VI

Quel sabato mattina, 22 gennaio, Celeste aveva un mucchio di commissioni; ciò che le mancava era la volontà di alzarsi dal letto. Per di più, la giornata era cupa; il cielo grigio si amalgamava bene alla città, fatta di palazzi asettici e cemento.

Entrò in bagno e si preparò velocemente, indossando abiti pesanti che potessero ripararla dal freddo pungente.

Scese in cucina, sperando che nella credenza fosse rimasto ancora qualcosa da mangiare. Con sua grande delusione non fu così. Aggiunse un altro compito alla sua lista mentale di cose da fare: sarebbe dovuta passare al negozio di alimentari, per recuperare ciò che aveva prenotato la settimana prima, per il lunedì, o sarebbero rimaste a digiuno. Aveva prenotato gli alimenti in due negozi differenti.

Aprì il vasetto dove conservavano i documenti importati, prese la tessera annonaria, infilandola nella tasca destra del cappotto.

Era mattina presto, per cui contava di fare un salto veloce al negozio più vicino, prendere ciò che le serviva per arrivare a casa prima che le ragazze si svegliassero per far trovare loro la colazione pronta.

Le sue aspettative vennero deluse quando, passando vicino al negozio, vide un'enorme fila di persone che aspettavano impazienti che arrivasse il loro turno. Decise, allora, di andare all'altro negozio che si trovava, però, un po' più distante da casa sua, con la speranza che ci fosse meno gente.

Tuttavia, con somma delusione di Celeste, anche in quel caso si trovò di fronte a una fila immensa. Decise di mettersi in coda, arrendendosi al fatto che non sarebbe potuta tornare a casa prima di mezzogiorno.

Si respirava un'aria cupa: il malcontento era visibile sui volti stanchi ed emaciati delle persone. C'erano per di più donne con i pargoli al seguito. Qualche anziano signore in fila si lamentava della situazione odierna, dando la colpa a questa nuova generazione di scellerati, mentre si ricordavano con nostalgia i tempi passati.

«Questa?» disse un vecchio, indicando la tessera che aveva tra le mani. «Questa è la tessera della fame! Fai la fila, arrivi allo sportello, ed è già finito tutto!» Dalla bocca sdentata uscirono in serie degli sputi disgustosi.

I bambini, sentendo i toni aspri e duri del vecchio, iniziarono ad agitarsi e ad aggrapparsi alle gonne delle proprie madri, che iniziarono a innervosirsi a loro volta. Le parole del vecchio non fecero altro che aumentare il malcontento dei presenti. I beni di prima necessità scarseggiavano. La "tessera annonaria" già prevedeva un razionamento esiguo; quando poi ci si recava al negozio, molto spesso, dopo lunghissime file, capitava di ricevere poco o niente, perché le scorte erano finite.

Celeste fece dei respiri profondi e cercò di rilassarsi, cosa che le risultò piuttosto difficile, perché dal fondo della fila sentì la voce starnazzante di Giustina, la figlia del proprietario dell'atelier che aveva quasi fatto finire Anastasia in carcere, per farla pestare dai tedeschi.

«La settimana scorsa un ufficiale tedesco mi ha fatto la corte. Ha detto che ho proprio dei begli occhi» disse Giustina mentre si arrotolava una ciocca di capelli attorno al dito. Le sue leccapiedi iniziarono a levare gridolini di esultanza.

Celeste spostò il peso da un piede all'altro, infastidita. Sporca collaborazionista!, pensò. I suoi fratelli, i suoi connazionali, stavano combattendo al fronte o peggio, erano rinchiusi nelle loro prigioni come dissidenti politici.

«Aveva degli occhi azzurri bellissimi, e dei capelli biondi che sembravano così morbidi». Pareva che Giustina avesse urlato vicino al suo orecchio per come fosse alto il tono della voce. Celeste ebbe l'impressione che quella fosse una sua tattica per farsi sentire da tutti i presenti.

