3. La seduta

Al telefono, la voce di Anna gli aveva suggerito una personalità affabile, sicuramente quella di chi fosse più che abituato a gestire nevrosi, crolli e chi più ne ha ne metta. Accordarsi con lei gli venne stranamente più facile del previsto. La dottoressa non gli chiese quale fosse il problema, anzi, ripeté e premette più volte sul tasto "chiacchierata", come se veramente un paio di parole scambiate con un perfetto sconosciuto potessero sciogliere il nodo Savoia che gli ingarbugliava i pensieri.

Mentre procrastinava davanti al cancellino di ferro battuto sulla collinetta, Lucio si domandò seriamente se avrebbe potuto raccontarle tutta la verità: gli incubi erano un conto, ma quella chiamata? E se avesse deciso di sorridergli e nel frattempo chiamare la neuro? A proposito: funzionava ancora così?

Ficcò le mani nelle tasche di un logoro paio di Levi's, stropicciando il pezzetto di carta con su scritto indirizzo e numero di cellulare che gli aveva precedentemente dato Giulia. La dottoressa riceveva privatamente a casa sua, in una pittoresca villetta inizio novecentesca in stile chiaramente Liberty. Completamente immersa nel verde, con dell'edera rampicante che, persino accanto al citofono incorniciato dall'ottone, ricalcava alla perfezione le nervature filiformi dell'architettura.

Arte e natura. A Lucio, in tutta onestà, piacque.

Dopo aver suonato il campanello, ad accoglierlo ci fu una breve scalinata piastrellata che scendeva verso due ingressi, lui ovviamente optò per quello sulla sinistra: di fronte a cui la bassa e magrissima figura di una donna lo attendeva.

«Ciao Lucio... perdonami, posso darti del tu, vero?»

Anna si strinse in un prendisole dai colori sgargianti. Le bretelline sottili affondarono nella carne abbronzata a grinzosa, eppure i riccioli tinti di un classico rosso menopausa sembravano darle un tocco di gioventù. Chissà, forse per la consapevolezza dell'età che incombeva, ipotizzò lui. Notò che aveva un sorriso gengivale. Poi si accorse dei bracciali etnici che le fecero tintinnare i polsi quando si protese per stringergli la mano. Nonostante la gracilità, fu ammirato dalla decisione con cui lo afferrò.

Magra, abbronzata, sicuramente eccentrica. Come minimo non si sarebbe meravigliato se avesse trovato l'ambulatorio tappezzato di acchiappasogni, strani flauti tribali, e magiche maschere africane provenienti dal Gabon.

«Ma certo, anzi, grazie per avermi fatto venire con un preavviso del genere...»

«Figurati caro, figurati. Sono tutti in vacanza, e poi riconosco chi ha veramente bisogno» cinguettò bonariamente.

Cazzo, si nota così tanto? Forzò un sorriso, cercando di stemperare il disagio cavalcante.

Lo fece entrare da una porticina a vetri spessi e opachi, per poi richiudersi la porta alle spalle. Da subito venne sopraffatto da un intenso odore floreale, e lo sguardo vagò nel cubicolo quadrato fino ad adocchiare uno di quei diffusori molto new age simili a fontanelle. Lo scintillio di una sfera roteante, apparentemente di cristallo, lo incuriosì a tal punto da fissarla come un pointer, poi passò in rassegna quadri e tappezzeria, traendo da sé le somme. In una foto in bianco e nero, appesa fra due piccoli arazzi peruviani, la dottoressa sbirciava verso di lui con un sorriso smagliante in giacca a vento e occhiali specchiati da sciatrice: alle sue spalle, le rovine di Machu Picchu.

Aggrottò la fronte, ammirato.

Poi c'erano scansie e mensole dentro a rientranze nelle pareti. Testi e prontuari di psichiatria si mischiavano a stravaganti libri che dall'erboristeria sondavano tutto lo scibile, planando raso terra su materia medica omeopatica e omotossicologica.

Appunto. Niente di diverso dal previsto.

