•XII•
Ottobre 1943
La mattina del 16 ottobre tutti dormivano, nella comunità ebraica di Roma. Era Shabbat, quindi ci si alzava più tardi, essendo un giorno festivo.
Marco Ferrara non dormiva da due giorni. Il saccheggio alla biblioteca della sinagoga lo aveva scosso troppo. Guardava il suo cuginetto, che, invece, dormiva come un angioletto nel letto accanto al suo. Era andato da loro con il permesso della zia, che viveva dall'altra parte del ghetto. Nonostante si vedessero spesso, il bambino amava dormire dagli zii.
Marco si beava di quella vista. Disse: «Beato te, ch’almeno dormi», sorridendo sotto i baffi.
Nonostante il disastro nella biblioteca, il venerdì si era comunque dedicato allo studio, essendo uno dei comandi per celebrare quella giornata di festa importante.
Era appena spuntato il sole, quando decise di alzarsi. Girò un po' per casa. Si soffermò, non per poco tempo, a guardare i suoi genitori dormire mano nella mano. Sorridevano. Sembravano in pace.
Si commosse a quella vista. Sperava un giorno di poterlo fare con la ragazza che amava tanto, ma che non sembrava ricambiarlo, o almeno non del tutto.
Fece per uscire un po' all'aria aperta. Andò a chiamare alcuni suoi amici. Li svegliava sempre nello stesso modo.
«Perché hai tirato ‘sti maledetti sassolini, a st'ora? Stavo a dormì». Bartolo era assonnato alla finestra, e guardava l'amico, stiracchiandosi le braccia.
«Con ‘sto bel tempo, pensi a dormì?» disse Marco con un enorme sorriso, in quel dialetto condiviso dalla comunità.
«Sei ‘n guastafeste». Marco l'aveva interrotto mentre sognava finalmente di baciare la sua fidanzatina. «Scendo» disse, però, contento di stare un po' con l'amico. Non erano stati più insieme dal giovedì, quando volevano studiare tutti insieme in sinagoga.
Chiamò, esattamente allo stesso modo anche Nicola e Giuseppe, altri due ragazzi con i quali lavorava come urtista.
Andarono in giro per il ghetto, parlando sottovoce per non disturbare gli "anziani" dormiglioni.
Giocarono un po' al lancio del sassolino. Le regole le aveva imposte Giuseppe: chi lanciava più sassolini dentro o vicino il vaso vinceva. Marco aveva vinto, centrando il vaso 12 volte. Non dormendo da giorni, i suoi amici se lo sarebbero aspettati pigro e senza forze: invece quel giorno era arzillo.
Mentre tornavano videro la porta del ghetto aprirsi. Entrarono sei camion coperti. Marco e gli altri ragazzi si tennero nascosti, sperando di non essere visti da nessuno, dietro un muretto.
Quando Giuseppe vide i tedeschi sfondare la porta del suo palazzo, si mise quasi a urlare. Marco, istintivamente, gli chiuse la bocca con la mano. «Non urlà, o ce scoprono».
I tedeschi iniziarono a radunare tutte le persone che vivevano nella comunità sul piazzale principale. Tutti avevano le mani in alto, per paura di essere sparati.
Marco notò che un bambino sui 13 anni che conosceva solo di vista tentò di scappare. Un tedesco, dai capelli biondi e ricci che fuoriuscivano dal cappello, non esitò a fucilarlo.
Marco era sotto shock. Le lacrime uscirono dai suoi occhi, come da quelli dei suoi amici. «Che facciamo?» chiese Bartolo con voce tremolante.
«Io l'avevo detto che non me fidavo» disse Marco infuriato. «Non m'ascoltano mai!» Le lacrime scendevano sempre più copiose.
Restarono a osservare la scena dal muretto, sperando con tutte le loro forze che non li vedessero. Marco stringeva tra le sue braccia ancora Giuseppe, che tremava, piangeva. Aveva quasi diciotto anni, ma in quel momento si sentiva come un bambino indifeso. Era spaventato a morte.