Ebbe l'impulso di girarsi per dirgliene quattro, ma, quando lo fece, quello che vide le tolse il respiro. I suoi occhi bellissimi verdi, fiammeggianti di vita e d'orgoglio, incontrarono uno sguardo freddo, un viso emaciato e pallido: quello della moglie di Leonardo.

Celeste provò a deglutire, ma si rese conto di avere la bocca secca. Aveva capito che la moglie di Leonardo la detestasse, da quella volta in cui si era recata a casa sua in cerca di aiuto, ma ciò che aveva ricevuto era stata una porta sbattuta in faccia. Aveva cercato di non menzionare l'accaduto al suo più caro amico, e aveva fatto di tutto per evitare qualsiasi rapporto con sua moglie. L'atteggiamento della donna l'aveva offesa oltre ogni misura, ferendo la sua dignità. E adesso eccola lì, di fronte a lei, che la fissava con disprezzo mentre si accarezzava il pancione, quasi come se volesse dimostrare a Celeste che lei portava in grembo il frutto del loro amore coniugale.

Celeste covava qualche dubbio, sul fatto che Leonardo amasse davvero sua moglie, ma questi non erano affari suoi, né voleva che lo fossero.

Sì girò con molta disinvoltura verso la fila davanti a lei, imponendosi di stare tranquilla fino a che non fosse arrivato il suo turno. Non ci volle molto, poiché la donna davanti a lei non riusciva a trovare la tessera, per cui il commerciante fece cenno a Celeste di avvicinarsi al banco, nel frattempo che la donna riuscisse recuperare tutto il necessario per ritirare il cibo.

Il commerciante, un uomo dall'aspetto inquietante, le sorrise imbambolato, domandandole con una voce baritonale: «In cosa posso esservi utile?»

Celeste, imbarazzata, nominò gli alimenti che aveva ordinato il sabato precedente - «Pasta, pane e formaggio» -, e mentre aspettava che il commerciante imbustasse gli alimenti, sentì la voce fastidiosa di Giustina alle sue spalle: «Basta che fa quegli occhi languidi e gli uomini si sciolgono».

Ma sta parlando di me? pensò incredula Celeste. Raddrizzò la schiena, cercando di assumere un atteggiamento più disinvolto possibile.

«Usa il suo corpo per ottenere quello che vuole dagli uomini» continuò Giustina maliziosamente, scatenando gridolini di stupore tra le presenti. Celeste poté giurare di sentire un verso di soddisfazione fuoriuscire dalle labbra della moglie di Leonardo.

Divenne paonazza in viso, mentre la rabbia cominciava a ribollirle nelle vene. Il commerciante si sporse per porgerle la busta, sempre con un sorriso da ebete sul viso, dicendo: «Ecco a voi!» Celeste prese la busta senza ricambiare il sorriso.

«Ecco, avete visto! Secondo voi come fa ad attirare tutti quei tedeschi nel suo locale? Di certo non per quella robaccia scadente che compra! Sporca puttana collaborazionista!» Le ultime parole, calcate con cattiveria, fecero scattare Celeste come una molla, facendola dirigere verso la diretta interessata con passo spedito.

«Che cosa hai detto?» disse a denti stretti, trovandosi faccia a faccia con Giustina, il cui colore del viso passò dal rosato al bianco in pochi secondi. Cercò di indietreggiare, urtando e calpestando i piedi della donna in fila dietro di lei.

«Io... ehm...» Cercò delle parole adatte per giustificarsi, ma Celeste non le diede il tempo di ribattere.

