easy boys

Pov Wooyoung
Dopo più di due settimane di ricovero in ospedale, la madre di San aveva finalmente dato segnali di miglioramento. I farmaci avevano fatto effetto, e anche se la sua salute rimaneva fragile, i medici avevano stabilito che non era più necessario tenerla sotto osservazione. Il giorno della dimissione, San si era dimostrato instancabile: correva avanti e indietro tra i reparti per parlare con i dottori, firmare i documenti e sistemare ogni dettaglio, come se la sua precisione potesse compensare i giorni di angoscia. Sua madre, con la calma che solo una madre può avere, gli sorrideva rassicurante, come se fosse lui ad avere bisogno di conforto. A tratti sembrava quasi divertita dalla sua apprensione.

Ora che eravamo finalmente sul treno per tornare a Seoul, San aveva ceduto alla stanchezza. O almeno così voleva farmi credere. Seduto accanto a lui, osservavo di sbieco il suo profilo mentre si sistemava meglio la mascherina sugli occhi, un chiaro invito a lasciarlo in pace.

«Potrò mai fare cinque ore di viaggio in queste condizioni?» aveva borbottato prima di calarsi la mascherina con un gesto teatrale sentendomi canticchiare per 15 minuti buoni "Un elefante si dondolava".

Io avevo solo sorriso. Cinque ore con lui seduto lì e senza nessuna interazione? Impossibile. Facendogli compagnia per qualche giorno in ospedale avevo scoperto un lato di lui più tenero, più vulnerabile, e per nulla incline alla freddezza che di solito indossava come un'armatura. Non potevo lasciarlo sfuggire così, non ora che mi ero abituato a vederlo senza quelle pareti intorno.

Mi appoggiai allo schienale del sedile, fingendo di parlare tra me e me. «Facciamo un gioco?» dissi con tono leggero, quasi infantile.

Silenzio. San non rispose, ma non mi scoraggiai.

«Ok, va bene, gioco da solo.» Un sorriso mi spuntò sul viso. Sapevo che mi stava ascoltando, anche se faceva di tutto per non darlo a vedere.

Mi schiarii la voce, quasi cerimonioso. «Questo gioco si chiama Confessioni. Le regole sono semplici: io dico qualcosa di vero su di me, qualcosa che non ho mai detto a nessuno. E se tu non rispondi, significa che devi fare lo stesso. Facile, no?»

Nessuna reazione. Ma ero sicuro che stava trattenendo la curiosità.

«Inizio io, tanto tu dormi, giusto?»

Feci una pausa drammatica, poi lanciai la prima. «Confessione numero uno: Da-Eun mi adora. Sul serio. Mi ha chiesto se mi piacciono i kimchi fritti e indovina? Ho detto di sì. Anche se li odio. L'ho fatto per lei, mica per te. Ah, e so che è un po' precoce ma sto già pensando al nome del nostro primogenito.»

Ancora silenzio. Ma notai un lieve irrigidimento delle sue spalle, quasi impercettibile. Oh, lo stavo colpendo, eccome.

«Confessione numero due - continuai, abbassando il tono della voce come se fosse un segreto - Quando ti ho visto prenderti cura di lei, sono rimasto piacevolmente colpito. Non pensavo fossi capace di essere così dolce e premuroso. E sai qual è la parte più strana? Mi hai anche eccitato. Quel San lì... non lo conoscevo. È stato...sorprendente

Questa volta il silenzio fu diverso. Più teso. Sapevo che stavo sfiorando corde delicate, e proprio per questo non mi fermai.

«E ora, la migliore: confessione numero tre. - Feci una pausa teatrale, poi mi avvicinai leggermente a lui. - La scorsa notte, mentre dormivamo nella sala d'attesa, ho fatto un sogno... sul dottore di tua madre. Sì, proprio il Dott. Chan. Hai presente, no? Spalle larghe, sorriso smagliante, camice bianco perfettamente aderente al corpo tonico. Nel sogno mi stava facendo un check-up completo. E mentre lo faceva, ci siamo guardati negli occhi e poi, beh... abbiamo iniziato a—»

San si tolse la mascherina di scatto e mi fissò, con un'espressione che era un misto d'incredulità e fastidio.. «A?!»

La sua voce era piatta, ma gli occhi tradivano una gelosia che non riusciva a reprimere. Scoppiai a ridere, incapace di trattenermi. «Oh, sei sveglio! Perfetto, adesso tocca a te!»

San mi guardò come se volesse strangolarmi, ma c'era un accenno di sorriso sul suo viso. Lo conoscevo abbastanza da sapere che, nonostante tutto, si stava divertendo.

«Non cambiare discorso. A fare cosa, Wooyoung

«Niente, tranquillo. Era solo un sogno!» esclamai, completamente soddisfatto.

San si sporse leggermente verso di me, il suo tono intenso e basso. «Principessa - disse con un tono minaccioso - se osi ancora proferire parola, ti spingo giù dal treno. Giuro.»

Mi misi le mani sul cuore, fingendo di essere offeso. «Ehi, io sto solo cercando d'intrattenermi. Cinque ore sono lunghe, sai? E poi, diciamocelo, senza di me anche tu ti annoieresti a morte.»

«Intrattieniti col Dott. Chan. - San asserrì con fare permaloso  - Ah no, lui non è qui.»

Sorrisi, piegandomi leggermente verso di lui. «Geloso, eh?»

«Di te e le tue fantasie da sfigato? Neanche un po'.» Si voltò di nuovo verso il finestrino, ma il rossore sulle sue orecchie mi disse tutto ciò che dovevo sapere.