«Io credo che dobbiamo annà via» abbozzò Marco in dialetto, senza più inclinazione di emozione nella voce. «Se ce pigliano, ce fanno fori!»
Giuseppe si alzò con il viso sconvolto. «E le nostre famiglie?» Si allontanò dalle braccia dell'amico. «Quello è il tuo cuginetto. ‘O vedi?» indicò il bambino con i capelli ricci che tremava come una foglia dalla paura.
«Noi dobbiamo essere testimoni per tutto quello che è successo, sta succedendo e succederà, Giusè» disse Marco, chiudendo le mani a pugno. «Lo so che quello è mio cugino. E proprio per loro dobbiamo andare via». Si avvicinò lentamente all'amico, per poi prenderlo per le braccia con delicatezza. «È quello che loro vorrebbero». La sua voce tremò.
Giuseppe si liberò dalla presa di Marco. «Voi annate. Io vado da lloro».
«Se te vedono arrivà da qua, t’ammazzano, Giusè» disse Nicola, con forte inflessione dialettale.
Giuseppe esitò un momento. Marco lo vide mentre si voltava verso la sua famiglia: le lacrime gli scorrevano argentee sul viso.
Dopo un po', il ragazzo disse: «Forse sarà da egoisti. Ma c’hai ragione! Dobbiamo salvarci pe’ lloro. Non permetterebbero mai a quei porci di farci del male, qualunque sia la loro intenzione».
«Questo è parlare» disse Marco, dando una pacca sulla spalla all'amico. «Andiamo. Conosco una parte del ghetto dalla quale è possibile uscire senza autorizzazione».
—
Nel piazzale regnava il caos. Tutte le famiglie erano ammucchiate lì, con le braccia alzate. I Ferrara si erano chiesti dove il loro figlio più giovane si fosse cacciato. Cosa ci succederà, se scoprissero che manca un membro della famiglia?, pensò Andrea Ferrara.
Tutti, essendo in molti, si spintonavano. Il carro venne scoperto per far entrare le persone.
Il ghetto era completamente spalancato, tutti potevano entrarvi, anche se c'erano dei posti di blocco all'interno.
Gli ebrei iniziarono ad essere spinti all'interno dei carri con violenza inaudita. La signora Ferrara aveva persino sbattuto uno zigomo sul suo posto a sedere, per quanto fu spinta. Le si formò un piccolo taglio, dal quale non uscì molto sangue.
«Ma quello è mio figlio!» si sentì urlare fuori.
Una donna si avvicinò presso il camion quando una giovane ebrea con un neonato stava per salire. Chi era lì vicino vide quella scena di enorme coraggio.
Il tedesco che guidava l'operazione indossava il cappello, ma tutti vedevano che fosse il perfetto ariano che veniva rappresentato sui giornali propagandistici: occhi azzurri, naso alla greca, sotto il cappello spuntavano dei ricci biondi.
«Was willst du, Frau?» Cosa vuoi, signora? «Du kannst nicht hier bleiben». Non puoi stare qui, disse il giovane, guardando la donna con riluttanza.
«È il mio bambino. Questa ragazza è solo la balia. Gliel'ho lasciato ieri sera, perché oggi dovevo lavorare dal panettiere. Sapete, siamo molto mattinieri noi!»
«Was sagt sie?» Cosa dice? Chiese il più vecchio.
«Dass es ihr Kind ist». Che questo è il suo bambino, disse il più giovane, che un po' di italiano lo capiva, rispetto all'altro.
La donna disse: «Mein Kind. È il mio bambino». Conosceva solo poche parole di tedesco. Per questo pronunciò quelle due parole in quella lingua.
«Portalo via, donna! E non presentarti mai più davanti ai miei occhi» disse il giovane, lasciando prendere alla donna il bambino.
«Grazie» disse la giovane madre ebrea all'orecchio della donna. Dopodiché fu subito spinta sul camion, andando a sbattere contro le gambe di una donna. Sedette accanto alla signora Ferrara.
