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Premessa al capitolo.
Ci sono alcune parole che fanno capo alla cultura ebraica che compaiono nel testo. Per spiegare più o meno di che cosa si tratta inseriremo delle note proprio a lato del paragrafo.
C'è inoltre la citazione di un importante antropologo francese che avrebbe teorizzato la superiorità della razza ariana all'interno di un suo testo. Anche informazioni su di lui saranno messe a lato, se vi incuriosisce.
Buona lettura. ❤️❤️
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La mattina di giovedì, 14 ottobre, nessuno si sarebbe mai aspettato quel che successe: orde di tedeschi giunsero all'interno del ghetto. Erano a piedi, o all'interno di camionette.
Il signor Terracina, preoccupato, chiese a quegli uomini cosa volessero e se potesse essere d'aiuto, ma non era semplice la comunicazione, visto che non parlava tedesco, e gli uomini dinanzi a lui non sembravano intenzionati a parlare in italiano.
Cercava di fermarli in tutti i modi possibili, affinché gli abitanti del ghetto non si spaventassero: voleva trovare una soluzione per ciò che i tedeschi volevano.
Si stavano recando, sul luogo della discussione tra Tommaso Terracina e i tedeschi, alcuni giovani membri della comunità, che stavano andando in sinagoga a studiare. Ormai era divenuta quasi l'unica attività che potessero fare.
Senza alcun dubbio qualche miglioramento nelle loro condizioni c'era stato, da quando il prezzo dell'oro era stato pagato: le persecuzioni erano di gran lunga diminuite, non ricevevano più insulti da quei pochi ariani autorizzati a entrare nel loro "quartiere". Le condizioni di salute rimanevano sempre pessime: il Tevere era esondato due volte, quella settimana, allagando tutta Piazza Giudia. Le malattie dilagavano, a causa della mancanza di medicine: nonostante il prezzo pagato, di benefici sanitari non ce n'erano stati.
I ragazzi erano giunti presso il piazzale, correndo con i libri per lo studio in mano. Terracina bloccò bruscamente il ragazzo che apriva la fila. Si trattava del giovane Marco Ferrara. «Oggi non puoi studiare, ragazzo. Nessuno di voi può!» Tutti i ragazzi andarono via con il muso lungo, tranne Ferrara.
Marco notò l'atteggiamento ansioso dell'uomo, solitamente tranquillo, e gli chiese se fosse tutto a posto. L'uomo, che faceva da muro, disse che stava bene e non ci fossero problemi.
Vedendolo in quello stato, il ragazzo si sporse oltre la sua spalla e si accorse che i tedeschi si dirigevano proprio dentro la sinagoga. Si chiese per quale motivo entrassero in una sinagoga, non essendo ebrei. Anche Terracina ancora non aveva capito il motivo di "quella visita inaspettata" e si chiedeva quale fosse l'obiettivo prefissato di quegli uomini fuori controllo.
Tutti lo scoprirono non molto dopo. Dei tedeschi iniziarono a uscire con alcuni dei loro testi e oggetti sacri tra le mani.
A quel punto, Terracina decise di intervenire. «Signori, vi prego. Non potete toglierci anche questo». Era così addolorato da mettersi in ginocchio dinanzi a uno dei soldati con un candelabro in mano, che ricambiò con un commento in tedesco che l'ebreo non capì.
«Aus dem Weg, du menschlicher Abschaum». Togliti di mezzo, feccia umana, disse l'uomo, al quale, Terracina intralciava il passaggio.
«Vi prego, signore. Non ho capito cosa avete detto. Proviamo a giungere a un compromesso, vi supplico!»
In cambio, il tedesco passò il candelabro a un suo collega e utilizzò il calcio del fucile che aveva a tracolla, colpendo l'uomo al sopracciglio. Il sangue iniziò a sgorgare subito dopo l'impatto.
Tommaso Terracina cadde all'indietro, sulla stradina che portava all'entrata della sinagoga. Marco, apprensivo, si avvicinò e cercò di aiutarlo, sollevandolo a fatica per il braccio.
Nel guardare ai tedeschi, Marco scorse un viso noto. Una tra le SS era l'uomo al quale voleva regalare il santino qualche settimana prima. Sapeva che il giovane parlasse italiano.
Gli si avvicinò e chiese: «Perché avete preso i nostri testi religiosi?»
