Capitolo 2 - Viola

ATTENZIONE

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«Allora? Dove andiamo stasera?» mi chiese Giulia, seduta al tavolo snack della mia cucina.

Sbuffai infastidita. «Ma dobbiamo uscire per forza? Sai che non ne ho voglia» borbottai, accostando il fondoschiena al mobile bianco e avvicinando la tazza di caffè e latte alla bocca. Una sorta di cappuccino improvvisato.

Mugugnò spazientita, sistemandosi una ciocca della chioma bionda e mossa dietro la spalla. «Devi uscire, Fra, altrimenti come lo trovi un nuovo fidanzato?» ripeté ancora. Da quando Elia mi aveva mollata sembrava che la sua nuova missione di vita fosse diventata trovarmi un rimpiazzo.

«Ma scherzi? Non è passata neanche una settimana. Adesso devo godermi la vita da single».

Ripensandoci a mente fredda, la relazione con Elia mi aveva trasformata. Pur di non litigare, avevo messo da parte ciò che mi piaceva e assecondato le sue strane manie sull'apparire.

Giulia mi aveva sempre ripetuto come, con il passare del tempo, il suo atteggiamento maniacale fosse peggiorato. «È proprio un coglione» era l'affermazione più carina che riusciva a rivolgergli quando parlavamo di lui. Tuttavia, non ero riuscita a vederlo o forse non volevo farlo.

Non ero mai stata una ragazza pretenziosa e restare a casa la sera quando non potevo sfoggiare il look richiesto, non mi dispiaceva affatto. Anzi, lo adoravo: mi sistemavo sul divano a guardare qualche serie tv in streaming, sgranocchiavo un po' di porcherie, patatine e quant'altro, e mi sentivo felice.

Soltanto dopo essere stata lasciata mi ero resa conto di cosa avevo perduto. Avevo interrotto il rapporto con alcuni amici perché Elia li reputava banali, uscivo truccata tutti i giorni – persino al lavoro – perché lui non voleva che apparissi sciatta e avevo messo da parte la passione per i manga giapponesi perché li riteneva infantili e imbarazzanti.

A conti fatti, non mi sarebbe potuta capitare cosa migliore.

Giulia scosse la testa. «E sarei d'accordo con te se non ti vedessi sospirare di continuo. Devi allontanare i pensieri e per farlo devi distrarti» perseverò, ma l'improvviso suono del citofono interruppe la conversazione. «Vado io» borbottò con stizza. Mossi un cenno d'assenso e mi avvicinai al lavandino per posare la tazza vuota.

Aveva ragione, sospiravo spesso, ma non a causa di quell'idiota di Elia o perché sentivo il bisogno di trovare un nuovo fidanzato. Ero convinta di voler restare sola e lasciar riposare il cuore da quel tipo di emozioni, ma un pensiero continuava a tornare: Davide, se quello fosse stato davvero il suo nome. Credevo che avrei considerato quel ricordo come una delle tante esperienze, folli ma intense. Invece i suoi occhi di notte e la voce ammaliante continuavano ad abitare i miei sogni.

La sua compagnia, oltre al sesso, era stata piacevole. Lui era piacevole. Molto. E io ero stata una stupida a non chiedergli il numero di telefono, o forse lo ero diventata a causa di quell'ultimo pensiero.

D'improvviso mi resi conto che Giulia ci stava mettendo più tempo del previsto e m'incamminai verso l'ingresso. «Ehi! Ma che fine hai fat...» mi zittii non appena misi piede nel corridoio.

Giulia stava firmando la ricevuta al corriere, poi chiuse la porta e si mosse verso di me con un grosso mazzo di fiori fra le mani. «E questi? Chi te li manda? Non sarà quel coglione di Elia!» lamentò con disappunto.

«Naa. Non mi ha mai regalato dei fiori per il compleanno» risposi andandole incontro.

Puntai l'attenzione su un bigliettino bianco nascosto fra i petali. Lo presi e lo aprii:

Sentii schiudersi un gran sorriso sul viso e mi morsi il labbro inferiore quando sul retro trovai un numero di telefono. Allora non ero l'unica che continuava a pensare a quella notte!

«Sono strani questi fiori. Di che colore sono? Viola?» chiese Giulia accarezzandone i petali.