La donna la abbracciò, perché la ragazza iniziò a piangere. «Sta' tranquilla. Con lei starà benissimo».
****
Hans continuava a fissare il quadro della donna appeso alla parete. Era stato tutta la giornata chiuso nel suo ufficio; i fogli messi da parte in una pila ordinata alla sua destra non aspettavano altro che essere posati negli appositi faldoni, mentre quelli alla sua sinistra aspettavano di essere letti ed analizzati, ma Hans aveva perso la concentrazione già da una ventina di minuti.
Sapeva che, quella, era stata una mattina tragica per molti di loro, e che domani non si sarebbero svegliati nelle loro case, ma all’inferno.
La donna del dipinto pareva quasi rivolgergli uno sguardo accusatorio. Hans lo sapeva; gli ordini del regime non potevano essere messi in discussione, e lui non lo faceva. Ma aveva comunque preferito rimanere in caserma.
Sì costrinse a finire il lavoro alla scrivania, e non si diede pace fino a quando non sistemò gli ultimi documenti. Era stato per così tanto tempo con il capo chino che adesso il collo gli doleva. Vi passò su una mano per alleviare il dolore ai nervi, e si lasciò cadere allo schienale della sedia, rilassando le braccia lungo i fianchi.
La sua attenzione passò all’orologio a pendolo accanto alla porta; erano le 23:30. Aveva bisogno di parlare con una persona amica, oppure aveva solo bisogno di svagarsi: ad ogni modo, Johann sarebbe servito al suo scopo. L’amico riusciva sempre a metterlo di buon umore, con quel suo carattere eccentrico.
Ma una delle tante particolarità di Johann, oltre ad essere eccentrico e riuscire sempre a dire la parola sbagliata per far incazzare qualcuno, era quella di riuscire a sparire sempre sul più bello; nonostante avesse setacciato mezzo edificio, non riuscì a trovarlo. Hans inspirò dal naso e chiuse gli occhi, arreso.
Non avendo nient’altro da fare, andò nell’unico posto dell’edificio che a tarda notte era sicuramente abitato; non tanto perché si aspettava di trovarlo lì, ma perché aveva vagato per buoni venti minuti senza una meta precisa, finché le sue gambe non lo portarono in quella direzione. Tuttavia, quando si ritrovò di fronte alla porta rossa, ebbe un attimo di esitazione prima di entrare.
Seppure avesse avuto lì per lì la tentazione di cambiare i suoi programmi, fu interrotto da due soldati che menarono la porta, uscendo mentre ridevano come oche starnazzanti. Puzzavano di fumo e di alcol. Fu una frazione di secondo, ma prima che la porta gli si richiudesse in faccia, riuscì ad intravedere un ring… e una zazzera di capelli biondi. L’esitazione di poco prima fu sostituita da un urgente bisogno di trovarsi nella mischia.
La prima cosa che Hans avvertì entrando nella stanza fu un fetore di sudore, fumo e alcol.
Lo spazio era disseminato di attrezzi per fare esercizio fisico, ma i suoi compagni lo utilizzavano come luogo di ritrovo. La stanza era piena di soldati, ma la maggior parte di loro era riunita attorno al ring. Era il passatempo preferito tra i più vecchi. Mentre i soldati più giovani preferivano combattere: motivo per cui non si sorprese di vedere Johann mentre assestava un pugno al suo avversario, stordendolo.
Hans ebbe l’impressione di conoscerlo, per i suoi capelli rossi; si chiamava Karl Braun ed era uno dei soldati che avevano cercato di far carriera insieme a lui ed Johann. Ma Hans e Johann si erano distinti in guerra, ed erano stati promossi Ufficiali quasi subito, mentre Karl Braun no. E mentre Hans non aveva mai scambiato più di qualche parola con lui, Johann trovava sempre un modo per arrivarci alle mani.
Hans aveva intuito che c’era qualche conto in sospeso tra i due, solo che non aveva ben capito se riguardasse la rivalità sul posto di lavoro o se riguardasse la sorella di Karl.