Il giovane uomo, dai capelli lisci e biondi, con sfumature ramate al sole, sembrò riconoscerlo. Gli rispose con un'altra domanda, totalmente fuori contesto. «Oggi non vendi santini?»
«Mi leggete nel pensiero, signore? Avevo ragione di pensare di ricordare la vostra faccia». Con Terracina che gli pendeva da una spalla, Marco cercò di conversare con l'uomo, provando a farlo ragionare. «Se pensate ci sia qualcosa di strano, possiamo controllare. Non serve profanare dei testi religiosi».
«Non preoccuparti, ragazzo. Non c'è bisogno di nessun aiuto». Guardò con leggero disprezzo l'ebreo ciondolante sulla spalla del ragazzo. Rivolto ai suoi colleghi, disse: «Schwemmt alles fort! Besonders, wenn es Gold gibt». Portate via tutto! Soprattutto se c'è dell'oro.
Marco vide, con amarezza, uno degli uomini portare via altri candelabri d'oro. Ma rimase sconvolto quando vide un tedesco con in mano un rimonim di copertura di uno dei rotoli della Torah. Come hanno potuto toccare un testo sacro di tale importanza?, si chiese Marco, con le lacrime agli occhi.
Un tedesco si avvicinò al giovane ufficiale con cui Marco stava parlando con un quaderno in mano: era il registro delle ricevute riguardanti l'oro ceduto.
«Was müssen wir mit diesem Register machen?» Cosa dobbiamo farci con questo registro? Lo sfogliavano davanti a Terracina e Marco.
«Es kann nützlich sein!» Può esserci utile!, disse l'ufficiale tornando a guardare i due. «Qui abbiamo finito. È stato un grande piacere!»
Marco ripensò alla sua prima impressione su quel tedesco: tutto era, fuorché un brav'uomo. Aveva commesso una colpa gravissima, rubando tutto.
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Il signor Ferrara aveva sentito le voci riguardo l'evento di quella mattina mentre svolgeva lavori di manutenzione a casa: alcune tavole di legno del pavimento si erano rovinate del tutto a causa del Tevere. Si recò in fretta presso la sinagoga, soprattutto dopo aver sentito che suo figlio fosse lì. Per quanto non fosse un esponente della comunità, era comunque una personalità influente nel ghetto: dunque, badava che tutti rispettassero le regole e faceva in modo di tenere tutto in ordine nella comunità.
Corse presso la sinagoga, sperando di vedere ancora i tedeschi e poterci parlare. Quando giunse sul posto era ormai tutto finito. La camionetta con tutti i loro testi e oggetti sacri stava fuoriuscendo dal ghetto.
Quando vide Marco caricato del signor Terracina, soccorse entrambi, prendendosi cura dell'uomo e facendo respirare il ragazzo, finalmente libero.
«Che è successo?» chiese rivolto ai due lì presenti sul posto. Altri si erano fermati a guardare, ma erano rimasti lontano ed erano andati via una volta concluso il saccheggio.
«Papà. Hanno rubato tutto».
L'uomo sgranò gli occhi. Pose a sedere con delicatezza Terracina su un muretto e fece per guardare l'interno della sinagoga. Tutto era stato messo a soqquadro. Molti dei rotoli della Torah erano stati portati via, altri erano aperti e rovesciati sul pavimento.
Il signor Ferrara si pose in ginocchio dinanzi al portone. Le lacrime iniziarono a zampillare dagli occhi.
«Papà. Abbiamo provato a fermarli, ma...»
Marco non riuscì a completare la frase. «Ti prego, figlio. Va' via, adesso! Lasciami piangere in ginocchio per questo orribile gesto, compiuto a discapito della comunità».
Marco, triste, pensò che avrebbe potuto fare di più: aveva deluso la persona che più amava al mondo. Per quanto ciò che era successo non fosse colpa sua.
Con la coda tra le gambe se ne andò a casa. In fondo, essendo giovedì, poteva lavorare. Quindi, prese la sua autorizzazione e i santini e uscì di casa.
Chiamò con sé altri 4 suoi amici del ghetto per lavorare.
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Quella mattina c'era un via vai di soldati che uscivano dalla caserma, ed Hans capì il perché non appena lesse la missiva sulla sua scrivania. Sarebbero arrivati due camion carichi di oggetti di "inestimabile valore" che sarebbero dovuti essere ispezionati da un occhio esperto.
