Capitolo 17.

"Non cercare più il mio cuore:
le belve lo hanno divorato"

- Charles Baudelaire, Conversazione

Tra le ombre allungate dalla fioca luce di una piccola abat-jour, le curve della spina dorsale e delle costole di Diana si intravedevano formando dune fatte di pelle.

Piangeva, nascondeva il volto tra le lenzuola del letto e le ciocche sanguigne dei capelli. Si annullava al dolore, alla sofferenza e al suo orribile destino.

Era sola nella stanza e i suoi lamenti riempivano le mura. I volti dei quadri appesi alle pareti avevano espressioni di compassione, come se percepissero gli strappi del suo cuore. Le lacrime di Diana bagnavano il materasso, le guance e distruggevano l'anima.

Era tornata a casa dall'università, dopo essersi trovata tra le grinfie di Elia. Le sue parole le martellavano nella testa e non la smettevano di urlare. Non era nemmeno riuscita a seguire le lezioni. Fissava il vuoto e le spiegazioni dei professori erano rumori di sottofondo, ovattati dal trambusto della mente.

Aveva l'impressione di essere in un limbo, in uno stallo tra la vita e la morte. Il corpo cercava di riportarla alla realtà, ma sprofondava sempre di più nell'illusione.

Non riusciva a capire se stesse sognando o fosse un effetto prolungato di tutte le droghe che assumeva per non ascoltare le voci nella testa.

Tornata nel suo appartamento, non aveva toccato cibo, non aveva neanche chiamato Zofie per chiederle un po' di compagnia, di affondare la sofferenza tra baci e carezze.

Invece, aveva fumato una sigaretta dietro l'altra. Le gambe le tremavano, non riusciva a tenersi in piedi. Pur di trovare un minuto di pace, aveva finito anche l'erba tenuta nascosta in una scatola di latta sul mobile della cucina.

Era sprofondata in un sonno senza sogni né incubi, aveva aspettato che la notte l'avvolgesse tra le sue braccia fredde e oscure.

Non era servito a niente. Una volta sveglia, sentiva ancora l'odore di Elia impresso sulla carne, come se fosse stato lì a vegliarla tutto il tempo.

Le lacrime le sgocciolavano dalle labbra, cercò di graffiarsi le cosce, il petto, il viso, pur di non avere quel profumo nauseante di tempere e lillà sotto il naso. Premeva le unghie nella carne, fin quasi a percepire il calore del sangue sotto le dita.

Le braccia le dolevano ancora a causa degli squarci, inflitti quel maledetto giorno. Le ricordavano di continuo quanto fosse stata vicina alla morte, forse era rimasta ancora lì con lei ad aspettare il momento giusto per rivelarle il suo triste destino.

Si odiava per non essere forte abbastanza, per gli errori commessi nella vita, le scelte sbagliate e la solitudine che aveva dovuto soffocare per anni interi. Pur avendo sempre attorno uomini e donne con cui divertirsi la notte, si ritrovava a combattere col silenzio assordante e le urla dei suoi pensieri ossessivi. Cercava di riempire quei vuoti stando tra le braccia di esseri inutili, ma dopo aver conosciuto Elia sembrava che l'universo intero fosse solo una tavolozza di sfumature grigie e nere. I suoi quadri avevano assorbito tutti i colori della terra e voleva imprimere la sua anima dentro tele più candide della neve.

Diana aveva paura, si era chiusa in se stessa e cercava di combattere i suoi demoni da sola. Aveva il terrore potessero far del male a Zofie, ma al tempo stesso non poteva rivelarle cosa stesse succedendo nella sua vita.

Sua madre aveva sempre cercato di renderla inespressiva, indolore a tutte le sofferenze umane perché solo così sarebbe riuscita a sopravvivere. Non aveva mai compreso, però, che le emozioni della figlia erano troppo forti da reprimere. Spesso, anche lei ne era terrorizzata, la sua rabbia sarebbe esplosa da un momento all'altro e non sarebbe più riuscita a contenerla.

Digrignò i denti, portò le mani tra i capelli per cercare di strapparseli. Odiava quel colore così intenso, gli ricordava il dolore di non aver mai conosciuto suo padre, la paura degli schiaffi, della sottomissione e delle violenze subite.

Era stanca della vita.

«Perché devo subire tutto questo» sussurrò Diana tra sé con un filo di voce.

Niente nella sua vita aveva avuto uno scopo, era andata avanti sperando in un futuro migliore, ma non era mai arrivato. Tutto era sempre andato storto e doveva uscire da sola dallo schifo in cui si era impantanata con le sue stesse mani. Si odiava, non sapeva prendere decisioni e si faceva trasportare dalla corrente con il desiderio di trovare una terra ferma su cui riposare. Lei era ancora in mezzo alla tempesta, alle voci urlanti dentro la testa, al caos che distruggeva con sadica lentezza la sua vita.

