XIII
Celeste, la mattina del 28 ottobre, si alzò molto presto. Pensò che fosse necessario andare alla sfilata organizzata dai repubblichini in onore della marcia su Roma da parte del Duce: soprattutto per loro, che venivano in continuazione additate come "contrarie al regime", e che, quindi, non dovevano attirare le attenzioni di occhi indiscreti.
Dopo aver preparato la colazione e aver mangiato, la giovane cercò di svegliare con molta delicatezza le gemelline. All'inizio fecero resistenza, ma poi si decisero a obbedirle. Le mani si alzarono a stropicciare gli occhi, che ancora si chiudevano per via del sonno. Le più giovani si recarono in cucina per fare colazione, mentre Celeste andò in bagno.
Si fece una breve doccia, per pulirsi dal sudore provocato dal calduccio della notte precedente. Dopo aver finito, si tamponò i capelli con un asciugamano di cotone. Erano morbidi al tatto quanto un cuscino di nuvole lo era alla vista. Si lavò i denti con cura, fissando in continuazione lo specchio: notò che teneva lo spazzolino in maniera identica al suo papà. Le lacrime tentarono di sgorgare fuori, ma lei riuscì a contenerle; anzi, sorrise. Suo padre l'avrebbe voluta così: un sorriso a trentadue denti doveva sempre essere stampato sul suo bel viso.
Andò in cucina dopo aver indossato il vestito buono, danzando sulle scale leggiadra come una farfalla, e intonando una canzone tedesca della quale era innamorata: l'unica che conosceva, Warum? di Miliza Korjus. Se un giorno fosse andata ad assistere all'opera in Germania, avrebbe voluto ascoltare dal vivo il Berliner Nachtigall (l'usignolo berlinese), come veniva soprannominata.
«Sei più stonata di una campana». L'accolse Cecilia, ormai vestita e truccata, mentre la maggiore faceva il suo ingresso in cucina come una diva. «Spero che qualsiasi tedesco nei dintorni non ti abbia udita, o verresti giustiziata per aver rovinato un loro pezzo d'arte».
Celeste la guardò, sorridendo, con uno sguardo di sfida. «Ti conviene iniziare a correre, ragazzina». Cecilia ricambiò lo sguardo con un enorme sorriso. Celeste iniziò a correre incontro a Cecilia. «Perché se ti prendo ti strappo tutti i capelli».
Le ragazze iniziarono a rincorrersi per tutta la cucina: intorno al tavolo, bloccandosi l'un l'altra il cammino con una sedia; Celeste per poco non avrebbe colpito con la testa l'anta della credenza, se non fosse riuscita a svoltare all'angolo del tavolo, rischiando di farsi male all'anca. Si stavano divertendo talmente tanto, che le si poteva sentire ridere e gridare dall'esterno. Quei brevi momenti di gioia le investivano sempre totalmente, perché erano così rari da dover essere vissuti con tutta l'anima. Anastasia le guardava, temendo di essere travolta dal loro entusiasmo.
Celeste la raggiunse. «Ti ho presa» disse, riprendendo fiato. «Dici la verità. Sei invidiosa di come canto, ragazzina».
«Ma neanche per idea».
Celeste iniziò a farle il solletico: conosceva ogni minima parte del corpo della sorellina - visto che già quando aveva dieci anni doveva spesso cambiarle il pannolino e lavarla -, per questo sapeva benissimo che lo soffriva particolarmente sotto il collo.
«Sei tremenda, Celeste!» esclamò Cecilia, non riuscendo a trattenersi.
Mentre si dilettavano, sentirono bussare forte alla porta. Il gioco era stato bello finché era durato: ora tutte e tre le giovani trattenevano il fiato dalla paura. «Non sono davvero i tedeschi, non è così?» chiese Anastasia, impallidendo.
«Te l'avevo detto!» ribatté Cecilia. «Ci metti sempre nei guai» sentenziò.
«Starebbero già parlando in tedesco, se fossero loro. Non vi pare?» disse Celeste, neanche lei troppo certa della sua supposizione. Poteva essere anche che stessero in silenzio per tendere loro un agguato.
Fece un respiro profondo, per poi andare ad aprire. Girò molto lentamente il pomello della porta: aveva già figurato davanti a sé il fucile di un soldato, fascista o nazista che fosse. Quando aprì, urlò: «Zia! Sei qui!» Le si lanciò addosso, come faceva sempre.
Le ragazze avevano un debole per la loro zia Clara. Indossava anche quella volta, come sempre, i suoi abiti monacali.
Quello che ammiravano molto di lei era il suo carattere ribelle. Le suore del convento dove viveva lei si tagliavano molto corti i capelli. Lei aveva deciso di tagliarli fino alla spalla, in modo da poterli legare sempre in una crocchia stretta, per tenerli sotto il velo. Adorava i suoi capelli, perché erano quel poco che le rimaneva della sua vecchia vita: non li avrebbe mai tagliati totalmente.
