peso di tutta questa situazione! Non sono arrivata in tempo per salvarla, la mia bambina». Un singhiozzo le mozzò il fiato: non riusciva più a parlare, il viso si era tutto increspato a causa del colore, divenendo paonazzo.

Capì dalle parole della donna, che la giovane fosse la ragazza che aveva visto venir violentata da quei due soldati.

La conosceva: ora che l'aveva vista in viso aveva capito chi fosse. Era una sua compagna di scuola al ginnasio, fino a quando ci era potuta andare. Era una ragazza molto bella, dai fluenti capelli neri e dal fisico snello. Tutto si aspettava, tranne che facesse quel terribile gesto. Anche perché ricordava che a scuola fosse una delle migliori studentesse, e che quindi, forse, dopo la guerra, avrebbe potuto riprendere gli studi e diventare qualcuno di importante.

Quando le sorelline si avvicinarono al ponte, Celeste le bloccò, dicendo, con le lacrime agli occhi: «È successa una cosa molto brutta. Non voglio che la vediate. Andate in carrozza, per il momento».

Chiamò alcuni uomini, tra quelli che erano andati alla sua ricerca insieme alla madre, affinché il corpo potesse essere cacciato dall'acqua. Di modo che potesse ottenere una degna sepoltura.

Alla vista del corpo senza vita della giovane - circondato dal suo vestito bianco appiccicato al corpo, e con i capelli bagnati che volteggiavano nell'aria dal suo capo che cadeva a peso morto - capì, finalmente, l'odio infinito che provava per i tedeschi. E neanche un commento gentile le avrebbe fatto cambiare idea su di loro.

Ovunque fosse Leonardo, aveva assolutamente bisogno di parlargli.

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Cari lettori, eccoci a un nuovo aggiornamento. Cosa ve ne pare della vecchia sorella di Agnese? E del colpo di scena finale? Fateci sapere con un breve feedback. Buona lettura ❤️,

Lilingel

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