Spesso pensava al dolore come un'espiazione verso qualcosa di migliore, in una via d'uscita, ma al tempo stesso si domandava perché dovesse sopportarlo.

L'essere umano era stato creato per soffrire in eterno?

«Non ho combinato un bel niente, non sono capace neanche di portare avanti l'università» sussurrò Diana alla sua anima. «Come pretendo di andare avanti in questo modo? Perché sono ancora qui». Le lacrime erano tornate a rigarle le guance, mentre il sangue le ribolliva nelle vene.

Si alzò di scatto dal letto, andò in cucina senza accendere la luce, aiutata dalla flebile illuminazione dei lampioni fuori la finestra. Voleva restare nel buio più assoluto, reprimere l'ira, ma i tremori alle mani cominciavano a essere più insistenti. L'oscurità la teneva intrappolata in quella scatola fatta di mattoni e cartongesso. Il respiro divenne più affannato e l'avere ancora in corpo gli effetti collaterali dell'erba non la rendevano del tutto lucida.

Le voci erano aumentate, le gridavano quanto sia stata ingenua, stupida e senza un briciolo di coraggio. Non era stata capace nemmeno di togliersi di mezzo una volta per tutte, ma forse era stato Elia a giocare con la sua vita. Avrebbe potuto rifiutare, le aveva dato una scelta: morire o diventare la sua musa. Aveva accettato come una codarda, un cane con la coda tra le gambe.

«Fanculo!» gridò con tutta la voce in corpo. Prese una sedia e la scaraventò a terra, strappò vestiti, buttò a terra bicchieri e piatti. Rivolse al suolo ogni oggetto della scrivania. Urlò come una pazza, era un dolore proveniente dall'anima. Quando iniziava a spezzarsi aveva lo stesso effetto delle ossa schiacciate da una pressa. Diana si sentiva soffocare, respirava a fatica, ma continuava a riversare la sua rabbia contro gli oggetti all'interno dell'appartamento. Il viso e le labbra erano contratti in smorfie di dolore, mentre gemiti soffocati riempivano il silenzio.

All'improvviso, una mano l'afferrò nel buio. Era calda, piccola, ma al tempo stesso molto familiare. La prese alla sprovvista, stava per lasciarle un pugno in pieno viso, ma sentì altre dita prenderla sui fianchi e trascinarla via da tanta follia.

«Didi, per favore, fermati!» disse ad alta voce Zofie. Era entrata con le chiavi di riserva, dal suo appartamento aveva sentito Diana urlare e si era precipitata ad aiutarla.

Diana era così persa nei suoi deliri da non averla sentita entrare. Le dita serrate si fermarono a mezz'aria, il caos cessò e il silenzio tornò a riempire la stanza dei loro respiri affannati. Gli occhi erano spalancati, le sclere arrossate sembravano uscirle fuori dalle orbite.

«Zofie», sussurrò Diana sorpresa di trovarla tra le sue braccia. I nervi si distesero e lasciò andare le mani attorno all'esile corpo dell'amica.

Si strinsero così forte da non riuscire a respirare, Zofie non aveva esitato neanche un momento a tenerla ancora una volta aggrappata alla realtà. La strappava via dalle unghie affilate degli incubi, dalle parole velenose che le affollavano la mente e la teneva stretta per la paura di vederla sparire.

«Resta con me, ti prego» sussurrò Zofie vicino al suo orecchio. Le aveva stretto il volto vicino alla spalla, sentiva i singhiozzi di Diana, i tremori del suo corpo. Aveva la sensazione di avere tra le mani un cucciolo di gatto infreddolito, solo, abbandonato.

«Mi dispiace, Zof» disse con voce rotta dal pianto. «Mi dispiace così tanto» ripeté.

Zofie la cullò tra le sue braccia, pianse con lei. Percepiva la sua disperazione e si sentiva impotente nel non riuscire ad aiutarla. Gliela stavano portando via da sotto il naso, non sapeva con precisione chi: forse Elia, la morte o la depressione, non lo avrebbe mai capito. Però, assisteva ogni giorno al dolore della sua anima. La vedeva spezzarsi sempre di più, finché tra le mani avrebbe avuto solo un mucchio di cenere.

«Non devi scusarti di niente. Sei con me, adesso» cercò di rassicurarla.