«Vieni, siediti pure».

Lucio si girò quasi di scatto, nemmeno fosse stato un gatto a cui avevano pestato la coda. Dalla fase paradossalmente sorpresa, per quanto si sentisse più che inebetito, finì con il tossire per dissimulare lo stesso colpevole imbarazzo di un ragazzino beccato a sbirciare negli spogliatoi femminili.

La dottoressa si era accomodata su una di quelle seggiole stravaganti, reclinabili e con poggia piedi. Aveva in grembo un bibitone verdastro dentro una borraccia opaca mentre gli indicava la seggiola nera davanti a lei.

«Niente su cui sdraiarsi?» Scherzò, scrollandosi le spalle.

Anna scosse la testa, poi sorrise pacatamente. «Purtroppo non è come nei film. O meglio, lo sarebbe anche, non fosse che una ventina di gocce non serva assolutamente a nulla».

«Cosa vuol dire? È contraria?» Gli domandò lui, sciogliendosi come un cubetto di ghiaccio al Sole sulla seduta di tela.

«No. Ma trovo che la psicoterapia coadiuvi meglio la guarigione. Poi, ovviamente, la cosa cambia da paziente a paziente. Mi sono sicuramente spiegata male...» rise.

Accennò un singulto d'ironia persino lui. Si sentiva stranamente a suo agio e, visti gli ultimi tempi, non aveva nemmeno voglia di domandarsi il perché.

«Allora... cosa devo dire?» Azzardò, piegandosi in avanti ingobbito.

«Parlami un po' di te. Cosa fai nella vita? Come va il lavoro?»

Una merda.

«Sono... un ricercatore universitario. Ho finito il dottorato tre anni fa, e da allora affianco come assistente la docente di storia delle religioni classiche. Ora però...» e si sentì infastidito quel tanto che bastava dal mettersi a giochicchiare con le mani a penzoloni, fra le ginocchia divaricate.

«Però...?» Lo incalzò gentilmente lei.

«Però mi hanno dato qualche mese di malattia» ammise, e anche alla buon'ora. Alla ricerca poteva sicuramente dedicarsi sia nella biblioteca della facoltà sia a casa sua, ma aver perso completamente il contatto con l'insegnamento, con la compagnia di altri suoi "simili", come amava definire dottorandi, studenti e ricercatori, gli aveva dato il colpo di grazia.

«Perché gliel'hai chiesto tu?»

«Cosa?»

«Il periodo sabbatico» si spiegò Anna, facendo virgolette all'aria con le dita.

«No» e tese la mandibola, ricominciando a far vagare lo sguardo all'interno del cubicolo bianco avorio in cui si erano infrattati.

«Te la senti di raccontarmi cos'è successo?» La voce della donna si fece un sussurro.

«Dopo...» deglutì, «dopo la morte di Roberto, il mio migliore amico, ho iniziato a dormire sempre meno».

«Prenditi il tuo tempo, con calma» mormorò rassicurante Anna.

«Sì, lo so...» chiuse gli occhi, accorgendosi di essere stato anche fin troppo brusco. «Mi scusi».

«Non ti preoccupare Lucio, parla a ruota libera».

«Aveva iniziato ad aver problemi di droga da un paio d'anni. All'inizio né io né i nostri amici ce n'eravamo accorti. Insomma, si comportava in maniera normalissima. Poi, una sera, mi chiamò. Aveva la voce impastata. Eravamo in inverno, e mi sono dovuto alzare nel cuore della notte per andare a prenderlo in macchina...» chinò la testa in avanti e chiuse gli occhi, iniziando a grattarsi nervosamente dietro al collo. «Quello fu solo l'inizio. Almeno un paio di volte alla settimana mi telefonava in stato pietoso. Ero l'unico a saperlo... provai prima con delle brochure, insomma, se cerchi online ti consigliano tutti di essere comprensivo, di essere presente, di non pressare. Ma cazzo, a un certo punto ho ceduto».

«È normale, Lucio, è più che normale».