Li guardai e sorrisi ancor di più. «Porpora. Sono color porpora» precisai, sfilando il mazzo dalle sue mani. Non avevo mai ricevuto una composizione tanto grande, solo qualche rosa da Elia quando voleva farsi perdonare o da mia madre per festeggiare un'occasione, e non sapevo se avrei trovato un vaso dove metterli.

Mi diressi nel soggiorno, diviso dalla cucina dal tavolino snack, e scrutai la credenza dove avevo riposto alcuni oggetti. Quando avevo deciso di trasferirmi in quell'appartamento, avevo portato con me degli oggetti dalla casa dei miei genitori che loro non usavano mai, come un set da caffè e altre chincaglierie.

«E chi te li ha mandati, allora? Tua madre?» domandò Giulia, seguendomi.

«È complicato». Trovai un cilindro in vetro e lo presi. Non era molto alto, ma avrei potuto accorciare i gambi e sarebbe stato perfetto.

«Cosa vuol dire "è complicato"?» insistette, curiosa.

Le rivolsi uno sguardo di sfuggita, poi m'incamminai verso la cucina. «Voglio dire che sono passate le otto: entrambe iniziamo a lavorare fra mezz'ora e non abbiamo tempo per le chiacchiere» glissai. Presi una forbice dal cassetto delle posate e iniziai a tagliare gli steli, buttando gli scarti nel lavandino.

«Beh, qualcosa puoi accennarmela, no?»

Posai i fiori sul piano in finto marmo e sospirai. «Quando mai ti sei fatta bastare soltanto dei dettagli?» commentai, riempiendo per metà il vaso d'acqua.

Mi rigirai, posai il cilindro sul tavolino snack e inserii i fiori. Erano davvero belli e mi sentii molto felice per quel gesto. Avrei dovuto ringraziarlo e adesso potevo farlo.

Lo sguardo indagatore di Giulia non mi dava tregua e sapevo che avrebbe continuato a insistere finché non avesse ottenuto ciò che voleva. Aveva sempre avuto un carattere deciso e autoritario, che a volte mi metteva in soggezione.

Ancora sospirai. «C'è una cosa che non ti ho detto» ammisi arrendevole.

Inarcò un sopracciglio, confusa. «E sarebbe?»

«Sarebbe che ho incontrato qualcuno» proseguii distogliendo lo sguardo.

Giulia scoppiò a ridere. «Tu, che incontri qualcuno? E dove? Nei tuoi sogni, visto che non esci di casa se non per andare al lavoro» mi canzonò.

«Una volta sono uscita».

Stette in silenzio per qualche istante, poi spalancò gli occhi. «Vuoi dire quando sei partita per Roma? Hai incontrato qualcuno in un autogrill?»

Scossi il capo. «Pioveva troppo forte quella sera, lo sai, e mi sono fermata in un motel. È stato lì che l'ho incontrato» spiegai, camminando verso il corridoio.

«E come mai non mi hai detto niente? E cosa vuole da te, mo*?» domandò alle spalle.

«Sul biglietto c'era il suo numero» risposi, prendendo il giubbotto appeso all'attaccapanni.

«Non sarai così sprovveduta da chiamarlo! Non sai neanche chi sia» esclamò preoccupata, venendomi vicino.

«Si chiama Davide e ha trentaquattro anni. Abbiamo parlato un po' e mi è sembrata una persona tranquilla». Preferii tacere su ciò che era accaduto fra una chiacchiera e l'altra. Sapevo che Giulia non mi avrebbe mai creduta, e se invece l'avesse fatto sarei arrivata tardi al lavoro. Molto tardi.

L'osservai infilare il lungo cappotto nero, coprendo il bel tubino lilla che aveva indosso. «Sappiamo bene che il tuo istinto fa acqua da tutte le parti, ne è testimone il fatto che hai dovuto aspettare che fosse Elia a lasciarti per capire che gran coglione fosse».

«Ma non hai altri termini per definirlo?» ridacchiai, afferrando la borsa.

«Se uno è coglione, è coglione. A parte questo, ti prego di stare attenta» disse mentre ci avvicinavamo all'ingresso. «C'è tanta gente strana in giro che non si farebbe problemi ad approfittarsi di un'ingenua come te».

