Capitolo 8.

"Le persone non vogliono ascoltare la verità
perché non vogliono vedere le proprie illusioni distrutte".

-Friedrich Nietzsche

Il sangue scorreva caldo nelle vene, il corpo di Diana era pieno di fremiti.

Il cuore le scoppiava nel petto, gli occhi spalancati si riempivano del candore invernale del volto di Elia. Alcune ciocche di capelli si erano sporte in avanti, coprendo i lineamenti affilati della mascella. Delle ombre inquietanti li opprimevano fin quasi a soffocarli, erano demoni pronti a divorarsi a vicenda.

Elia aveva uno strano sorriso impresso sulle labbra morbide. Gli piaceva giocare con le proprie prede come un gatto annoiato, imponeva la sua presenza senza pudore. Diana era sotto di lui, seduta su una poltrona sgualcita. Era ipnotizzata dal colore grigiastro delle iridi, dal loro continuo movimento fatto di scatti veloci, ticchettii incontrollati di isteria e livore.

«Cosa c'è? Non vorrai dirmi che ti vergogni» parlò con voce ironica, senza darle tempo di ragionare. Le labbra di Elia solleticarono le guance morbide di Diana, voleva saggiarla, sentire il suo sapore dolce e inebriarsi le narici dell'odore più eccitante mai provato prima.

Era ossessionato, quella bellezza travolgeva la mente dei colori della morte. Il rosso del sangue, il nero dell'oscurità e le sfumature della carne rosea lo mandavano in estasi. Dentro di lui si percepivano scariche elettriche così forti da fargli perdere il senno, vedeva quadri macabri, arti mozzati, urla strazianti, mani e volti rattrappiti dal dolore. Diana era la rappresentazione vivente della parte più terribile dell'esistenza. Le serviva per le sue creazioni, per le sue sculture da esporre davanti a tutti. Svegliare la folla, farle vedere quanto orrore si celasse dietro maschere fatte di illusioni e odio.

La voglia di sentire i muscoli tremanti, il sangue caldo dentro la bocca era forte, si tratteneva a stento. La gola richiedeva a sé quel liquido caldo, dissetarsi d'arte e d'orrore.

Diana era pietrificata dal tocco freddo di un sadico pittore, percepiva il corpo fremere, ma al tempo stesso si sentiva violata dall'interno. Si faceva spazio dentro gli organi, nell'anima stessa e si attorcigliava fin quasi a soffocarla.

Era lo sguardo del male.

Era il ghiaccio che intrappolava Lucifero all'inferno.

«Non mi spoglierò per un sadico come te» ringhiò con i muscoli del collo in tensione, come se la sola presenza di Elia le provocasse terrore e attrazione nello stesso momento.

Una risata gutturale vibrò in ogni angolo della stanza. «Sei un pettirosso impertinente. Sai, mi eccitano le ribelli come te». Prese un pennello da una scatolina di legno e si avvicinò di nuovo alla sua modella. «Pensavo ti piacesse rimanere nuda davanti agli sconosciuti» continuò, sussurrando ogni parola vicino al volto di Diana. Le teneva il mento con l'asticella di legno impregnata di vecchie tinture azzurrine e violacee. Sembrava avesse impresso sulla tela le sfumature del tramonto in mezzo a una soffocante solitudine.

Diana stava per sferrargli un pugno in pieno volto, ma venne fermata con una tale prontezza da farla sussultare. La rabbia le ribolliva nelle vene, si era spinto troppo oltre e nella mente della ragazza si formarono scenari in cui avrebbe voluto vederlo soffocare nel suo stesso sangue, osservare le sue vene esplodere come fuochi d'artificio. «Di' solo un'altra parola e io...»

«Tu, cosa? Vuoi uccidermi?» chiese ironico, fingendo di avere paura. «Non ne hai il coraggio, sono la tua unica possibilità di riavere una vita decente. Non saranno i tuoi schiaffi a fermarmi». L'afferrò per il collo, premendo le dita sulla giugulare. «Non sai di che cosa sono capace».

«Dimostralo» sibilò Diana per istigarlo. «Dammi una sola ragione per accettare questo delirio». In quel momento, l'ansia era sparita, anche se l'avesse uccisa si sarebbe solo sbarazzata di una vita disastrosa.