«No, non lo è!» Rialzò gli occhi color nocciola verso di lei. Ricominciava a sentire un pulsare cavalcante all'altezza delle tempie. «L'unica dannata sera in cui decisi che si doveva arrangiare, dopo mesi a corrergli dietro, l'hanno trovato di fianco a un cassonetto con la testa fracassata e il collo spezzato!»

Anna, immobile, lo fissò senza dar minimamente segno di emozioni. Aveva appena chiuso la bottiglietta, e la stava appoggiando sul mobiletto lucido alla sua destra quando iniziò ad annuire lentamente. Per un momento gli ricordò un escursionista a cui vien detto di non fare movimenti bruschi, o scatti, davanti a un animale selvatico.

«Da qui, il senso di colpa... così come l'insonnia, immagino. O sbaglio?»

Lucio richiuse gli occhi, annuendo indolente. Sentiva la bocca dello stomaco contrarsi, e un conato di bile salire sulle montagne russe del nervosismo.

«Chiamarono me. Ironico, no? L'unico e primo bastardo fra la sua lista di numeri per le emergenze. Suo padre morì quand'eravamo piccoli, le nostre madri erano molto amiche, quindi siamo cresciuti insieme...»

«Come mai non aveva sua madre come contatto?»

A quella domanda Lucio inspirò a fondo, ricacciando indietro gli improperi. «Si è risposata e trasferita. Roberto non ha mai approvato... da quello che ho capito, il suo patrigno si era rigirato per bene la frittata, convincendo sua madre che Roberto le avesse rovinato la vita».

«Capisco».

«Senta, io non so cos'altro dire...» bofonchiò, intrecciando con talmente tanta forza le dita da far sbiancare le nocche. «Voglio soltanto ricominciare a dormire. Tornare a lavorare. Voglio... io voglio...»

«Dillo, Lucio. Dillo... buttalo fuori».

«... dimenticarlo» ammise, dolorante quanto un podista dopo 2km di marcia in salita.

«Tu sai cosa significa quello che hai appena detto, vero?»

«Che sono un figlio di puttana egoista?» Ridacchiò istericamente, tirando su con il naso.

«No, caro, no. Non riesci a elaborare il lutto, e il tuo unico modo di reagire al dolore della mancanza sta nel cercare di seppellire da qualche parte tutta quella sofferenza. Vuoi allontanarlo da te, sperando di guarire... ma è come conficcarsi un coltello in un braccio, spezzarci la lama, e poi aspettarsi che la ferita guarisca senza infezioni o rigurgiti del corpo».

Ascoltandola, Lucio realizzò che non soltanto aveva pienamente ragione, ma che dalla domanda di lei riguardo i motivi che avessero spinto l'università a dargli quel periodo di pausa, si era lanciato sui suoi sensi di colpa come la lingua che batte contro il dente dolente. Altroché lingua, la sua era un martello pneumatico.

Si strinse nelle spalle. «La chiamata...»

Lei annuì, senza forzarlo o interromperlo.

«Durante l'ultima chiamata che mi fece, disse che era scappato dal suo appartamento. Che... qualcosa lo stesse seguendo, e che non poteva chiamare le autorità pensando che lo avrebbero preso per pazzo...»

«Beh, la droga...»

«Sì» annuì a occhi socchiusi, liquidando rapidamente il commento della dottoressa. «Lo so, lo so. Ma non era la prima volta che accennava a qualcosa del genere».

«Spiegati meglio» l'inflessione vocale di Anna sfumò fino alla curiosità.

«Parlava di certe voci nella sua testa. Voci che all'inizio non capiva, che all'inizio erano soltanto un brusio, cose così» gesticolò, facendo spallucce.

L'improvvisa espressione di sospetto di lei lo colpì come una scure alla base del collo. «Lucio, quanti anni aveva Roberto?»

Di fronte a quella domanda, la lama gelida scavò dolorosamente ancora più a fondo. Avrebbe scommesso che la dottoressa si sarebbe lanciata come un attaccante sulla droga, non certamente su un discorso del genere.