Ripose la lettera sulla scrivania in mogano perfettamente ordinata. Se l'era fatta arrivare direttamente dalla Germania, sostituendo quella ormai vecchia e consumata che c'era prima del suo arrivo. Aveva arredato il suo ufficio come più gli piaceva; l'unica cosa che aveva apprezzato di quella stanza al suo arrivo era il quadro che raffigurava una donna. Hans fissò il suo volto, che sembrò restituirgli lo sguardo con un'espressione disinteressata.
Pensò al fatto che gli sarebbe molto interessato vedere in prima persona alcuni degli oggetti che gli sarebbero arrivati per essere analizzati. Per questo, prendendo una motocicletta, si recò al ghetto.
Dopo aver dato ordine di portare via tutto il possibile si era recato nuovamente nel suo ufficio, e aspettò impaziente, leggendo di nuovo la missiva sulla scrivania.
La sua attenzione fu richiamata dal rombo dei motori, intuendo che il carico fosse giunto a destinazione.
Scese le scale della caserma con calma, salutando di tanto in tanto soldati e colleghi che incontrava per il suo cammino.
Appena uscì fuori, fu accolto da un cielo grigio; tuttavia, c'era un caldo insopportabile, per Hans. I pochi italiani che aveva conosciuto si lamentavano che l'autunno fosse ormai giunto e che il gelo stesse entrando nelle loro giornate, ma da dove veniva lui, quel tipo di clima non si poteva di certo considerare "freddo". Pensò che gli italiani non sapessero cosa volesse dire il vero gelo, e non sarebbero sopravvissuti ai lunghi inverni tedeschi.
Ad Hans mancava la Germania, era la sua casa ed era lì che c'era la sua famiglia: o comunque quel che ne rimaneva.
Si diresse spedito verso il primo camion ed un soldato semplice gli fece il saluto militare consegnandogli l'inventario del primo carico; conteneva per la maggior parte manoscritti e incunaboli. Di certo non catturavano l'attenzione di Hans, ma siccome ne era stato incaricato, dovette controllare i trenta manoscritti uno ad uno.
Il caldo lo stava facendo impazzire, ed era quasi tentato di togliersi la giacca dell'uniforme, ma si trattenne. Si passò il dorso della mano sulla fronte per asciugarsi dal sudore.
Mentre i manoscritti passavano a controllo, Hans, sfogliando le pagine di alcuni di essi, dovette ammettere che erano veramente di una bellezza straordinaria. Molte pagine erano abbellite da colori accesi ma, soprattutto, da rifiniture dorate. Hans ne riconobbe l'arte, anche se non ne condivideva il contenuto. Erano scritte in ebraico, per cui dovettero servirsi di un traduttore che aveva fatto chiamare direttamente dal ghetto.
Prima di passare al secondo carico, Hans cedette. Aveva la fronte imperlata di sudore, per cui si tolse la giacca e si sbottonò il colletto della camicia per poi rimettersi all'opera.
Appena aprì il secondo carico, inarcò le sopracciglia per la sorpresa. Sì ritrovò di fronte a diversi oggetti d'oro; tra di essi, ne spiccava uno che si differenziava dagli altri per grandezza e bellezza. Era difficile non notarlo, perché era un'enorme Menorah in oro massiccio, una lampada ad olio a sette bracci che nell'antichità veniva accesa all'interno del Tempio di Gerusalemme attraverso la combustione di olio consacrato, a simboleggiare i sette giorni della creazione (sabato al centro) e i 7 pianeti. Adesso sì che si ragiona, pensò Hans.
Hans non era certo se avesse mai visto così tanto oro in tutta la sua vita, ma era certo che la maggior parte di esso avrebbe aiutato la sua gente.
La lampada era completamente in oro, ed era così pesante che ci vollero tre soldati per trasportarla nella caserma.
Trasferirono tutti gli oggetti in una stanza blindata, in cui sarebbero rimasti fino a quando non li avessero schedati per poi inviarli fuori dal paese.
Una volta che il compito fu terminato Hans decise di rimanere ancora qualche minuto all'aria aperta per godersi una sigaretta prima di ritornare al lavoro. Fumare lo faceva rilassare, ma odiava la puzza di fumo che impregnava i vestiti, facendolo puzzare come una ciminiera. Anche se il nazionalsocialismo aveva iniziato una campagna anti-tabacco, questo era l'unico vizio che si era concesso da quando era entrato nell'esercito.