Sospirò, abbassandosi la mascherina sugli occhi con un gesto rapido. Poi, prima di prendere sonno per davvero, richiamò ancora una volta la mia attenzione. «Woo?»

«Mmh?»

«Com'è che vuoi chiamarlo il primogenito?»

Pov San
Ero tornato alla SNU da pochi giorni e stavo ancora cercando di sistemare la mia routine. La lavanderia era quasi vuota, come speravo. Avevo bisogno di silenzio, di mettere ordine non solo tra i vestiti ma anche nei pensieri. Mia madre continuava a occupare ogni spazio della mia mente, anche quando non volevo. Stavo infilando i vestiti nella lavatrice quando sentii la porta aprirsi.

Mi voltai e lo vidi: Seonghwa.

Non lo vedevo da settimane, e l'ultima volta che ci eravamo parlati era stata tutt'altro che piacevole. Una tensione insopportabile si era creata tra di noi, fatta di cose non dette e di una distanza che sembrava incolmabile. I suoi occhi scuri cercarono i miei, ma io mi limitai a tornare al mio lavoro, cercando di ignorarlo.

«San... - esordì lui, con quella voce bassa e leggermente esitante che mi aveva sempre dato un misto di fastidio e fascino. Non risposi, ma sentii i suoi passi avvicinarsi. Non mi lasciò scampo. --Possiamo parlare?».

Mi voltai di scatto, forse troppo bruscamente. «Cosa c'è da dire, Seonghwa?». La mia voce era dura, più di quanto avessi pianificato. Non volevo cedere.

Seonghwa esitò prima di muoversi, come se stesse cercando il coraggio per fare qualcosa di importante. Poi infilò una mano nella tasca del suo giubbotto e tirò fuori un piccolo oggetto. Lo riconobbi subito, anche prima che lo mettesse davanti ai miei occhi. Era il ciondolo che gli avevo dato anni prima, quando credevo che niente potesse separarci.

Una piccola chiave di metallo scuro, con un'incisione sul retro che avevamo deciso insieme: un simbolo che per noi rappresentava amicizia e fiducia. Glielo avevo regalato durante un pomeriggio d'estate, convinto che fosse un gesto che ci avrebbe legati per sempre.

Quando lui se n'era andato, avevo dato per scontato che lo avesse buttato via, come tutto il resto di ciò che avevamo condiviso.

«Non l'ho mai buttato - disse, guardandomi negli occhi. La sua voce era ferma, ma aveva una nota di vulnerabilità che mi colpì. - L'ho sempre tenuto con me. Anche quando pensavo di non meritare più di averti nella mia vita.»

Rimasi a fissarlo, incredulo. Non sapevo cosa dire. Quelle parole mi colpirono più di quanto volessi ammettere. Mi sentivo come se una parte di me, quella che avevo cercato di seppellire sotto la rabbia e la delusione, stesse emergendo con forza. Guardai il ciondolo nella sua mano. Era leggermente opaco, ma intatto. Custodito con cura, proprio come aveva detto.

«Perché? - chiesi, la mia voce più bassa di quanto avrei voluto. - Avresti dovuto gettarlo, visto che ti sei allontanato.»

Seonghwa sospirò, abbassando lo sguardo sul ciondolo prima di rialzarlo su di me. «Perché anche se mi sono comportato come uno stronzo, tu eri comunque una parte di me. Lo sei sempre stato. Mi ha ricordato chi ero, anche quando stavo cercando di scappare da tutto.»

Quelle parole si infiltrarono tra le crepe del muro che avevo costruito. Non era facile accettarle, ma era impossibile ignorarle. Mi ritrovai a guardare quella chiave, quasi come se fosse una reliquia di qualcosa che non potevo più avere, ma che non avevo mai davvero smesso di volere.

«Lo so che le cose non sono state facili tra noi. Ma... volevo dirti che mi dispiace. Per come sono andate le cose. Per averti lasciato da solo.»

Quelle parole mi colpirono come un pugno allo stomaco. Una parte di me aveva aspettato di sentirle da anni, ma un'altra parte non era sicura di volerne sapere.

«Davvero? E ci hai messo così tanto per capirlo? O è solo perché ora ti fai Hongjoong e ti senti in dovere di ripulirti la coscienza?». Il mio tono lo fece vacillare. Lo vidi abbassare lo sguardo per un istante, ma poi si riprese.

«Non è per Hongjoong. È per noi. Io... ho sbagliato, San. Avevo paura. Avevo il caos in casa, e tu... tu eri così importante per me che non sapevo come gestire la tua sofferenza e la mia allo stesso tempo.»

Esitai, ma alla fine allungai la mano verso il ciondolo. Le sue dita sfiorarono le mie mentre me lo consegnava, e in quel tocco c'era qualcosa che mi fece abbassare la guardia, anche solo per un istante. Lo strinsi nel pugno, sentendo il metallo freddo contro la pelle.

«Non so se posso perdonarti, non so nemmeno se voglio provarci. - dissi, fissandolo. - Ma... grazie. Per non averlo buttato.»

Seonghwa accennò un sorriso, il primo vero sorriso che gli vedevo da molto tempo. «Grazie a te per avermelo dato, allora.»

Quando uscì dalla stanza, mi limitai a voltarmi e a fissare le piastrelle bianche e nere della lavanderia, con il ciondolo stretto tra le mani.

Lo osservai per qualche minuto, il cuore ancora in tumulto. Non sapevo se eravamo pronti a ricostruire ciò che avevamo perso, ma quel piccolo oggetto era la prova che, forse, c'era ancora qualcosa che valeva la pena salvare.

Non siamo mai stati ragazzi facili, Park.

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