«Aveva la mia età, trentatré anni. Perché?»

«Perché-...» il motivetto dell'aria sulla terza corda di Bach interruppe il flusso di parole della donna, portandola sbrigativamente ad armeggiare con una taschina del prendisole. «Scusami un momento, perdonami».

Lucio la vide fissare lo schermo per alcuni secondi, per poi silenziare la suoneria e mettersi a digitare qualcosa. Un secondo dopo il telefono era sul mobile alla destra di lei e alla sinistra di lui, con il salvaschermo illuminato e una serie di notifiche su un'immagine di quella che presunse essere una famiglia. Distolse lo sguardo tornando sul volto di Anna, che si era messa a tamburellare con le dita sul mento. «Dicevo...»

Poi, quel brivido gelido che d'improvviso gli azzannava la schiena fino a piombare al petto. Una fitta al costato s'irradiò fino al cuore. Riportò, schivo, lo sguardo verso il cellulare. La patina lucida della superficie piena di ditate si stava debolmente spegnendo, e la voce della dottoressa divenne nel frattempo nient'altro che un brusio di sottofondo.

Allungò il braccio con esitazione, neanche ponendosi la remora di star mettendo becco su una proprietà altrui.

«Lucio? Cosa fai?»

«Questi...» sussurrò biascicando.

Anna schizzò in avanti, e a lui inizialmente non importava se l'altra potesse temere chissà cosa, chissà chi, l'unica cosa che aveva importanza era il prurito che gli scavava nel cervello. Un istante dopo ebbe l'impressione che si fosse tranquillizzata accorgendosi del suo interesse e non di un potenziale furto. «Questa sono io» si indicò schiarendosi la voce, arrendevole. Gli tolse delicatamente dalle mani lo smartphone, poi riattivò e sbloccò lo schermo. «Questa è mia sorella, lui invece è... era, mio nipote, Simon» e la sua voce, tanto quanto il suo sguardo, si rabbuiò arrochendosi.

«Era...?» Sussurrò. «Posso?» Avvicinò al viso il telefono di lei neanche aspettando un consenso.

«È scomparso circa un anno e mezzo fa» biascicò esitante, come chi cercasse di mitigare il dolore trapelante dalla voce.

«Mi dispiace» mormorò Lucio, cercando di ricomporsi e di dissimulare quella stramba e inquietante sensazione di déjà-vu. «Io... ora è meglio che vada» si alzò senza premurarsi di chiedere il permesso.

«Lucio!» Anna era palesemente confusa, ma dovette lasciarsi scivolare lungo la dondolante poltrona ergonomica per poterlo inseguire verso la porta.

«Sto bene, davvero, è che mi sono appena ricordato di un impegno!»

Si scambiarono una lunga occhiata, e lui ebbe persino l'impressione che stessero giocando a chi avrebbe resistito di più. Vinse lui, perché lei annuì pregandolo di richiamarla per un altro appuntamento.

Un paio di attimi dopo Lucio oltrepassava il cancellino di ferro battuto. Mani in tasca e fiato corto. Si guardò alle spalle, poi a destra e a sinistra, ma a parte qualche passerotto cinguettante attraverso il frinire delle cicale, tutto ciò a cui riusciva a pensare era l'immagine del nipote di Anna.

S'infilò nell'abitacolo della macchina, dannandosi per cercare di capire quando e come l'avesse già visto. Forse sul notiziario? Sui giornali? Sui social? Infilò la chiave nel blocchetto di accensione e la ruotò fino a che le spie non iniziarono a lampeggiare. L'interno era rovente, ma mai quanto la sensazione di completo e annichilente shock non appena la radio si accese.

No, non era per il fatto che da quelle parti, in culo ai lupi, non prendesse nessuna stazione. Non era nemmeno per i suoi attacchi d'ansia e di panico, ma per qualcosa che gli folgorò la mente facendogli rivoltare le interiora: il rumore statico.

Il nipote di Anna era identico allo sconosciuto del suo incubo.

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