«Grazie, amica mia. Sei sempre tanto dolce con me» mormorai giocosa, schiudendo l'uscio. «E in ogni caso non ho detto di volerlo chiamare, soltanto che mi ha lasciato il suo numero».

Scendemmo a piedi i tre livelli che ci separavano dal piano terra.

«E tu gli hai dato il tuo indirizzo».

«In realtà no. Non ho idea di come abbia fatto a trovarmi» ragionai a voce alta.

«Hai visto? È di sicuro uno stalker» sentenziò, decisa.

Ridacchiai. «È stata la sua compagnia a farmi cambiare idea. Mi ha aiutata a scaricare la rabbia permettendomi di ragionare sulla sciocchezza che volevo commettere». Aprii il portone e subito venni colpita da una folata di vento fresco. Ero sempre stata molto freddolosa e il bel tempo giungeva sempre più tardi in città.

«Oh, questa è una bella notizia» dichiarò, scendendo i quattro gradini che ci dividevano dal marciapiede.

«Beh, buona giornata, allora. Io ho parcheggiato sulla sinistra» dissi, schioccandole un bacio per ogni guancia.

«Io a destra» replicò, ricambiando il gesto. «Aspetta un momento, però!»

«Cosa?»

«In che senso ti ha aiutata a scaricare la rabbia?» chiese e sentii il viso scaldarsi un po'.

«Parlando, te l'ho detto!» Decisi di continuare a mentire.

Mi scrutò con aria perplessa, poi sorrise. «Sto scherzando. È più probabile che le mucche volino piuttosto che ti capiti qualcosa di scottante» concluse, poi si voltò e si diresse verso la sua auto. «Ci sentiamo dopo, Fra».

«Ciao!» salutai e mi girai per fare altrettanto.

Sapevo che non sarebbe riuscita a vedere nulla di malizioso nelle mie parole. Ciò che avevo fatto era fin troppo fuori dai miei standard. Tuttavia, mi sentii in colpa per quella bugia. Giulia era la sorella che non avevo mai avuto e dovevo trovare il coraggio per confessarle di quella notte.


***


«Sono trentasei euro e cinquantatré centesimi» dissi, porgendo la busta alla donna di fronte a me. La signora bionda mi diede due banconote da venti euro e, dopo averle dato il resto, si allontanò verso l'uscita.

«Puoi fare una pausa, se vuoi». La voce di Giovanna arrivò come una ventata d'aria fresca.

La guardai e sorrisi. «Grazie, avevo proprio bisogno di andare in bagno» confessai. Uscendo di casa mi ero dimenticata di fare pipì e lo stimolo, aggravato dalla posizione eretta che sostenevo da tre ore, mi stava facendo impazzire.

Lasciai il banco cassa e corsi nel bagno riservato ai dipendenti alla velocità della luce. Seduta sul vaso, mi ero incantata a guardare lo schermo del cellulare. Avevo messo in tasca il bigliettino di auguri e memorizzato il numero di Davide appena entrata in auto. Volevo ringraziarlo per i fiori e anche per aver pagato la mia stanza al motel, seppur in un primo momento mi avesse dato l'idea di aver comprato il tempo passato assieme.

Mi accorsi che aveva un account WhatsApp, ma non potevo vedere se fosse in linea perché non aveva il mio numero in rubrica. Che senso aveva rimuginare tanto? In fondo era stato lui a lasciarmi il suo contatto e se non avesse voluto sentirmi non l'avrebbe fatto. Al contrario, il messaggio era chiaro e tondo: voleva che gli scrivessi. E lo feci.

Semplice, nulla di particolare o che potesse fargli capire che l'avevo sognato ogni notte nei cinque giorni passati. Attesi un po', ma non comparve neanche la seconda spunta, quella che indica la consegna del messaggio. Ero in bagno già da dieci minuti e se il capo fosse rientrato in negozio in quel frangente sarebbe stata una gran rottura.

Mi sistemai, infilai il cellulare in tasca e tornai alla cassa.

«Grazie, Giò, e scusami se ci ho messo un po'» dissi, fermandomi al suo fianco.

Giovanna era una ragazza di poco più di vent'anni, un po' in carne e con i capelli a caschetto bruni. Studiava architettura e lavorava part-time con un contratto a orario flessibile. Era gentile e accomodante, non come molti suoi coetanei che si credevano i padroni del mondo. Brutta generazione.