La loro giovane zia era di bellissimo aspetto, o almeno Celeste la trovava stupenda. Aveva capelli ondulati marroni, che raramente le ragazze vedevano fuori dal velo - per poterli vedere, a volte, la osservavano mentre dormiva -, e bellissimi occhi verdi da cerbiatta. Sulle sue labbra spuntava sempre un sorriso che contagiava chiunque le fosse accanto.
Veniva spesso a trovarle, per stare con le nipoti e la cognata. Spesso le aiutava anche economicamente, o portava loro del cibo che le altre suore, o lei stessa, preparavano.
Celeste ammirava la sua dedizione nei loro confronti. Si sentivano sempre onorate di avere una zia suora: sia per i bellissimi messaggi di fede che trasmetteva, sia per la sua bontà cristiana.
«Celeste! Mia cara». La strinse forte in un abbraccio. La guardò con quegli occhi brillanti da cima a fondo. «Ma quanto sei cresciuta?»
«Zia, da un mese a questa parte non sono aumentata in altezza» rispose ironicamente. Si guardò il corpo, ricoperto dal vestito buono. «In compenso, sono dimagrita molto».
«Beh. Con me sapete che non dimagrite. Guardate che vi ho portato!» Entrata in casa, mise le mani all'interno di una borsa gigantesca, dalla quale cacciò fuori un vassoio di dolci. Il loro preferito primeggiava tra tutte le paste: il maritozzo romano.
Celeste strabuzzò gli occhi, e si leccò le labbra, non riuscendo a nascondere alla zia di morire dalla voglia di azzannarlo e di sporcarsi con la panna e la polvere di caffè. Non toccava un dolce così farcito e goloso da un mese.
Le gemelle spuntarono ai suoi lati, a mo' di angeli custodi, con occhi lucenti dalla felicità. Quasi stavano per scoppiare in lacrime.
«Zia, non dovevi!» disse Celeste, con un sorriso che andava pian piano a miscelarsi con le sue lacrime, che non riuscì a trattenere.
«Certo che dovevo». La zia le abbracciò tutte e tre, forte. Si sentivano sempre al sicuro in sua presenza. Forse perché, essendo la sorella del loro papà, lei gli somigliava molto.
«Clara». Una voce senza alcun tipo di inclinazione alle loro spalle interruppe quel momento stupendo. Agnese stava scendendo le scale con il suo solito volto apatico: i capelli biondi le contornavano il viso. La cognata le corse incontro sulle scale e l'abbracciò. Agnese non rispose all'abbraccio, tenendo le braccia lungo il corpo. «Sei venuta per farci la carità, vedo!» disse, fissando i dolci sul tavolo.
Clara disse, osservando le nipoti che la guardavano con occhi colmi di tristezza, che era venuta soltanto in visita come faceva di solito. Rispose che le aveva fatto molto piacere vedere le nipoti dopo tutto quel tempo, sapere che stavano bene. «Mi fa piacere anche rivedere te, Agnese», sospirò, temendo le conseguenze di quella frase. Sapeva, infatti, che Agnese odiava quel tipo di smancerie.
«Bene, mi hai rivisto» disse la donna apatica. «Ora te ne puoi anche andare. Non abbiamo bisogno di te, qui». Agnese si divincolò dalle braccia della cognata, per recarsi al tavolo. C'era un maritozzo anche per lei. «E questo schifo te lo puoi anche riportare in convento. Sicuramente ci sono degli orfanelli che lo desiderano di più».
Celeste rimase sconvolta dalle parole della madre. Quasi si vergognò di essere sua figlia. Come può essere così crudele! È stata molto carina, la zia, invece, pensò nella sua testa Celeste.
Fece per discutere con la madre, ma la zia Clara la fermò con una mano sulla spalla. Disse: «Lasciala sfogare. Lo sai che poi le passa», e guardando il maritozzo che aveva preparato per lei, «e che ci tornerà». Usava quell'espressione quando voleva dire che, una volta smaltita la rabbia, avrebbe mangiato il suo dolce. Celeste le sorrise, con le lacrime agli occhi. Riabbracciò la zia, felice.
«Che ore sono?» chiese la zia, appena staccatasi dall'abbraccio, ancora con il sorriso sul volto.
«Le 9.25» le rispose Celeste. «Perché?»
«Cosa?» Il sorriso venne sostituito da occhi e bocca spalancati. «Oddio. È tardi, è tardi, è tardi». Iniziò a comportarsi in modo strampalato. Girò per la stanza con le mani sul velo, in preda a un palese attacco di panico.
«Ma per cosa, zia?» chiese Cecilia.
«Dobbiamo andare a via Tor de' Specchi».