«Te lo dico io che cosa hai detto! Mi hai appena dato della poco di buono, hai distrutto la mia dignità con poche squallide parole. La verità è che tu, qui, sei la collaborazionista! Non ti sei appena vantata che un tedesco ti ha fatto la corte solo la settimana scorsa?» Le parole le uscirono dalla bocca come un fiume in piena, guidata com'era da una rabbia cieca e irrazionale. «Devi smetterla di trattare le persone in questo modo. Stavi per far arrestare mia sorella solo per i tuoi stupidi pregiudizi». Alle parole di Celeste, le persone presenti reagirono con dei versi scioccati, per poi rivolgere occhiatacce a Giustina. «O forse sei gelosa perché i tuoi affari stando andando male? Come ci si sente a non essere più aristocratici? Possiamo dire che la guerra almeno una cosa buona l'ha fatta. Ci ha resi tutti uguali nella povertà!» Si sentì libera dopo aver pronunciato quelle parole. Sapeva di aver detto una cattiveria e di aver sferrato un colpo basso. Questo la rendeva una persona malvagia? Forse. La guerra li aveva resi mostri e nessuno veniva risparmiato. Cercò di andarsene, soddisfatta di averla ammutolita, ma a quanto pareva, si sbagliava sul fatto che la sua fosse stata l'ultima parola.

«Tu, lurida sgualdrina! Cammini per le strade con quello sguardo arrogante che ti ritrovi! Pensi di saperne più di noi e di essere migliore di noi! E invece sei solo una povera orfanella! Credi di impietosirci, con la storiella di tuo padre?» Giustina aveva gli occhi spiritati e un'espressione da folle sul viso. «Non puoi avere una famiglia normale, con quella madre che ti ritrovi, e allora vuoi rubare quella degli altri!» disse, guardando in direzione della moglie di Leonardo, la quale iniziò ad accarezzarsi il pancione, con uno sguardo afflitto. La gente, questa volta, guardò Celeste con sguardo allibito e accusatorio. Giustina sorrise, perché aveva ottenuto l'effetto desiderato. «Ah! Se ti vedesse quel buon uomo di tuo padre... chissà come sarebbe deluso... come si vergognerebbe di avere una figlia come te». Il viso di Giustina era adornato da un sorriso maligno e il suo sguardo trasmetteva cattiveria pura.

Celeste si girò, in silenzio, con sguardo serio tanto da far tremare presenti. Poi si avventò su Giustina, prendendola per i capelli e iniziando a strattonarli all'indietro. Giustina, dal conto suo, fece lo stesso e le due iniziarono ad azzuffarsi di fronte agli sguardi scioccati della folla che si accalcava in cerchio intorno a loro. Giustina cercò di mollarle un ceffone, ma Celeste fu più veloce e parò il colpo, tirandole un calcio nello stinco.

La folla intorno a loro si dissipò velocemente, e Celeste sentì due braccia forti che le circondarono il busto, tirandola via da Giustina. Quando la ragazza mollò finalmente la presa, si accorse che anche Giustina veniva trascinata via dal lato opposto dal tenente Johann Fischer.

Bene! Di male in peggio! pensò. Ma neanche la presenza dei tedeschi riuscì a calmarla; la rabbia che provava nel cuore era troppo forte, per cui cercò di avventarsi ancora verso Giustina, senza riuscirci.

Le braccia che la trattenevano, la tenevano ferma sul posto, senza però farle male, nonostante lei continuasse a dimenarsi. «Però, sei forte, Piccoletta!» Quelle parole vennero sussurrate al suo orecchio, colpendola come una scossa elettrica. Smise di dimenarsi, accorgendosi di avere il respiro affannato. Ciò che la fece ritornare in sé non era tanto il fatto che fosse stato utilizzato il nomignolo che il suo migliore amico le aveva sempre riservato, quanto il fatto che fosse stato Hans Richte a pronunciarlo.

«Hans, nimm dieses verrückte Mädchen weg!» Hans, porta via questa pazza!, disse il tenente Fischer, indicando Celeste con il mento, mentre allontanava Giustina. Come si è permesso di darmi della pazza? pensò Celeste con la rabbia che le rimontava dentro.

«Mit Vergnügen». Con piacere, sussurrò il tenente Richte. «C'è una stanza libera in questo negozio? Giusto per farla calmare» pronunciò le ultime parole con un tono provocatorio e allo stesso tempo autoritario, nei confronti del commerciante. Celeste non sapeva "in che modo" intendesse calmarla, ma non le importava.