«Tranquilla, c'è poca gente oggi. Come mai sei al lavoro il giorno del tuo compleanno?» domandò, spostandosi verso uno scatolone da cui tirò fuori una camicia da sistemare sullo scaffale.

«Perché Sua Maestà ha le braccia corte e non concede ferie. In ogni caso, non avevo nulla da fare e non aveva senso chiedergli la giornata».

Senza pensare, presi lo smartphone e controllai la sua chat. Nulla.

«Chi è? Il tuo ragazzo?» mi chiese.

La fissai stupita da quell'affermazione, ma poi capii che si stava riferendo a Elia, avendolo conosciuto. «No. Non stiamo più insieme» confessai. Giò era una delle ragazze con cui mi trovavo meglio e avevamo stretto un buon rapporto di amicizia. E poi non mi vergognavo a dirlo.

Mi guardò dispiaciuta. «Scusami, non volevo...»

«Non preoccuparti, è tutto okay. Tu, piuttosto? Con quel compagno di corso».

Scosse il capo. «Nessun passo avanti, ma non mi arrendo» replicò decisa e le sorrisi. Invidiavo chi come lei o Giulia riusciva a essere tanto determinata. Io, invece, mi lasciavo scivolare tutto addosso come se non m'importasse. Ma non era così.

«Poche chiacchiere, qui!» Sussultai spaventata da qual duro richiamo ed entrambe spostammo l'attenzione oltre il banco cassa: il boss era arrivato. «Il fatto che ci stanno pochi clienti non vi autorizza a battere la fiacca. Ogni minuto che passate qui è ben pagato e dovete lavorare, non socializzare» ci rimproverò.

Paolo Montemurro, soprannominato da noi dipendenti Sua Maestà, era il dirigente del franchising Men, Women & Kids dove lavoravo. Era riuscito ad accaparrarsi un ottimo punto centrale su via del Corso, ma da quando Matera era diventata Capitale della Cultura, l'affitto e le bollette erano lievitate oltremisura. Così, pur di mantenere i suoi guadagni elevati, faceva di tutto pur di risparmiare anche un centesimo.

«Siamo di turno alla cassa e stiamo sistemando i nuovi arrivi» specificai per fargli intendere che potevamo fare più cose contemporaneamente.

«Potete sistemarli anche in silenzio» replicò accarezzandosi la folta barba, compensazione della pelata. «Bruno», tuonò avvicinandosi d'un passo, «ho visto che hai spostato il turno di giovedì».

«Sì, ho lezione all'università il 2 maggio» rispose Giovanna senza smettere di piegare i vestiti.

«Il fatto che ti abbia concesso un contratto flessibile non vuol dire che puoi fare di testa tua. Devi parlarne con me» lamentò.

«Ma l'ultima volta mi ha detto che mi sarebbe bastato trovare qualcuno con cui fare il cambio e Vittoria ha accettato».

«Non m'importa cosa ho detto, devo sempre sapere tutto, io! Non posso trovarmi cancellature sui fogli dei turni. Questo è un lavoro serio, non un gioco!» continuò, deciso a rompere le scatole più del dovuto.

«Ho capito» mormorò lei, sommessa.

«Bene» brontolò e si addentrò nel negozio, forse per rimproverare qualcun altro.

«Che grandissimo stronzo...» commentò la mia collega, sottovoce.

«Non dargli peso, Giò. Sua moglie deve avergli negato il servizietto stamattina» ammiccai e lei ridacchiò.

«Ma come si fa a sposare un tipo come quello? Quando andrò via di qui gli sputerò in un occhio!» affermò convinta e fui io a sogghignare.

«Fallo anche per me».

«Tu quanto hai intenzione di restare?» domandò, lanciando un'occhiata al fondo del locale, forse per controllare che Sua Maestà non rispuntasse.

Alzai le spalle. «Non lo so. Dipende».

Fummo costrette a interrompere ogni tentativo di socializzazione quando Paolo tornò verso di noi. In genere passava la mattinata a controllare tutti i negozi della città di cui era proprietario o co-dirigente, ma quella mattina aveva deciso di passarla tutta da noi. Una gran fortuna...


***


Rientrai a casa distrutta, come sempre. Anche il mio era un part-time, ma di quelli in cui sulla carta erano state pattuite cinque ore di lavoro mentre la realtà dei fatti era che ne facevo anche otto o più, quando serviva.