Le tre sorelle avevano completamente dimenticato il motivo per cui si erano alzate presto. Era tardi per giungere in tempo alla sfilata: soprattutto se volevano andare a piedi, perché sarebbe iniziata alle dieci, e da casa loro ci volevano più di quaranta minuti a piedi per arrivare a via Tor de' Specchi; e sapendo che Cecilia si voleva riposare ogni tanto, ce ne volevano anche di più. «Zia, non c'è problema. Andremo solo al Teatro Marcello, per vederne la conclusione».
«Non sia mai che si sospetti di voi, per qualsiasi cosa». La zia uscì di casa, andando come una furia nel vecchio capanno. Celeste sapeva cosa stava per fare. «Andremo con la vecchia macchina di vostro padre».
Celeste era entusiasta al pensiero di andare in macchina con la zia. Quelle poche volte in cui era capitato era piccina, ma ricordava sempre fossero molto piacevoli.
Anastasia, invece, sgranò gli occhi. Non aveva mai visto una suora guidare. «Io penso proprio che farò compagnia alla mamma». La giovane sapeva che sua madre non sarebbe andata alla sfilata neanche per idea.
«Che guastafeste!» disse Cecilia. «Va bene. Io mi divertirò con la zia. Tu no!» Le fece la linguaccia, salendo in macchina.
Anastasia non fece in tempo a raggiungerla: la sorella aveva già chiuso la sicura e le stava facendo delle smorfie. «Vedrai quando torni».
****
Alla fine della sfilata, le tre donne dovevano tornare a casa. La zia Clara e Celeste erano già salite in auto, e stavano chiacchierando: sembravano così a loro agio. Cecilia invece si sentiva fuori contesto, nonostante amasse la zia quasi più della madre. Inoltre era decisamente spaventata: la zia in auto era molto spericolata, pertanto non aveva alcuna intenzione di salire.
«Io vado a piedi». Iniziò a incamminarsi sotto gli occhi sospetti della zia.
La donna uscì dall'auto e le chiese: «Cecilia. È tutto a posto?»
«Sì, zia» rispose Cecilia dubbiosa. Si fermò nel suo cammino e si voltò verso di lei. «È che... Non voglio rischiare di morire, come è già successo oggi, tre volte». Le ricordò che per due volte stava per finire vicino a dei muri di mattone, e che per una volta stavano per sbattere contro una carrozza che trasportava una coppia di fidanzati in giro per la città. «Preferirei evitare».
«Beh. Sono un po' spericolata. Ma cos'è la vita senza un po' di divertimento?» chiese la donna con un bel sorriso, che contagiò Cecilia, pur non convincendola a salire. Si avviò a camminare.
Ci avrebbe messo ben quarantacinque minuti, ma non le dispiaceva camminare per le strade di Roma. Amava guardare il fiume Tevere che scorreva: le ricordava come il tempo andasse avanti inesorabilmente, e che non si poteva cambiarlo una volta che era passato.
Mentre camminava, si ritrovò nei pressi del Fatebenefratelli. Ricordò che una sua compagna di scuola, Sofia, le aveva parlato di quell'ospedale, perché ci lavorava. Le aveva raccontato di un morbo che girava per Roma, che affliggeva molti degli ospiti dell'ospedale, tra i quali moltissimi ebrei.
«Ti rendi conto della fortuna, per quelle bestie. Proprio ora che li stavano per portare via. Ma tanto prima o poi la malattia dovrà passare». Cecilia era rimasta totalmente sconvolta dalle parole della sua amica. Si chiedeva come potesse parlare così di quelle persone, che cosa avessero fatto per essere etichettate in quel modo.
Purtroppo, la sua amica era una Giovane Italiana, fascista convinta: per quello concordava con le idee malsane riguardanti gli ebrei. Chissà dove li porteranno!, si era chiesta Cecilia, immersa nella preoccupazione.
Camminò, andando leggermente oltre la struttura, completamente presa da quei pensieri negativi.
Le cadde la borsetta e, nel raccoglierla, vide un volto conosciuto che usciva dall'ospedale: la distolse dalle parole orribili che le aveva detto la sua amica. Erano passati più di dieci giorni da quando l'aveva visto per l'ultima volta. Si era chiesta per molto tempo che fine avesse fatto.
«Ciao!» disse lui con un sorriso smagliante, i capelli ricci sempre in disordine. Le si avvicinò lentamente.
«Come mai nell'ospedale?» chiese Cecilia preoccupata. Lui era ebreo: poteva essere stato paziente per aver contratto il morbo di cui le aveva detto la sua amica.
«Sono scappato dal ghetto. Diversi di noi l'hanno fatto. Il medico del Fatebenefratelli ci ha aiutati».