A un tratto, i lineamenti di Elia divennero più gentili. Le rughe sulla fronte si addolcirono, l'ira scomparse e il silenzio ritornò a regnare su di loro. Il suo sguardo era criptico, più freddo del ghiaccio e la mascella era contratta in fasci di muscoli, tesi come corde di violino.

Si allontanò da Diana, sedendosi su una sedia vicina alla tela bianca su cui avrebbe dovuto disegnare. Era impassibile, serio nei movimenti calibrati e decisi. Accavallò le lunghe gambe e rimase a fissarla per alcuni interminabili secondi, mentre la luce iniziava a svanire dietro le colline e a lasciare spazio alla gelida sera.

«Penso avrai sentito parlare del nudo artistico» si fermò per alcuni istanti, cercava un accenno di assenso, ma dalle labbra della ragazza non uscì risposta. Diana aveva sete di conoscenza, ma l'orgoglio era più forte.

«Si discosta del tutto dalla pornografia», continuò imperterrito. «Non ho bisogno di far eccitare la gente, ma di riempire di orgasmi la mente». Si alzò come se dentro il suo cervello fosse scattato qualcosa. Un'idea si era messa in mostra, voleva uscire a tutti i costi, diventare reale su fogli di carta.

«Gli esseri umani senza vestiti sono vulnerabili, le loro maschere si abbattono ed escono fuori ombre piene di paura, di angoscia più recondita». Camminava con passo lento per tutta la stanza, le postazioni fatte di cavalletti e tele lo nascondevano dal mondo. Facevano risuonare la voce negli angoli più remoti di quelle quattro mura. «Si notano cicatrici, la pelle invasa dal tempo e dai ricordi. Siamo nudi davanti alla realtà e nessuno è in grado di affrontarla. Non tutti hanno il coraggio di rendersi fragili davanti alla vita», si fermò davanti a un dipinto non ancora terminato di un paesaggio collinare. «La gente preferisce esistere in un mondo di menzogne, abbassarsi a certi livelli di superbia da far vomitare anche un maiale. Si sentono invincibili sui loro castelli di carta, ma non appena qualcuno ci soffia sopra, la magia sparisce e non resta altro che un ammasso di escrementi senza dignità». La voce si fece rude, a tratti violenta. Odiava l'essere umano con tutto se stesso, le sue parole traboccavano di disprezzo.

Si fermò a guardarla da lontano, i loro occhi si fusero assieme in un gioco perverso. Si sfidavano a vicenda, provocavano fino a perdere il senno.

«Perché hai scelto me?» domandò Diana, interrompendolo dal suo monologo.

«Prima di te ci sono state molte modelle, ma nessuna aveva quella sofferenza impressa nella carne. Ti porti dietro così tante ombre da mandarmi in estasi per quante opere potrei fare. Te le farò vedere, se me lo permetterai. Sarò un Munch nel pieno della sua epoca pessimistica e tragica. Sarai la mia bambina nel pieno della pubertà, le tue ombre ti divorano dall'interno e non vedo l'ora di farle uscire fuori». Tornò a passo regale verso di lei, senza quasi battere ciglio. Lo sguardo era fisso nell'anima. «Sei il passaggio che mi manca, dentro di te senti di essere destinata a un soffocante dolore e sono sicuro che non vedi l'ora di infliggere questo tormento ad altri. La solitudine la percepisci sulla tua pelle, senti l'alito della morte incombere su di te e sulle anime che non meritano di vivere», sorrise beffardo, vedendo il petto di Diana gonfiarsi di boria. Era arrivato dritto al punto, l'aveva in suo possesso e nessuno sarebbe stato in grado di farle cambiare idea. Sentirsi la verità in faccia era il miglior orgasmo che un essere umano potesse mai aspirare.

Le iridi verdi di Diana non smettevano di muoversi, teneva a freno le lacrime in procinto di uscire e inumidire le guance. Le sopracciglia si aggrottarono dalla rabbia e il cuore lo sentiva pompare fin quasi a esplodergli nella cassa toracica.