Hans prese il portasigarette dalla tasca dei pantaloni, estraendo una sigaretta che infilò tra l'indice e il medio, tra la prima e la seconda nocca. Si mise la sigaretta tra le labbra, ma non l'accese. Il nazionalsocialismo condannava pubblicamente l'utilizzo del tabacco poiché il nostro Führer ha a cuore il benessere del proprio Paese: il fumo era dannoso per il corpo dell'uomo, e le donne tedesche avevano il compito di crescere dei bambini forti per la Germania. Per cui vennero introdotte delle restrizioni sul fumo, compreso nella Wehrmacht. Le razioni di sigarette nelle milizie furono limitate a sei al giorno per soldato.
Si portò il filtro alla bocca, aspirando con forza per accendere il tabacco. Si appoggiò al muro dietro le sue spalle, socchiudendo gli occhi ed aspettando che la nicotina facesse il suo effetto. Si sentiva osservato; era una sensazione a cui era abituato, soprattutto in un paese straniero, in cui la popolazione era disgustata da loro e da ciò che rappresentavano, ma allo stesso tempo era incuriosita. Tuttavia, quando Hans aprì gli occhi, si aspettava di tutto, fuorché vedere la ragazza dai capelli corvini che lo fissava dall'altro lato della strada.
Incontrò i suoi occhi, di un color verde simile allo smeraldo; gli stessi occhi che l'avevano fissato il primo giorno che era arrivato in questa città, trasportato dalla sua vettura. Indossava un abito grigio, che le faceva risaltare ancora di più il colore dei capelli scuri.
Era passato quasi un mese da quando era qui, e non l'aveva più rivista da quella volta in cui si erano scontrati nelle vicinanze del suo pub. Era stato così oberato di lavoro che aveva seppellito l'episodio in un ambito recondito della sua mente, ma adesso che l'aveva davanti, sentì una tensione alla bocca dello stomaco.
La ragazza dai riccioli corvini lo guardava con diffidenza e disapprovazione. Hans inspirò un altro tiro della sua sigaretta, senza mai smettere di fissarla e se sperava di intimidirla non ci riuscì, poiché lei alzò il mento con aria di sfida.
Hans alzò il sopracciglio, domandandosi se non fosse il caso di ricordarle chi fosse lui, e cosa fosse lei, ma la sua sfidante lo batté sul tempo.
«Fumare fa male, lo sapete?» puntualizzò lei. Tra tutte le cose che avrebbe potuto dire, ovviamente, si soffermò sul suo unico, e apparentemente innocuo, vizio. Non sapeva perché, ma la cosa lo divertì, tanto da strappargli un sorriso rassegnato.
«Buon pomeriggio; e sì, lo so che il fumo fa male» le rispose, mettendosi di nuovo la sigaretta tra le labbra e infilando le mani in tasca. Guardò a destra e a sinistra per vedere se passasse qualche veicolo, prima di attraversare la strada e raggiungere il marciapiede opposto, dove si trovava lei. Se lei fosse sorpresa o spaventata dalla sua improvvisa vicinanza, non lo diede a vedere. «Ma sapete, dal momento che potrei morire da un giorno all'altro, il fumo è l'ultimo dei miei problemi» disse queste parole con la sigaretta tra le labbra, cercando di provocarla, ma lei gli regalò un sorriso beffardo.
«Beh, a quanto pare, voi avete fretta di trovarvi nell'altro mondo» rispose lei. Adesso che le era vicino, Hans poté notare dei particolari della giovane che prima gli erano preclusi per la lontananza. Lei aveva una pelle chiarissima, e aveva delle leggerissime lentiggini sulle guance, che le regalavano un'aria innocente.
«Ma voi vi rivolgete sempre così agli uomini?» le domandò con aria divertita.
«La risposta potrebbe non piacervi» disse lei, ma non ricambiò il sorriso di Hans.
Si sentì gridare un nome, ma la voce fu coperta dal frastuono della città. Entrambi si girarono in direzione della voce, ma Hans vide solo un via vai di persone.
«È stato un piacere, signore». La ragazza lo salutò, scomparve tra la folla tanto velocemente quanto era apparsa. Non si erano presentati, ma nonostante il baccano, lui era riuscito a distinguere bene una parola. Celeste. E così lei era scappata via, per cui Hans dedusse che dovesse essere il suo nome.
Il giovane soldato si rese conto che l'incontro con la misteriosa ragazza era stato l'evento più interessante che gli fosse capitato nell'ultimo periodo. Il secondo pensiero che gli venne in mente? Che avrebbe voluto rivederla.