Cecilia rimase sconvolta. Pensò che allora non tutti fossero dei demoni scesi in terra, e che qualche anima pia ancora esistesse. «Sono contenta». Gli sorrise, abbassando gli occhi a terra, imbarazzata dallo sguardo che lui le aveva assestato. «Posso chiederti come?»
«Innanzitutto con questo». Le mostrò un documento falso con un nome cristiano. Cecilia vi lesse sopra "Carlo Bianchi". «Ha detto che con questo posso andare in un convento. Anche se non so se voglio andarci. Se andassi in convento mi sentirei un orfano». Si guardò le scarpe. Fece per schiarirsi la gola, ma non uscì alcun suono dalla sua bocca.
«È stato molto gentile. Deve aver rischiato molto!» disse Cecilia, cercando di porre fine a quel silenzio carico di dolore del suo amico.
«Pensa un po'» disse, avvicinandosi alla ragazza. Parlava sottovoce per non farsi sentire: potevano esserci ovunque orecchie pronte a ficcanasare. «I tedeschi avevano capito che diversi di noi si erano rifugiati qui, infatti sono venuti per dei controlli. Borromeo, il dottore che ci ha nascosti, ha detto loro che eravamo tutti affetti da una malattia altamente contagiosa, ma non era vero. Se l'era completamente inventato».
«Che malattia?» chiese Cecilia curiosa: voleva tutti i dettagli.
«L'ha chiamata morbo di K. Come ti ho detto se l'è inventata di sana pianta. Ci ha solo detto che dovevamo tossire se per l'ospedale girava qualche ospite "indesiderato"». Il dottore doveva riferirsi a qualche ufficiale nazista o fascista, pensò Cecilia. Lui disse di aver tossito sempre come un forsennato. Addirittura, una volta, talmente che si era sforzato, aveva perso un po' di sangue dalla bocca, rendendo più credibile il suo essere malato. «Dovevamo aspettare per i documenti».
«Che storia assurda, ma affascinante!» esclamò Cecilia, con lo sguardo illuminato.
«Ora il vecchio me è morto di morbo di K. Il mio nuovo me si chiama Carlo».
«Vedi di andartene in un luogo sicuro, adesso» disse Cecilia, mordendosi il labbro inferiore e sorridendo. «E dimenticati che sei un urtista. I cristiani non vendono santini».
Lui sgranò gli occhi, ricordandosi del suo lavoro precedente. «Grazie per avermelo detto. Domani avrei rischiato di andare in piazza a venderne qualcuno. Ma grazie al tuo "allarme rosso" non lo farò».
Cecilia rise. Per quanto non fosse una battuta affatto divertente, le faceva provare una gioia infinita che il suo amico stesse bene. «Ci vediamo» disse, guardandolo nei suoi occhi verdi. Gli lasciò un bacio leggero sulla guancia. Vedendo il volto di lui illuminarsi, disse: «Non farti venire strane idee. Noi due siamo solo amici».
«Ma certo. Che ti salta in mente?» Fece lo spiritoso, con un gesto della mano che sembrava spostare l'aria. Iniziò a camminare, poi si voltò e urlò: «Se beccamo».
A Cecilia scappò da ridere a quella espressione in romano stretto. Sperava che si sarebbero rivisti presto. Gli ripeté: «Ciao!»
Riprese a camminare. Avendolo rivisto si sentiva più leggera. Aveva un sorriso smagliante sul volto: le si potevano contare tutti i denti. Prese ad avanzare saltellando, come una bambina felice che aveva ricevuto il regalo più bello del mondo.
Per quanto aveva corso, non si accorse di essere giunta velocemente a casa. Ci aveva messo decisamente meno di quarantacinque minuti, non contando i minuti della chiacchierata con l'amico.
Vide Anastasia accovacciata alla fontana che avevano fuori casa. L'acqua era potabile e fresca, quindi spesso si fermavano a berla.
«Avevi molta sete, eh?» chiese Cecilia notando che la sorella non si alzava.
Quando la gemella prese a muoversi, un'ondata d'acqua la raggiunse in pieno viso. Cercò di spostarsi, ma la sorella direzionava l'acqua ovunque lei andasse, tenendo il dito sotto il beccuccio. «Te l'avevo detto che te l'avrei fatta vedere. Dovevi credermi!»
Quando l'ondata smise, Cecilia era fradicia: tremava dalla testa ai piedi, e il poco rossetto, la cipria e la polvere azzurra sugli occhi le si erano squagliati sul viso. Sapeva di essere spesso additata per la sua abitudine di usare il trucco, ma le piaceva utilizzarlo, perché la faceva sentire bella.
Anastasia le fece delle smorfie. «Ridi, pagliaccio!» Cantò, prendendola in giro.
«Ora ti prendo!» urlò Cecilia, iniziando a rincorrerla. «Avrai quello che ti meriti».
Anastasia fu abbastanza veloce da svignarsela in casa, senza che Cecilia fosse riuscita neanche ad avvicinarsi di un centimetro per prenderla.