Johann esultò per la sua breve vittoria, allargando le braccia verso il suo pubblico, come un gladiatore che accoglie la gloria, mentre Karl si appoggiava sfinito e sanguinante alle corde del ring, cercando di recuperare. Johann era vestito con dei calzoni neri e la canottiera, attraverso cui risaltava il suo fisico muscoloso e asciutto. Sembrava chiaramente ubriaco per il modo in cui barcollava. «Meine Freunde!» Amici miei! urlò, rivolgendosi ai suoi spettatori, consapevole di avere tutti gli occhi puntati su di lui. «Ehre sei Deutschland!» Gloria alla Germania! esclamò, generando un boato di consenso da parte dei loro compatrioti. Dopodiché si spostò con nonchalance, rubando un bicchiere di birra dalle mani di un soldato che assisteva fuori dal ring, così vicino che ebbe la possibilità di prenderglielo senza problemi e scolarselo velocemente. Johann restituì il bicchiere svuotato al suo proprietario, dicendogli un “Grazie bello”, ma guadagnandosi una caterva di insulti in segno di protesta da parte di quest’ultimo.
Intanto Karl sembrava essersi ripreso, tant’è che cercò di cogliere di sorpresa il suo amico mentre era di spalle, ma Johann fu più veloce. Si girò in un lampo e gli assestò un altro pugno in pieno viso. Anche se Johann era barcollante, l’alcol non sembrava inibirlo nei movimenti. Ma Hans sapeva che il suo amico era un mistero, tant’è che non riusciva mai a capire se fosse ubriaco sul serio oppure fingeva di esserlo.
Tuttavia, la buona sorte di Johann finì, poiché Karl riuscì a stenderlo con un solo pugno sul mento. Johann finì sulle corde del ring sputacchiando e ridendo. Hans sorrise a sua volta, avvicinandosi a lui e trascinandolo giù dalla pedana. A Johann si illuminarono occhi appena lo vide, ed esclamò: «Mein Bruder!», appoggiandosi a colui che considerava come un "fratello". Hans, quando l'amico gli si avvicinò al viso, sentì l'evidente puzza dell'alcol: lì per lì gli venne il voltastomaco - anche lui beveva, ma non arrivava mai a quel punto. «Dannazione… quello stronzo è riuscito a stendermi» disse Johann tra le risate, in un tedesco talmente camuffato dall'alcol da renderlo quasi incomprensibile allo stesso Hans.
«Qualcuno doveva pur toglierti quell’aria da spaccone che avevi sulla faccia» rispose Hans, mentre appoggiava il suo amico su una sedia e prendeva delle bende e dell’alcol per medicargli le ferite sul viso.
«Che cos'hai contro il mio bel faccino?» domandò Johann, appoggiandosi allo schienale della sedia e sorridendo a trentadue denti.
Ad un certo punto iniziò a spintonare Hans giocosamente, che rispose all’attacco. «Vedo che non ne hai ancora prese abbastanza!» lo incalzò il giovane.
«Va bene, va bene» rispose Johan, arrendendosi. «Lo sai che per te sarei disposto a prendermi una pallottola e che non oserei mai lottare contro di te, fratello». Era sempre stato così tra lui e Johann fin da quando si erano arruolati nell’esercito ed erano solo dei ragazzini gracili. Si erano addestrati insieme, avevano condiviso la stessa stanza, lo stesso campo di battaglia, ed erano stati promossi insieme. La guerra li aveva cresciuti, li aveva fatti diventare dei buoni soldati: i perfetti figli della Germania. Johann gli diceva che era fermamente convinto di ciò che gli avevano insegnato e aveva fiducia nel loro Führer.
Hans sapeva che il suo amico era molto di più di quello che voleva fare apparire. Johann era difficile da comprendere: lasciava trasparire il suo vero io solo con chi si fidava, e la sua fiducia era riservata veramente a pochissime persone, tra cui lui.