Il commerciante inquietante iniziò a tremare, e condusse i due in un piccolo stanzino polveroso pieno di cianfrusaglie. Adesso non gli piacerò più così tanto, pensò Celeste con ironia.

Appena la porta alle loro spalle fu chiusa, Richte la lasciò andare. Celeste si girò e lo guardò con aria di sfida, alzando il mento verso di lui. Ma Richte non sembrava per niente arrabbiato, semmai divertito. «Tu, sì, che sai come metterti nei pasticci, non è così?» disse, facendole un sorriso beffardo.

«Perché? Sono nei guai?» rispose lei in modo innocente. Si toccò i capelli: le facevano male alla radice ed erano tutti scompigliati. Cercò di darsi una sistemata.

«Può darsi, chi può dirlo? Forse sì, forse no» ribatté lui, mettendosi le mani nelle tasche dei pantaloni e socchiudendo gli occhi.

Ma a che razza di gioco sta giocando, il tedesco? Vuole tormentarmi ancora di più? «Vi conviene non scherzare con me...» Celeste era in procinto di fare un discorso in cui spiegava i fatti e giustificava il suo comportamento, ma evidentemente aveva incominciato male.

«Ah sì, sì, ho visto!» le rispose lui in modo canzonatorio senza lasciarla continuare.

«Io intendo dire che...» Ma che cosa aveva intenzione di spiegare? Che quella donna era mostruosa e che aveva infangato il buon nome della sua famiglia... il nome di suo padre? Eppure, era proprio per quello che i tedeschi la tenevano d'occhio: per gli errori di suo padre. «Lasciate perdere... Non ci sono giustificazioni per quello che ho fatto». Celeste si arrese.

«Non mi interessa quello che avete fatto. Avrete avuto le vostre buone motivazioni» disse lui, appoggiando la sua schiena alla porta chiusa.

Celeste lo guardò, scioccata. Se veramente non avrebbe subìto conseguenze per quello che aveva fatto, perché il tedesco la stava trattenendo lì? «Cosa?» sussurrò allibita. Sì fermò a osservarlo, per un momento: la divisa perfettamente in ordine, il fisico asciutto e atletico. Gli scrutò il viso, e nonostante la sua espressione ostentasse ostilità e durezza, Celeste non poté fare a meno di pensare al fatto che non fosse altro che un ragazzo, un altro ragazzo tra i tanti forgiati dalla guerra. Pensò al fatto che, se fossero nati in tempo di pace, l'espressione di lui sarebbe stata diversa: più dolce, forse? Celeste smise di fantasticare e idealizzare una persona che non conosceva e un mondo che non esisteva realmente.

Lui non rispose alla sua domanda per cui rimasero a fissarsi per un po'. A Celeste venne un groppo in gola: se fosse stata scoperta? E se fosse tutta una tattica per farla confessare?

«Quindi non sono nei guai?» domandò lei, cercando di rompere quel silenzio che le stava logorando i nervi.

«Dipende!»

«Da cosa?»

«Da voi. Magari potreste spiegarmi bene i fatti. In altra sede, e in un altro giorno. Magari mentre passeggiamo... e dopo avervi offerto qualcosa da bere».

«Ma voi chiedete alle ragazze di uscire sempre in questo modo?»

«In quale modo?» rispose senza inflessione nella voce.

«Ricattandole».

Hans scoppiò in una fragorosa risata. «Dove lo vedete il ricatto?»

«Beh... Mi avete appena detto che dipende da me se sono nei guai o meno. Quindi, devo dedurre che, se esco con voi, non sarò nei guai».

Hans la guardò per poi scoppiare a ridere, di nuovo. Stava chiaramente usando la sua posizione di forza per prenderla in giro, e si rese conto che non aveva fatto altro che giocare con la sua paura. «Siete libera di dire di no, se non lo volete» disse dolcemente. L'espressione del suo viso parve rilassarsi, abbandonando, così, il suo aspetto autoritario.