Notò che la macchina era stata posta nel capanno, dal quale era stata presa quella mattina. Entrò in casa, e Celeste e la zia Clara la fissarono iniziando a ridersela; la madre non accennò né una risata né un urlo di rabbia. «Grazie. Mi siete state molto d'aiuto», rimbrottò Cecilia con il broncio ed emettendo uno sbuffo simile a quello di un treno.
Fece per andare in bagno, per spogliarsi delle sue vesti totalmente zuppe. Si tolse lo sporco causato dal trucco e si fece una breve doccia calda: l'acqua della fontana esterna era molto fredda in quel periodo, per questo sperava che non si beccasse nulla.
Anastasia entrò in bagno, ridendo sotto i baffi. Cecilia la divorò con lo sguardo. «E fattela una risata, ogni tanto».
«Ride bene, chi ride ultimo» le rispose la gemella furiosa. Le aveva conciato male il suo unico vestito buono, e la sua reputazione era rovinata, perché alcuni ragazzi che passeggiavano nei dintorni l'avevano vista completamente bagnata: le si erano intraviste tutte le forme. In qualche modo gliel'avrebbe fatta pagare.
****
A Celeste dolevano le gambe a furia di andare avanti e indietro a servire i tavoli. Aveva lasciato chiuso il pub tutta la mattinata per partecipare ai festeggiamenti, per aprire nel primo pomeriggio. Con sua grande sorpresa, il locale si era gremito di clienti in poco tempo, e la cosa non poteva farle che piacere. Tuttavia, a servire ai tavoli c'erano stati solo lei e il povero Leonardo, che si era sforzato a zigzagare fra i tavoli con vassoi pieni di pietanze e boccali di birra.
Col senno di poi, Celeste pensò che avrebbe potuto chiamare entrambe le gemelle per aiutarla, ma Cecilia sembrava sparire nei momenti meno opportuni, per cui chiamò solo Anastasia a cui affidò il compito di restare nella cucina.
Nonostante le difficoltà in cui si trovavano quel giorno, era contenta che Leonardo fosse lì presente. L'aveva già aiutata in passato e l'aveva fatto anche nell'ultimo periodo con il pagamento dell'ultimo carico di rifornimento per il pub. Ma a Celeste distruggeva il cuore vederlo zoppicare tra i tavoli; l'artrosi inibiva sempre di più i suoi movimenti. Tuttavia, Leonardo era comunque un gran lavoratore e non si faceva scoraggiare dalla sua condizione fisica. Soprattutto perché la maggior parte dei clienti erano uomini ed erano suoi amici, e adoravano essere accolti dall'uomo.
Erano quasi le nove di sera quando il locale aveva iniziato a sfollarsi. Quel giorno, per le poche ore che erano stati aperti, Celeste aveva incassato più di tutta l'intera settimana e non vedeva l'ora di raccontarlo alle altre donne di casa.
Quando alzò gli occhi dalla cassa incontrò quelli di Leonardo; i due si scambiarono uno sguardo complice, mentre l'uomo si avvicinava al bancone. Celeste chiuse la cassa e si avvicinò verso i tavoli.
«Riposa, campione! Adesso ci penso io a sistemare qui» disse lei, dandogli una pacca sulla spalla.
«Il lavoro è tutto tuo» le rispose ridendo, mentre si appoggiava con il gomito al bancone; la sua attenzione rivolta verso di lei.
Mentre Celeste cercava di dare una sistemata ai tavoli si sentì strisciare tra le gambe qualcosa di morbido e peloso.
«Ehi, tu! Furbacchione, chi ti ha lasciato entrare!» Il rimprovero era rivolto a un pelosissimo gatto rosso che continuava a strusciarsi tra le sue caviglie, regalando fusa in cerca di prelibatezze. Celeste fingeva ogni volta di scacciarlo via, ma non prima di aver rimpinzato il suo stomaco.
Non li gradiva più di tanto, ma questo gatto pareva adorarla, e di conseguenza lei adorava lui. Lo grattò sotto il mento, proprio lì dove aveva una piccola macchiolina bianca. Era comparso dopo la morte del padre, per cui Celeste aveva preso l'apparizione del gatto come un segno del destino.
«Sta' attenta a quello lì. Potrebbe avere le pulci» l'ammonì Leonardo. Celeste gli fece la linguaccia. In tutti quegli anni, non avevano mai capito se il gatto fosse un lui o una lei, ma il fatto che non avesse invaso il pub di gattini non lasciava dubbi al caso.
Il pub ospitava ancora qualche cliente ritardatario, per cui, per buona creanza, decise che fosse meglio prendere qualcosa per il gatto e farlo mangiare in cucina.