Senza dire altro iniziò a togliersi i vestiti. Elia fu sorpreso dalla violenza con cui si sfilò il maglione di dosso. Fece un passo indietro e aspettò di vedere la sua candida carne tingersi dell'oscurità del crepuscolo. La luce non era stata accesa e le ombre si allungavano sempre di più, come se volessero staccarsi: non volevano assistere al disastroso fato.

In mezzo alle sfumature del buio Elia sembrava meno minaccioso, i lineamenti si addolcivano e l'arroganza era nascosta da uno sguardo perso nel vuoto.

«Starò al tuo gioco», proferì Diana con aria di sfida. Era rimasta in intimo, le curvature del seno si intravedevano sul morbido pizzo nero. La pelle era una tempesta di brividi. «Mostrami quali sono i miei demoni. Voglio che li divori fino alle ossa. Se davvero i tuoi quadri possono uccidere, allora fammi diventare la tua arma».

Elia accese uno dei neon della stanza per avere minor luce diretta possibile e non far stancare gli occhi. Non smetteva di guardarla, avrebbe voluto assaggiare ogni curva morbida. L'odore era intenso, tenere a freno i propri istinti era quasi una tortura. Si posizionò davanti a Diana, le accarezzò con due dita le braccia, al solo tocco i brividi si diffusero fin dentro al cervello. «Sei già la mia furia omicida». Le sfiorò le labbra con i polpastrelli, alzandole il mento con leggera forza e obbligandola a intingere le sue iridi con il ghiaccio.

Diana era ipnotizzata come un serpente col suo incantatore, le parole di Elia erano musica dolce e avrebbe fatto di tutto per averlo ancora più vicino a sé. La mente era travolta da spasmi e immagini violente, l'odore del sangue riusciva a percepirlo nelle narici, come se ogni senso si fosse sviluppato nel momento in cui Elia aveva azzerato le distanze.

La pelle lattea delle mani si posarono sul nero intenso del reggiseno, fece scendere una spallina con dolcezza, scoprendo la morbidezza del seno di Diana. «Devi toglierti tutto» le sussurrò all'orecchio con voce gutturale, piena di livore.

Elia si scostò dalla sua modella per osservare da lontano la caduta di tutte le maschere, dei demoni pronti a uscire fuori e riempire la stanza della loro presenza. Diana provocava, si era alzata per togliersi il reggiseno e le mutande, il suo corpo sfiorava quello di Elia. In quel momento era nuda, le mura erano diventate breccia, si era mostrata per la prima volta per come era veramente. Si tolse anche le bende dai polsi e il sangue raggrumato aveva gonfiato le ferite. Erano state ricucite con maniacale cura, non voleva credere che fosse stato Elia. Si era convinta di essere stata aiutata da Zofie e nessuno le avrebbe fatto cambiare idea. Si era domandata se avesse letto il biglietto o se si stesse prendendo cura di Lestat. La stava mettendo in pericolo, la trascinava ogni minuto con sé verso la distruzione.
Si sentiva un mostro e doveva rimanere con i suoi simili. Il patto era sigillato, non poteva più tornare indietro.

Diana tornò alla sua postazione, accavallò le gambe e mostrò i seni morbidi, la carne sul suo ventre e i fianchi. Cercava di nascondersi con le spalle, timidezza causata dallo sguardo pieno di lussuria di Elia.

«Felice di fare la tua conoscenza, mio piccolo pettirosso» un sorriso riverente solcò i lati della bocca del giovane. Elia prese posto dietro la tela e iniziò a dipingere.

«Non ho molto tempo, devo tornare a casa» sussurrò Diana, prima che Elia riaprisse la scatolina di pennelli e matite.

«Farò solo una bozza col carboncino, i quadri non si creano in un giorno» rispose, mentre afferrava diverse forme e dimensioni di gessetti neri come il cielo notturno.

Diana lo percepì scarabocchiare, creare forme, curve, sfumare con le dita fino a sporcarsi i palmi di quella polvere scura simile alla cenere. Aveva la sensazione che la stesse toccando in ogni punto scoperto. Era concentrato, non parlava e ogni tanto osservava i punti luce e le ombre delle forme sinuose della sua modella.