Celeste, dopo aver capito che lui si era preso gioco di lei, mise il broncio incrociando le braccia al petto. «Non so davvero se accettare, Tenente Richte. Ci devo pensare...» rispose la ragazza, facendo l'offesa, e provocando un sorriso ancora più ampio sul viso di lui.

Quando Hans stava per rispondere a tono, la porta si aprì con violenza, andando a sbattere contro le sue spalle: si spostò dopo aver pronunciato un sonoro "Ahi".

Dalla porta spuntò Johann Fischer che, con un italiano sgrammaticato, domandò: «Pensare che cosa?»

«Ho chiesto alla signorina Marchi se mi avrebbe fatto l'onore di uscire insieme». Le parole di Hans lasciarono di stucco Celeste. Sapeva che i due fossero amici, ma di certo non si aspettava che un tipo glaciale come il tenente Fischer fosse uno a cui confidare i propri segreti.

«Fantastisch! Vengo anch'io. Quando è l'incontro?» disse Fischer tutto contento.

«No, tu no, Johann» gli rispose l'altro, alzando gli occhi al cielo. Celeste non credeva ai suoi occhi, e si diede un pizzico sul braccio per capire se stesse sognando.

«Was? Warum nicht?» rispose il riccio indispettito, poi si rivolse a Celeste, per la prima volta da quando era entrato. «Sono sicuro che anche la sorellina della signorina Marchi avrebbe il piacere di uscire».

«Mia sorella?» Celeste strabuzzò gli occhi. «Intendete... Anastasia?» Non poteva assolutamente permettere che ciò accadesse .

«Ja, ja, proprio lei. Che dolce ragazza. Allora siamo d'accordo! Hans, mi raccomando, pensa tu a tutto. Ich muss gehen, Tschüss!» Se ne andò come un fulmine, senza dare l'opportunità ai due ragazzi di ribattere. I due si guardarono ancora, e rimasero così in silenzio senza riuscire a trovare le parole per spiegare la situazione bizzarra in cui si erano cacciati.

«È ora di andare» disse Hans, aprendo la porta gentilmente e permettendo alla ragazza di uscire per prima. Una volta fuori dal negozio si scambiarono un saluto imbarazzato e poi ognuno andò per la sua strada.

****

Cecilia era davanti alla porta della soffitta, e si sentiva come se dovesse sostenere un'altra volta l'esame di terza media. Ottenere quel diploma, per quanto avesse studiato, era stato più difficile del previsto, perché gli insegnanti le avevano chiesto molti argomenti che sul libro non erano presenti e che «Avrebbe dovuto approfondire tramite qualche ricerca!», come le avevano detto.

Doveva parlare con lui, ma il coraggio andava pian piano scemando, facendosi sostituire dall'agitazione. Sudava freddo, le tremavano le mani, respirava affannosamente. Cosa farò se non accetterà le mie parole? Non me lo perdonerei mai, si diceva con le lacrime pronte a uscire fuori, ma che era riuscita a trattenere, chiudendosi le narici tra le dita, in una posizione pericolante sulle scale.

Entrò nella soffitta con un viso inespressivo e con un vassoio sul quale giacevano un piatto di pasta - ormai Marco era abituato a mangiare quella pasta nera, prodotta con un miscuglio di farine che "inebriava" le papille gustative con un sapore orribile, che nessuno avrebbe mai saputo descrivere -, un piatto con delle frittelle fatte con fiori di dalia, che aveva direttamente raccolto dal suo giardino a fine novembre e conservato per non farli rovinare - passando la base tagliata del gambo sul fornello della cucina per cauterizzarla e tenendo i fiori a una temperatura che non superasse i cinque gradi -, e un bicchiere d'acqua.

Lui era sdraiato sul letto e fissava il soffitto: sembrava che potesse vedere oltre. Se davvero avesse potuto farlo - cosa che Cecilia sospettava, mentre lo fissava con un sorriso -, avrebbe visto quella sfera luminosa che iniziava a emanare i suoi caldi raggi al momento dello zenith, nonostante fosse solo il mese di gennaio.