La signora Dora, un'anziana donnina dal viso amorevole che si occupava di preparare le pietanze, accolse in malo modo la presenza del micio. Non voleva di certo che i peli andassero a finire nel cibo! Tuttavia, si rassegnò alla presenza del suo nuovo amico.
Anastasia, che stava lavando le stoviglie ed era immersa nelle bolle di sapone, sorrise alla presenza del gatto. Celeste e Anastasia si scambiarono uno sguardo d'intesa, finché non sentirono un gran baccano provenire dalla sala.
Quando Celeste uscì dalla cucina, le si pietrificò il sangue nelle vene. Nel pub erano appena entrati numerosi soldati tedeschi. Ridevano e si spintonavano tra di loro, prendendo rumorosamente posto ai tavoli vuoti. I pochi clienti che si erano attardati al pub, alla vista dei tedeschi, si alzarono, pagarono e ringraziarono, imboccando di corsa l'uscita.
Celeste lanciò uno sguardo di rassegnazione verso Leonardo, che aveva abbandonato del tutto il suo atteggiamento rilassato. «Se sei stanco, vai. Ci penso io qui» lo rassicurò lei.
«Lasciandoti qui tutta sola? Non ci penso nemmeno» le rispose con un'espressione sul viso che non ammetteva repliche.
Celeste aveva sperato segretamente che non l'avesse abbandonata, e lui non l'aveva fatto. Si sentì sollevata; non avrebbe dovuto affrontare la situazione da sola.
Leonardo non aveva solo la postura rigida, ma anche uno sguardo truce, rivolto verso un punto in particolare, e quando seguì la direzione del suo sguardo, Celeste aprì la bocca per lo stupore. Seduto ad uno dei tavoli c'era il tedesco dai capelli biondo rame con cui aveva parlato nelle strade di Roma qualche settimana prima. L'aveva guardata a sua volta, per poi distogliere lo sguardo, direzionandolo verso qualcuno di ancora più inquietante: al suo fianco c'era il tenente Fischer. Lui non la stava guardando, però. Per sua fortuna.
Le venne la gola secca, ed ebbe quasi l'impulso di bere una brocca di birra, ma pensò che non sarebbe stato il caso, dal momento che era la bevanda più richiesta dai clienti.
I tedeschi avevano occupato tre tavoli, a ciascuno dei quali sedevano almeno tre o quattro di loro, ma ancora nessuno aveva fatto cenno di voler ordinare. Celeste, non volendo aver a che fare con nessuno di loro, si diresse spedita verso il banco aspettando fossero pronti con le loro richieste.
Ogni tanto guardava nella direzione del soldato con cui aveva parlato. Si potevano definire amici, per una volta che si erano parlati? Certamente no. Nella loro prima interazione, lui le era parso cordiale, nonostante lo screzio dovuto all'insulto ai tedeschi, e le altre poche volte in cui si erano visti era sempre stato gentile con lei, nonostante lei gli si rivolgesse sempre in malo modo; ma in quel momento non la stava degnando di uno sguardo. Neanche un cenno di saluto nella sua direzione; la stava degnando di una fredda indifferenza, e se le cose stavano così, lei gli avrebbe offerto lo stesso.
«Quando saranno pronti, lor signori, servo io ai tavoli» dichiarò ad un tratto Leonardo, facendola sobbalzare. Era così sovrappensiero, che non si era accorta Leonardo si fosse avvicinato.
«Va bene» rispose Celeste, cercando di sembrare impegnata a sistemare i bicchieri. Ma ormai la presenza del tedesco insieme al tenente Fischer era una distrazione troppo forte, e infatti, guardò ancora nella loro direzione. La prima cosa che vide fuori posto: un gatto.
Quando si accorse che era il "suo gatto", si impanicò. Evidentemente era sgattaiolato fuori dalla cucina quando ne era uscita. Non voleva certo che i clienti la accusassero di poca igiene perché gironzolava un gatto randagio per il pub, e sicuramente non voleva che l'accusassero i tedeschi, dal momento che nell'incontro precedente, il tenente Fischer l'aveva quasi minacciata con la storia del padre.
Sfortuna voleva che il gatto si strusciasse proprio sui suoi stivali. Gli miagolava e faceva le fusa, per poi sedersi definitivamente sul piede sinistro. Celeste temeva che quella povera anima avrebbe fatto la fine di una gallina nel brodo. Quando il tenente Fischer abbassò lo sguardo, aveva la sua solita espressione truce, come se si aspettasse di vedere spuntare qualche nemico da sotto il tavolo. E invece, gli si illuminarono gli occhi quando vide il micio, portandolo ad abbassarsi subito per accarezzargli la testa e il mento.
«Hallo, mein Freund!!» Ciao, amico mio, parlò in tedesco al gatto, quasi si aspettasse che potesse capirlo. «Hans, sieh ihn dir an!» Hans, vieni a vedere! si rivolse al tedesco con i capelli biondo rame.