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Era stata una giornata particolarmente pesante a scuola. Anastasia e Cecilia stavano tornando con un carico di compiti immenso. Quello che Cecilia, però, trovava più noioso era quella ricerca che era stata assegnata dal professore di storia, per la settimana successiva: "Per quale motivo la razza ariana è superiore a tutte le altre?"
A lei la questione non interessava più di tanto, pur essendo cittadina italiana di razza ariana. Piuttosto, non capiva quell'ossessione riguardante la "razza ariana". Si chiedeva, per esempio, in cosa differisse lei rispetto a un ebreo, se non per la cultura o le credenze religiose. In fondo, tutti gli esseri umani avevano un corpo identico fatto di cellule, una testa, ma prima di tutto un cuore. Non vedeva tutte quelle differenze. Forse era anche lei sbagliata, per non notare che lei fosse superiore.
«Quest'uomo assegna sempre ricerche!» cercò di aprire il dialogo Anastasia, distogliendo la gemella dai suoi pensieri.
«Già. Che barba!» rispose semplicemente Cecilia, sbuffando.
«Tu che intenzioni hai?»
«Riguardo cosa?» chiese Cecilia spaventata per quel commento fuori contesto. Non capiva se si riferisse al ragazzo che ci aveva provato spudoratamente con lei in cortile mentre giocava a campana con una sua compagna, che non le interessava affatto, o a che cosa.
«La ricerca» rispose Anastasia irritata. «Sei sempre con la testa fra le nuvole».
«Non posso pensare sempre a studiare come fai tu!»
«Per questo ti ho chiesto che intenzioni avessi. Perché oggi non ho voglia di fare nessuna ricerca». Camminando, Anastasia si lisciò il vestito e si guardò intorno. «Penso di andare al pub da Celeste» affermò risoluta. «Tu? Che vuoi fare?»
Cecilia, pensando al fatto che non le andasse di lavorare con Celeste, disse: «Credo che sia giunta l'ora di invertirci. Tu vai a divertirti e io a studiare».
«Mi stupisci, gemella!» Il sorriso di Anastasia si distese, giungendo da un orecchio all'altro.
«Te l'ho sempre detto che sei più carina quando sorridi» disse, invece, Cecilia annoiata.
Camminarono ancora per poco insieme, fino a quando non giunsero a un bivio. Anastasia sarebbe andata al pub e lei nella biblioteca pubblica.
Per quanto non amasse leggere, doveva ammettere che i libri di cui era fornito quell'immenso labirinto fossero molto interessanti. Prima che lo eliminassero dagli scaffali, in quanto libro inglese, aveva letto Romeo e Giulietta, una delle più romantiche opere teatrali al mondo. A guerra finita, sperava di poterne vedere una messinscena: se l'avesse vista, sarebbe stata anche felice di morire.
Alla bibliotecaria, fascista convinta, mostrò la sua tessera del partito. Dopo il fattaccio con loro padre, e per una serie di altre motivazioni - come per esempio la preclusione dalle lezioni - erano state tutte obbligate a tesserarsi.
«Cosa cerchi, mia cara?» le chiese la vecchia.
«Devo fare una ricerca» disse Cecilia, tentennando. «"Perché la razza ariana è superiore rispetto alle altre?"»
«Che ricerche scontate che danno al giorno d'oggi» disse la donna, mentre cercava tra gli scaffali alcuni libri sul tema. «È ovvio che sia così» disse, poggiando due libroni sulle sue mani. «Guarda la faccia di un ariano al confronto di quella di un ebreo. Già da lì lo si capisce che siamo superiori: siamo molto belli esteticamente, con quei nasini delicati».
Cecilia fissò intensamente la bibliotecaria, notando che proprio lei, che elogiava tanto il nasino alla greca degli ariani, non lo possedeva. Le scappava da ridere, ma riuscì a trattenersi.
La donna salì su delle scale per prendere un altro libro. Cecilia ne lesse l'autore: Georges Vacher de Lapouge. Fu il primo che iniziò a leggere. La teoria in esso contenuta la sconvolse.