Riempii un bicchiere di vino rosso per metà, presi il pc portatile – un vecchio HP a cui non rimanevano molti giorni di vita – e mi sedetti sul divano. Incrociai le gambe e aprii il mio sito streaming preferito.

Alla fine, Davide non mi aveva risposto. Il messaggio era stato consegnato ma non visualizzato. Avevo provato a ricontrollare il numero, caso mai l'avessi scritto sbagliato, ed era lo stesso del biglietto d'auguri. Mi ero creata troppe aspettative e la delusione non ci aveva impiegato molto a invadermi.

Stavo per selezionare il diciassettesimo episodio della quindicesima stagione di Grey's Anatomy quando squillò il cellulare.

«Ehi» salutai.

«Mi hai dato buca anche stasera» brontolò Giulia.

«Scusami, ma avevo da fare». Con sguardo fisso sullo schermo, preparai l'episodio scelto per essere visto appena conclusa la telefonata.

«E come si chiama il tuo "da fare"? Grey's Anatomy? Elementary? O 911?»

Sbuffai divertita. «Buona la prima».

«Senti, parlando di cose serie, hai pensato al tirocinio?»

Alzai gli occhi al cielo. «Ti prego, non ricominciare» mormorai seccata, appoggiando la nuca allo schienale del divano.

«Ma vuoi marcire dentro a quello stupido negozio?! Tua madre sta meglio già da un po' ed è ora che pensi a te stessa. Sai che mio padre aspetta una risposta» mi rimproverò.

«Ringrazialo per l'opportunità che mi ha offerto, ma non penso di...»

«Pensa di meno, invece, e agisci! Se non lo dici tu ai tuoi, lo farò io!» m'interruppe, irruente come sempre, e riagganciò.

Sospirai con gran rumore. Era almeno un mese che Giulia mi assillava con la storia del tirocinio, ma non volevo pensarci. Nel tempo ero riuscita a costruire il mio equilibrio e non ero sicura di volerci rinunciare.

Posai il telefono sul cuscino del divano e nello stesso istante vibrò: Davide mi aveva risposto. Percepii una strana emozione nel petto e qualche battito in più del cuore.

Aprii la sua chat:

Sorrisi leggendo le sue parole e subito gli risposi di no. Non ebbi tempo di chiedermi il perché di quella domanda che trovai presto la risposta: mi stava chiamando.

Fissai lo smartphone per qualche istante, combattuta tra il forte desiderio di risentire la sua voce e le parole d'avvertimento di Giulia. Forse non avrei dovuto rispondere ma lo feci.

«Pronto?» mormorai titubante.

«Buonasera». La sua voce calda e sensuale ci mise meno di un millesimo di secondo a risvegliare ogni fibra del mio corpo, facendo riaffiorare i momenti passati insieme. «Sono contento che mi hai scritto».

«Dovevo ringraziarti, non soltanto per la sorpresa ma anche per la camera del motel. Come hai fatto ad avere il mio indirizzo?»

«Il concierge, ma non prendertela con lui. Stava mettendo a posto la chiave della stanza e con il suo fare lento mi ha dato il tempo di sbirciare il tuo indirizzo sul registro. Sono stato indiscreto?»

Scossi il capo. «No. Ho apprezzato molto i tuoi fiori» confessai. E poi se non l'avesse fatto non avrei avuto l'opportunità di risentirlo.

«E il mio numero? Ti ha fatto piacere riceverlo?» domandò, lasciandomi di sasso.

Non sapevo che risposta volesse, ma di una cosa ero sicura: «Non ho detto propriamente quello. Soltanto che dovevamo lasciarci andare perché non sarebbe più ricapitato» precisò.

«E non è lo stesso?»

«No. Perché se volessi, potrebbe accadere ancora». Restai pietrificata, incredula. «Ero dell'idea di lasciarmi alle spalle la notte al motel, ma già la mattina successiva, quand'ero nella hall per pagare, vedendo il tuo nome sul registro ho pensato che avrei voluto rivederti. Tu vuoi rivedermi?»

Mi stava offrendo un'altra notte di follia. Intensa e passionale.

Un'altra notte che non avrei mai più dimenticato.


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Mo: adesso.


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