«Il nostro Rolf potrebbe ingelosirsi» gli rispose l'altro - Hans -, guardandoli con un sorriso. Poi si girò nella direzione di Celeste, e il suo sorriso si allargò ancora di più dopo aver notato che la ragazza aveva guardato tutta la scena, con la bocca spalancata per l'incredulità.
Era ovvio che fosse incredula; lo era per il fatto che persone come loro, che non si facevano remore ad uccidere vite umane, riuscivano a farsi intenerire da un gatto. Il mio gatto!, pensò lei. Che tra l'altro accettava di farsi accarezzare di buon grado! Era pronto a cambiare bandiera per un po' di pappa in più.
Celeste si diede un contegno e ricambiò il suo sguardo. Ovviamente, gli offrì uno sguardo sprezzante che lui, da dove era seduto, comprese, inarcando un sopracciglio.
Celeste, suo malgrado, dovette guardare altrove. Non voleva dargli altre attenzioni.
Intanto, il tenente Fischer si era trasformato in un bambino all'interno di un negozio di caramelle. Aveva preso il gatto e se l'era messo sulle gambe, ed esso, gradendo le attenzioni, si lasciava grattare sotto il mento molto tranquillamente. Era difficile non guardarli, dal momento che Celeste era così diffidente di quella finta gentilezza: aveva paura che fosse un modo dei tedeschi per conquistare la fiducia di qualcuno, per poi staccargli la testa.
E, ovviamente, l'attenzione di Celeste venne catturata nuovamente dal soldato al suo fianco - che poteva farci se era seduto proprio affianco a lui - che non aveva smesso di guardare nella sua direzione.
Celeste cercò di deglutire, ma aveva la gola secca, che divenne ancora più arsa quando il tedesco si accese una sigaretta, aspirando per poi rilasciare il fumo dal naso, lasciando che gli ondeggiasse intorno al viso. Tutto questo, senza mai smettere di guardarla.
Se Celeste si era sempre vantata di avere fegato, in quel momento comprese che fosse un autoinganno bello e buono che si era creata, perché la situazione era diventata insostenibile per lei. Perciò, decise di scappare in cucina, riscuotendo sguardi interrogativi da Anastasia.
«Allora? Che cos'è tutto questo baccano? Ci sono problemi?» le domandò preoccupata la sorellina.
«No, tranquilla! Continua a lavorare» disse, ma aveva paura che avesse risposto in modo troppo brusco. Si rivolse alla signora Dora. «Dora, continuo io qui. Potrebbe occuparsi della cassa?» La signora le rispose con il suo sorriso sdentato, per poi uscire con andatura traballante dalla cucina.
Celeste decise che si sarebbe chiusa lì dentro fin quando non se ne sarebbe andato.
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Quando Johann l'aveva convinto ad entrare in quel pub, gli aveva detto che fosse il locale migliore della zona, e lui l'aveva seguito senza esitazione; l'avrebbe seguito dovunque.
Ma quando vide la ragazza che cercava da settimane, attivò tutti i suoi cinque sensi. Da quella volta in strada di fronte alla caserma, non l'aveva più vista. Sembrava essere scomparsa nel nulla. Ma adesso eccola lì.
«Johann» si rivolse al compagno cercando di richiamare la sua attenzione. Il quale non lo degnò di nemmeno un'attenzione, troppo impegnato qual era a fare le moine al gatto. «Johann!» Il richiamo al suo compagno fu accompagnato da un calcio nello stinco, facendo spaventare il gatto, il quale scappò dalle gambe di Johann.
«Ahi! Che male! Ma che diavolo ti prende? Oh... hai visto? L'hai fatto scappare!» si lamentò Johann mentre si massaggiava la parte colpita. Hans alzò gli occhi al cielo, mentre Johann cercava di conquistarsi di nuovo la fiducia del gatto.
«La persona di cui ti parlavo; è qui. Sta dietro la cassa» gli disse Hans con urgenza. Johann, che aveva appena recuperato un po' di lucidità, guardò nella direzione della cassa.
«Per Dio, fratello, ma hai perso i lumi della ragione? Ti riferisci a quella vecchia ciabatta?» esclamò Johann, indicando una amabile vecchietta che sorrideva senza denti a nessuno in particolare.
Hans si guardò intorno più volte, sperando che nessuno li avesse sentiti. «No, Johann! Non la vecchia ciabatta! E poi tu non credi in Dio!» disse Hans con un moto di stizza: non c'era motivo che Lo nominasse, secondo lui che invece era credente. «È entrata in una porta e non ne è più uscita» continuò Hans, con aria assorta.
«Beh amico! Certo che se ogni volta che ti vede scappa, se fossi in te me la farei una domanda». Johann esplose in una risata mentre pronunciava quelle parole. «Saresti dovuto andare a parlare con lei» lo rimproverò in modo bonario, dandogli una pacca sulla spalla. Hans si scostò stizzito.