«Grazie per aver lasciato che fossi io a portare avanti l'operazione, stamattina». Hans sapeva a cosa si stesse riferendo il suo amico, e per questo sentì un moto di disagio. «È stato un compito difficile, ma lo farei mille volte ancora per la nostra patria» continuò Johann. Hans abbassò gli occhi, cercando di evitare il suo sguardo.
«Non c’è di che» rispose infine. Cercò di essere disinvolto. Il suo amico lo stava ringraziando perché aveva creduto che lui avesse voluto lasciargli la scena per farlo emergere, e glielo lasciò credere. Perché non ho condotto io l'operazione?, pensò. Il problema era che non lo sapesse neanche lui.
«Lo sai, non sono tagliato per l’azione» continuò Hans, sentendo il bisogno di colmare il silenzio che si stava creando tra i due. Johann lo guardò, questa volta seriamente. Ogni traccia di allegria era sparita al suo volto. Guardava Hans intensamente, come se lo stesse studiando. Era questo che intendeva quando diceva che Johann era imprevedibile: un attimo prima sembrava ubriaco e l’attimo dopo era sull’attenti.
«Ho conosciuto una ragazza». Hans non sapeva perché lo disse, così tutto a un tratto. Forse per distogliere l’attenzione dall'argomento pungente che l'amico aveva cacciato fuori.
L’espressione di Johann cambiò, passando dal sorpreso all’allegro e poi a uno sguardo ammiccante. «Beh… se me ne stai parlando deve essere qualcosa di serio» disse l'amico, mettendo un braccio intorno alla spalla di Hans. «Ma immagino che tu non me l’abbia detto per cercare dei consigli da me» gli disse mentre gli faceva un occhiolino.
«No, infatti. Non so neanche come si chiami» rispose Hans. Se la conversazione di prima lo faceva sentire a disagio, adesso questa stava iniziando a innervosirlo.
«Allora non l’hai conosciuta davvero. Forse, hai conosciuto altre parti di lei?» lo prese in giro Johann. Hans colse il doppio senso, e cercò di mettere da parte quei pensieri in una zona recondita della sua mente. Gli venne la gola secca, e si riempì un bicchiere di birra, scolandoselo tutto. Appena posò il bicchiere vuoto, riportò l’attenzione sul suo amico e si accorse dell’aria divertita sul suo volto.
«No» rispose secco. «Non ho conosciuto nessuna parte di lei. Ma intendo trovarla e tu devi aiutarmi» gli disse in tono serio.
«Cavoli, fratello. Sei davvero fregato!» esclamò Johann dandogli delle pacche sulle spalle in modo apprensivo. Amava il suo amico come un fratello, ma a volte avrebbe veramente voluto farlo sparire, per l'imbarazzo in cui lo faceva sempre precipitare.
La conversazione si concluse con Hans che si allontanava dalla stanza e Johann che urlava: «Ehi! Ma che ho detto di male?» Il fatto che non se ne rendesse conto infastidiva Hans anche di più. Tornò nel suo ufficio a fissare la strada.
Una parola catturò la sua attenzione: una voce femminile e stridula, forse di una ragazzina, che urlava "Celeste!" Era la seconda volta che sentiva quel nome. Ma non vide nessuna donna, nella folla, girarsi a quel richiamo.
o 0 O 0 o
Eccoci con un nuovo aggiornamento. Purtroppo il rastrellamento del ghetto di Roma è storia ormai conosciuta. Un particolare, durante le nostre ricerche, è stata la scoperta di questa donna, che con coraggio ha preso in casa sua il bambino di una giovane ebrea, pur di salvarlo da, praticamente, morte certa.
Cosa sarà successo a Marco e i suoi amici urtisti?
Come vi sembrano Hans e Johann in uno di quei pochi momenti in cui risultano forse più spontanei: Johann per il suo essere un assiduo bevitore di alcol e Hans per il suo imbarazzo?
Fateci sapere con un breve feedback. Alla prossima ❤️,
Lilingel
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