Lo sentiva scorrere lungo le gambe, sul ventre, sui seni e sul viso, come un serpente pronto a inglobare la preda in una morsa mortale. Diana fremeva sotto gli sguardi di Elia, non si sentiva a suo agio. Era un puntino rosso in mezzo a un quadro anonimo, una macchia di un pittore distratto, ma Elia era attratto da quell'unico errore. In quel solo, unico istante di follia si nascondevano più di mille gesti, parole e sentimenti.

Qualsiasi movimento di Diana era pura ispirazione per Elia. Pendeva dalla sua macabra arte, ma ciò di cui era più attratto era il non visibile: le ombre dell'essere umano.

«C'è una cosa che non ti ho detto» proferì all'improvviso il pittore, accennando a un sorrisino complice. Sapeva benissimo cosa stesse facendo, tutto era calibrato al millimetro.

«Non mi concederò a te, se è questo che vuoi» rispose sulla difensiva Diana, coprendosi con le mani il pube e mettendo in risalto le curve dei seni. Lo sguardo affilato, dipinto di ombre scure intorno alle ciglia lo rendeva ancora più seducente e inquietante. Era un atto di sfida.

«Per chi mi hai preso?» sogghignò. «Il patto che abbiamo sigillato si basa sul dare e ricevere. Io ti ho donato una parte di me e adesso tocca a te. È una questione di rispetto reciproco». Non staccava gli occhi dal dipinto, ogni tanto scostava lo sguardo per guardare i muscoli in tensione di Diana e le pieghe della carne. Amava lo stile realistico dei corpi.

«Perché proprio il serpente?» domandò la giovane, cercando di metterlo in difficoltà.

«Gli animali sono collegati a noi esseri umani più di quanto immagini. Ogni caratteristica è unita alle nostre anime. Saranno coloro che ci seguiranno per tutta la vita, mentre continueremo imperterriti a ingozzarci dei nostri desideri, delle nostre perversioni. Sono ombre silenziose e aspettano il momento giusto per uscire».

Le parole criptiche di Elia fecero tremare il cuore di Diana, comprendeva cosa stesse dicendo. Aveva ragione, ma non poteva credere di essere di fronte a qualcuno con lo stesso carattere di un serpente. Elia seduceva, incuteva terrore più di mille diavoli. La voce era la melodia più dolce mai ascoltata prima, ma le sue parole erano veleno per il cervello.

«Quindi, se ho capito bene, la tua anima somiglia a quella di un serpente?» chiese Diana.

«Qualcosa di simile» rispose vago, con un pizzico di ironia.

«Io ti vedo più come una rondine, sì, una rondine solitaria» sussurrò.

Elia smise di colpo di disegnare, le iridi erano rimaste a guardare e a muoversi isteriche sulla tela impiastricciata di carboncino. Il viso si era d'un tratto irrigidito, come se cercasse di trattenere la rabbia. Chiuse le palpebre per tenere a bada i suoi istinti, un cane rabbioso in procinto di strappare la corda con cui era stato legato. Era a un punto di non ritorno.

«Illuminami allora» cercò di dire Elia, alzandosi dalla postazione. Si avvicinò minaccioso verso la modella con passo felpato.

«Sei raro, unico. Le rondini sono schive, si basano solo su se stesse e sulla loro sopravvivenza». Diana si portò le ginocchia al petto, aveva paura di cosa potesse fare un'anima imprevedibile. «Non cacciano per piacere, ma per sostentamento, come tutti gli altri animali dopotutto, ma il punto è che in ogni tua azione, sento tanta solitudine».

«Interessante, la solitudine ci accomuna molto, ma non sai quanto orrore potrei tirare fuori da ogni essere umano. La rondine solitaria è solo un pezzo di infanzia, un passato che non voglio affrontare» appoggiò le mani sui braccioli della poltrona, imprimendo i polpastrelli nella pelle fin quasi a strapparla in modo da quietare le urla dentro la sua testa.

«Dipingi col mio sangue, allora» disse all'improvviso Diana perdendosi nello sguardo fatto di neve e ghiaccio. «Che aspetti? Tagliami».