Quando sentì la porta chiudersi, Marco si distrasse e, con un sorriso sul viso, guardò e salutò l'amica. Lei rispose a quella bellissima curva, che andava da orecchio a orecchio, abbassando gli occhi al suolo e quasi lacrimando.

Il viso di lui emanava quasi luce, tanta doveva essere la gioia che provava nel rivederla lì dopo tre giorni. Le sorelle Marchi avevano deciso di andare a dar da mangiare a Marco a turno. E quel giorno toccava a Cecilia. Quanto aveva desiderato, lei, che quel giorno non giungesse.

«Ciao» disse semplicemente lei, abbassando lo sguardo sul tavolino sul quale aveva poggiato il vassoio. Aveva provato ad andarsene, in modo da rimandare quella conversazione il più possibile, ma Marco la fermò, prendendola per un braccio. La camicia da notte che teneva addosso sembrava essersi allargata di diverse taglie visto come lui l'aveva tirata.

«Dove pensi di andare, così?»

«Così come?»

«Senza neanche salutarmi!»

«Ti ho salutato!» fece notare Cecilia con una smorfia. I capelli si erano decisamente rovinati a causa del suo nervosismo: avevano totalmente perso il loro volume.

«Ma io voglio un altro saluto, Ceci!»

Marco le prese la vita, e questo provocò in Cecilia un moto di repulsione. Mise le mani sul petto di Marco in modo da allontanarlo. Quanto mi pentirò per quello che sto per dire? si domandò in cuor suo. Ma per lei era la cosa più logica da fare.

«Quello è stato...» La sua voce tremava, quasi il nodo che aveva in gola la soffocasse. «È stato solo un errore». Già aveva notato un cambiamento nel viso di Marco, la cui luce aveva smesso di propagarsi per la stanza. «Anche se bellissimo!» Era stato il suo primo bacio, per questo lei aveva provato un'emozione così grande, mista tra gioia e paura.

«Un errore?» chiese lui, abbassando lo sguardo a fissarsi le scarpe, ormai quasi totalmente logore. Lo vide girarsi verso la finestra, alla quale lei aveva appeso le tendine della zia.

«Nient'altro che un tremendo errore» rispose senza inflessione nel tono della voce. «Un errore causato anche dalla situazione in cui eravamo. Insomma: tu stavi piangendo, ti sei ferito, io ti ho curato. Eravamo così vicini e...» Transitò per un attimo per pensare bene come concludere. «Ci siamo fatti coinvolgere troppo in un errore che non dovrà ripetersi mai più!»

«E perché no?» rimbrottò lui. Iniziò a camminare per la stanza, e a Cecilia sembrò una belva che voleva solo essere liberata per iniziare una battuta di caccia. Sembrava alla ricerca di una spiegazione. «Perché sono ebreo?»

Cecilia sgranò gli occhi. Il nodo che aveva alla gola si era stretto, ora, come un cappio. «Ma che dici? Certo che no! A me non interessa che tu sia ebreo» gli rispose, sperando di soddisfare la sua richiesta. «Semplicemente... Non voglio rovinare la nostra amicizia».

In fondo, erano amici da quando erano piccolissimi. Lui aveva tre anni quando lo vide per la prima volta affacciarsi alla sua culletta. Gli occhi verdi di lui avevano illuminato la stanza e avevano provocato il riso del piccolo fagottino, che iniziò a dimenarsi, mettendo in disordine il lenzuolino.

Da quel momento erano stati praticamente inseparabili: Marco l'aveva praticamente cresciuta con i suoi giochi. Cecilia, se avesse voluto, avrebbe potuto batterlo in qualsiasi gioco, tanto era diventata brava: era sempre stata una bambina intraprendente.

Lei si sentiva in dovere di dover portare avanti quel bellissimo rapporto che avevano costruito. E per quello temeva che una relazione avrebbe potuto distruggere tutto.