«Posso portarvi qualcosa?» propose il cameriere del pub, interrompendo la conversazione. Tuttavia, Hans non poté fare a meno di notare che il tono con cui aveva parlato non era né cordiale né servile. In effetti, quel ragazzo lo aveva fissato da quando erano entrati, con quei suoi occhi scuri carichi di rabbia. Effettivamente, non da quando erano entrati, ma da quando aveva fatto quel gioco di sguardi con la ragazza misteriosa. Cos'era per lei? Forse suo fratello? O peggio, il marito? Si domandò se Johann se ne fosse accorto.
«Certamente! Sei capitato proprio nel momento opportuno! Per caso la ragazza che era prima alla cassa è illibata? Ah, e poi gradiremmo due birre, grazie». Hans cercò di nascondere una risatina, e di certo non per l'italiano malandato di Johann; sì, se n'era decisamente accorto. Difficilmente a Johann poteva sfuggire qualcosa, motivo per cui non aveva segreti con lui.
Il cameriere indurì la mascella. «Sarete serviti a breve» rispose semplicemente, per poi andarsene.
«Ehi! Ti ho fatto una domanda. Rispondi!» Johann non sembrava più divertito o rilassato, e aveva sputato fuori le parole con un disprezzo tale, che Hans temeva che avrebbe preso a pugni il garbato cameriere.
Quest'ultimo si fermò, stringendo i pugni lungo i fianchi. «No, non è sposata» rispose infine.
«Allora è fidanzata?» lo incalzò Johann.
«No» rispose in modo secco quell'altro, per poi andare via definitivamente.
«Dankeschön! Arschloch» Grazie mille! Coglione, gli urlò dietro Johann, enfatizzando l'ultima parola. «Ecco, vedi? Il fiorellino è tutto tuo, e non aspetta altro di essere colto» gli disse Johann, a cui era finalmente tornato il buon umore.
Intanto, il gatto, che aveva finito la sua ispezione tra i tavoli, incominciò a grattare la porta dietro cui era scomparsa la ragazza misteriosa, la quale sentendo i rumori, uscì finalmente dal nascondiglio in cui si era nascosta per prendere il gatto in braccio e portarselo di nuovo dentro.
Entrambi i soldati avevano visto la scena, e quando Johann guardò il volto di Hans, che si era illuminato a festa, alzò gli occhi al cielo. «Hans... non dirmi che è lei» si coprì il viso portandosi una mano al volto, come una madre rassegnata all'ennesimo guaio del figlio.
«Invece è proprio lei» sorrise Hans tra sé e sé.
«Perbacco, se avessi saputo che fosse lei fin dall'inizio non ti avrei portato qui. Suo padre è stato arrestato per dissidenza dai fascisti. E... sai come si dice: il frutto non cade mai lontano dall'albero, per cui non ti puoi fidare di lei» disse Johann in tono paternalistico, cercando di dissuadere il compagno.
«Beh, di sicuro adesso si spiega da chi ha preso tutta quella sfrontata ostinazione» rispose Hans. «Adesso, raccontami tutto ciò che sai su di lei» chiese con un sorriso ebete Hans all'amico, il quale obbedì, aggiungendo qua e là qualche dettaglio per far dissuadere l'amico.
Solo che quando Hans si metteva in testa qualcosa, non si dava mai per vinto, e non l'avrebbe fatto neanche quella volta.
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Questioni storiche e culturali.
•La festa della Marcia su Roma era una ricorrenza che realmente veniva festeggiata con parate e sfilate nel periodo fascista.
•Warum? è una bellissima canzone lirica tedesca. Qui il link.
•La storia del morbo di K ci ha affascinate dal primo momento in cui ne abbiamo sentito parlare. Il rischio che i medici hanno corso pur di salvare qualche persona in più dalle deportazioni naziste andava assolutamente inserito, quale importante dettaglio che lascia speranza che qualche persona non sia totalmente corrotta dell'ideologia dominante.
Insomma, siamo giunti a un nuovo aggiornamento. Cosa ve ne pare? La zia vi piace, come abbiamo scelto di rappresentarla: sì, è uno spirito libero travestito da suora 🤣❤. Quanto è carina Cecilia, che finalmente, dopo molto tempo rivede il suo amico? E quanto sono dolci Hans e Johann in questo momento che sembra risvegliare in loro uno spirito bambinesco, fortunatamente non del tutto scomparso.
E tenetevi pronti... ci sarà un colpo di scena nel prossimo capitolo.👀👀
Fateci sapere con un breve feedback come vi sembra finora la storia. Grazie mille anche per le letture finora raggiunte. Vi aspettiamo nei prossimi capitoli, ❤
Lilingel
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