Elia rimase sorpreso da quella risposta, si tirò su come se fosse scottato dalle sue parole. Non se lo sarebbe mai aspettato. Prese dalla tasca laterale del borsone una vecchia lametta da barba e gliela porse.

Diana la osservò per alcuni secondi, rigirandosela tra le mani, e senza pensarci troppo premette sul palmo finché non uscirono lacrime scarlatte. La ferita pizzicava, bruciava, pulsava fin dentro le tempie, ma non aveva intenzione di smettere. Il sangue le imbrattò le ginocchia e le cosce, era un'estasi visiva.

Elia toccò con delicatezza quel liquido caldo, lo stese sui polpastrelli come uno dei suoi colori a olio. Diana aveva donato il suo sangue, uno degli atti di fiducia più puri mai esistiti sulla terra.

«Non potrai più tornare indietro, sei legata a me, adesso». Elia prese una piccola boccetta di vetro macchiata di tempera per riempirla di sangue e non far sprecare neanche una goccia.

«Non ti renderò la vita semplice, sappilo» rispose Diana provocatoria.

«So come distruggerti, mio piccolo pettirosso» sghignazzò, estasiato dalla visione di cruore vermiglio.

«Come?» chiese Diana senza pensarci.

Elia non proferì parola, si limitò a guardarla finché la bottiglietta non si riempì a metà. Si sporse su di lei, i loro nasi si solleticarono a vicenda. Se avessero avvicinato ancora di più i loro corpi si sarebbero fusi insieme nelle sfumature del tramonto.

Il maglione scuro di Elia solleticava la pelle nuda di Diana, in un gioco quasi perverso.

In quel momento, Diana si impressionò dei suoi pensieri, voleva sentire ogni centimetro di quell'epidermide lattea su di sé. Aveva bisogno di essere toccata da mani pregne di sangue. Andava contro ogni paura e incertezza, combatteva contro se stessa per non concedersi a diventare di nuovo cibo facile per diavoli affamati.

Elia si allontanò da lei, porgendole il reggiseno rimasto vicino alla poltrona per tutto il tempo. «Rivestiti, abbiamo finito per oggi».

Si stava prendendo gioco di lei con una facilità disarmante, l'aveva fatta rimanere senza fiato fino all'ultimo istante. Come una magia tutto ritornò a far rumore, i passi degli studenti dietro la porta si sentivano ovattati, le voci erano più insistenti. Il tempo era tornato a scorrere.

Diana si rimise di fretta i vestiti e ricompose i pezzi della sua anima. Elia rimase seduto sullo sgabello a contemplare il suo operato. Non aveva terminato del tutto lo schizzo, ma il corpo di Diana era più vivido che mai, mentre un'enorme ombra fatta di volti urlanti, di mani rattrappite e di mille occhi la soffocavano fin quasi a renderla insignificante. Rappresentavano sentimenti di solitudine, morte, gelosia e violenza. Gli occhi spalancati e fissi erano la rappresentazione della paranoia, dell'ansia che divorava le menti. I capelli le coprivano i seni e le spalle, dei piccoli pettirossi erano posati sul suo ventre con le ali spalancate, gli occhi vitrei. Il sangue le impregnava l'epidermide, ma per prendere vita aveva bisogno dei colori della perversione. Avrebbe fatto scorrere sangue sui cadaveri delle ombre: vittime innocenti di dolori atroci.

Diana alla vista del quadro rimase senza parole, aveva un'abilità fuori dal comune. Sentiva mancare le forze, come se l'avesse prosciugata. La ferita alla mano ancora le pulsava, ma il sangue stava piano piano coagulandosi, grazie a un pezzo di stoffa strappato da un vecchio strofinaccio per asciugare i pennelli.

«Siamo solo all'inizio, Diana, l'arte creata da anime come noi possono valicare confini che nemmeno immagini» disse, senza vederla allontanarsi dietro le sue spalle e sbloccare la porta con una chiave arrugginita.

«Spero di non dovermi pentire» proferì Diana, lasciando socchiusa la porta.

«Ricorda solo una cosa», le rivolse la parola per l'ultima volta girando il volto verso di lei. «Il sangue dona vita e il ghiaccio coagula».

Diana corse via dalla tana del suo carnefice.

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