«Amicizia!» disse lui con una risata sommessa. «Tu non hai proprio capito che per me non è mai stata solo amicizia. Almeno da quando tu hai compiuto i tredici anni, io provo qualcosa per te. E tu mi dici che quel bacio che c'è stato tra noi è stato un errore che avrebbe potuto distruggere praticamente una vita passata insieme?» La sua voce tremava dal pianto, e questo provocò un brivido sulla schiena di lei.

«Sì, Marco. Io sono anche troppo giovane. È un'età, la mia, in cui si devono creare le amicizie davvero importanti, far le prime esperienze...»

«È questo che sono stato, per te?» la interruppe. «Un'esperienza? Come sospettavo. Magari hai voluto provare con me per non fare cilecca con qualcun altro?»

«Ma che dici?» chiese, con del liquido che iniziavano ad annebbiarle la vista. «Io ci tengo davvero a te».

«Ma statte zitta!» Ecco la cadenza dialettale di quando si arrabbiava. Cecilia comprese di aver fatto un disastro, aprendo quella discussione. «Voi c'avete i turni? Beh, cambiateli, e te 'n te devi inserì, pecché non te vojo più vedé».

Il ragazzo si avvicinò al tavolo dove c'era il vassoio, lo prese e lo pose sulle mani di Cecilia, che ormai non riusciva più a respirare, tanto stava trattenendo le lacrime davanti a lui. «Vai via. E portati 'sta schifezza».

Cecilia tentò di deglutire, con enormi difficoltà. La gola era completamente serrata. «Marco. Ti prego!»

«Vattene» le ordinò, tornando a sdraiarsi sul letto, sotto lo sguardo della ragazzina ormai lacrimante.

Cecilia, con le lacrime che ormai correvano imperterrite sul viso, lasciando tracce argentate sulla pelle che iniziava a bruciare e il respiro affannato dal pianto che necessitava di uscire, appoggiò di nuovo il vassoio sul tavolo, sperando che lo mangiasse più tardi, e uscì dalla stanza che, fino ad allora era stata per lei un rifugio, e ora solo la stanza che le aveva provocato un dolore lancinante.

«Mi dispiace». Si mise le mani sul petto, guardando verso la porta ormai chiusa, e iniziò a singhiozzare: il cuore batteva talmente forte da voler quasi bucarle il petto. Si volse poi di schiena a essa e si lasciò scivolare fino a sedersi sul gradino. «Mi dispiace tanto!»

Cercava con le mani di asciugarsi gli occhi, ma tante erano le lacrime che le sembrava quasi impossibile.

Permise ad altro liquido salato di arrossarle il viso, stringendosi le ginocchia al petto. Il viso di Marco sempre più furioso le si parò davanti agli occhi, facendole provare la necessità di chiuderli. Le sue parole erano pietre che la lapidavano. Il macigno che aveva sul petto aveva iniziato a pesare sempre più.

Doveva allontanarsi da quella porta o, probabilmente, sarebbe impazzita.

Corse in camera sua. Fortunatamente, Anastasia non era presente: suppose fosse in cucina. Si gettò sul letto e permise a quel rubinetto di aprirsi ancora, e di bagnare la stoffa del cuscino, ora suo unico rifugio.

Perché sono stata così stupida? si chiedeva. Picchiava il cuscino, poi lo abbracciava, in gesti confusi.

Nel continuo ritmo dei suoi singhiozzi, i suoi occhi si chiusero, trascinandola nell'abisso, permettendole finalmente di calmarsi nel rimpianto.

o 0 O 0 o

Eccoci a un nuovo aggiornamento. Giustina sembra avere sempre più pregiudizi nei confronti delle Marchi e Celeste, che non riusciva più a trattenersi, ha detto ciò che pensa di lei.
Cecilia ha fatto un disastro, ma perché? È stato davvero solo per non rovinare la loro amicizia, come lei afferma, o c'è dell'altro? Beh, non vi resta che leggere per scoprirlo. Buona lettura, ❤️

Lilingel

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