Lapouge pensava che le razze bianche fossero quelle dominanti in Europa per le loro qualità fisiche e intellettuali. E poi suddivideva le razze bianche in tre gruppi: l'uomo ariano (o europaeus) di statura alta, biondo e di carnagione chiara; l'uomo alpinus di statura più bassa e una colorazione di pelle relativamente più scura; e l'uomo mediterranus di statura bassa, con i capelli neri, occhi marroni e colore di pelle ancora più scuro. Affermava che la razza ariana fosse superiore in quanto era quella che aveva meno subìto il mescolamento con altre razze; gli altri due gruppi invece erano collocati più in basso. La razza bianca collocata più in basso in assoluto era quella ebraica, in quanto ritenuta un miscuglio di razze diverse e caratterizzata da un temperamento aggressivo dovuto alla sua incontenibile avidità commerciale.*
Segnò tutti questi dettagli su un quaderno e cercò anche informazioni dagli altri due libri, citando anche il problema dell'eugenetica: l'idea di dover portare avanti solo i membri forti della razza, in modo che si riproducesse come perfettamente sana. Per questo aveva scoperto, orrificata, che molti, non ritenuti sani, andavano eliminati attraverso la tecnica dell'eutanasia.
Aveva messo su un ottimo testo, quando decise finalmente di andarsene da quel posto intriso dell'ideologia dominante.
Mentre si recava a casa, sentì un sussurro rivolto nella sua direzione. Una voce maschile la chiamò per nome.
Lei sospirò, irritata, e si girò. «Che cosa ci fai qui?»
«Lavoro» disse il ragazzo davanti a lei, sfoggiando dei santini in mano. «Io e dei miei amici abbiamo avuto l'autorizzazione per uscire per un po' di tempo». I suoi occhi verdi la squadravano da testa a piedi. «Noi giovani siamo quasi tutti urtisti».
«Urtisti?» chiese con ingenuità Cecilia, non capendo.
«Urtiamo i turisti per vendere i santini».
«Ah. Ecco! L'etimologia del termine spiega tutto» disse con sarcasmo Cecilia, fissando il ragazzo che si metteva le mani tra i ricci scuri. «Vuoi... vendermi un santino?» chiese in imbarazzo, vedendo il silenzio che era calato tra loro.
«Oh, no. Non lo farei mai. Non con voi, almeno». Gli occhi del ragazzo si rattristarono. Abbassò la testa sulla strada, e calciò un sassolino con lo stivaletto.
«Tutto a posto?»
«In verità no».
«È successo qualcosa di brutto?»
«Molto».
«Oddio!» esclamò Cecilia mettendosi la mano sulla bocca, notando il modo in cui lui le rispondeva a monosillabi. «Cosa?»
«La biblioteca della sinagoga è stata saccheggiata. Hanno portato via molti dei nostri testi, sia sacri che non, e oggetti sacri dal valore inestimabile».
«Ma perché l'hanno fatto?» chiese con voce tremante la ragazza.
«Non saprei proprio dirlo» disse lui, dondolandosi sul posto. «So solo che la faccenda dell'oro mi puzza. Perché ci hanno trattato bene fino a oggi? E se ne escono con un'azione del genere? Non ha senso. Non trovi?»
«Io penso solo che ti stai preoccupando inutilmente. Magari cercavano qualcosa...» abbozzò la ragazza, con il labbruccio tremolante.
«Cosa c'è da cercare in un candelabro d'oro?»
«Beh...» tentennò.
«Niente» terminò lui. Sembrava in preda alla furia. «Ho un'estrema paura di ciò che potrà succedere».
«Non preoccuparti. Tutto si sistemerà» disse Cecilia, con le lacrime che iniziavano ad uscire dagli occhi verdi.
Il ragazzo le si avvicinò e, con molta sicurezza, le accarezzò il viso, asciugando una lacrima che si approssimava a uscire fuori. Nonostante trovasse il suo gesto dolce, Cecilia si scansò in imbarazzo. «Spero vivamente sia come dici». Lo sguardo che si scambiarono rassicurò molto entrambi. «Ora devo andare. Il tempo dell'autorizzazione è quasi concluso».
«Ciao» salutò Cecilia, fissando la chioma del ragazzo seguire i suoi movimenti mentre correva.
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*Non ho mai letto Lapouge: sono informazioni che ho carpito dal libro di Storia Contemporanea. fiorellinosbocciato
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Per quanto riguarda questo capitolo c'è un evento, purtroppo realmente accaduto, il saccheggio del ghetto di Roma. C'è da dire che il carico che fu rubato fu trattenuto e nel mese di gennaio mandato in Germania con uno dei carri merci, che furono adibiti a tale scopo. Un altro carro merci è stato riempito ma non si sa che fine abbia fatto.
Come vi sembra? Fateci sapete, ❤️
Lilingel.
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