Diana alzò il volto per guardarla dritta negli occhi, l'oscurità all'interno della stanza le nascondeva le lacrime, ma la luce dei lampioni che entrava dalla finestra aperta, illuminava il viso candido di Zofie. Erano luce e ombra, pace e caos.

«Non potrai mai vivere una vita tranquilla, se hai un mostro come me accanto» sentenziò Diana, senza un minimo di emozione nella voce. Il suo corpo era oscurato da lunghe ombre, mentre i capelli sanguigni erano illuminati da una tenue luce artificiale. Aveva l'aspetto della lussuria, della morte che istigava le anime ad andare via con lei.

«C-che stai dicendo?» balbettò Zofie, spaventata da quella domanda. «Tu non sei un mostro, Didì. Non lo sarai mai, per me».

Diana scosse il capo a destra e a sinistra, cercava di negare con tutta se stessa di non essere una brava persona. «No, non sono un animale da salvare» alzò il tono della voce. Si allontanò da Zofie e nel buio camminò verso la finestra. «Cerchi sempre di curarmi, di farmi capire che un giorno saremo felici insieme. Invece, guardaci» si girò verso di lei, sollevando le braccia come a farle notare l'orrore attorno ai loro corpi.

«Non siamo niente, Zof», continuò Diana, «non posso invitarti nemmeno a cena fuori per paura di non riuscire a pagare l'università. Vado a letto con centinaia di persone ogni settimana solo per avere qualche lira in più in tasca. Non m'importa nemmeno di conoscere i loro nomi, perché in realtà non voglio entrare nella vita di nessuno. Vuoi davvero tutto questo?» gridò l'ultima frase, con la voce addolorata da un pianto imminente.

Zofie non riuscì a replicare, rimase pietrificata dalle parole taglienti. I brividi le percorsero tutta la spina dorsale, voleva dire qualcosa, ma dalla gola uscì solo un sospiro di sconforto.

«Non venirmi a dire la solita scusa del non dover decidere della tua vita» continuò Diana, imperterrita. «Ho scelto io di essere così, perché sono stata costretta. Mi sono fidata di persone senza un briciolo di cuore e mi hanno spaccato in milioni di pezzi e nessuno si è mai degnato di scusarsi» piagnucolò, accasciandosi sulla sedia vicina alla finestra. «Ho capito che distruggo le persone, le rendo la parte peggiore di loro stesse e non voglio farlo con te. Non stavolta».

Diana pianse disperata, sentiva ancora la voce di Elia dentro la testa. Non riusciva a dimenticarsi dell'orribile verità pronunciata dalle sue labbra. Pur di non ferire Zofie, avrebbe sacrificato la propria vita anche a costo di farsi odiare.

Zofie si inginocchiò senza far rumore vicino a Diana, le lacrime le uscirono prepotenti lungo le guance. Si persero nel silenzio fatto di gemiti di dolore e muscoli in tensione per la troppa rabbia soffocata dal pianto.

«Se non volevi entrare nella vita delle persone, allora perché mi hai aiutata il giorno in cui ho messo piede per la prima volta in questo edificio?» domandò Zofie, appoggiando la testa sulla coscia di Diana. «Perché mi hai dato una mano a trovare un lavoro stabile?» chiese ancora, ma quell'esile figura rimasta in penombra non proferì parola. I suoi capelli, sotto la luce dei lampioni, sembravano scie di sangue lungo le braccia e il petto. Aveva l'aspetto di un essere umano morto suicida, accasciato sulla vasca con le vene tagliate ed esposte come un macabro trofeo.

«Mi hai insegnato a cavarmela da sola», proseguì Zofie, «ad avere coraggio di essere me stessa senza dovermi più nascondere. Mi hai tenuto in vita, Didì, lascia che lo faccia anch'io per te». Un piccolo sorriso si disegnò sul suo volto gentile e senza rancore. Pur avendo ascoltato le parole taglienti di Diana, non l'avrebbe mai lasciata in balia della sua solitudine.

«Una parte di me spera sempre che l'essere umano non sia così crudele. In te, non ho mai visto un briciolo di rabbia. Hai fatto scattare quella scintilla di fiducia che nessuno è mai riuscito a darmi. Conoscerti, è stata la decisione migliore mai fatta in tutta la mia orribile vita» rispose Diana, con la voce rotta dal pianto. «Ho capito, però, che non merito di essere felice». Diana prese tra le mani il volto stanco di Zofie. «Non sono all'altezza di averti al mio fianco, perché ti spegnerei lentamente e non posso vederti morire ogni giorno. Non me lo perdonerei mai»

«Didì, chi sta morendo sei solo tu» proferì Zofie disperata, mentre si aggrappava al calore delle mani di Diana.

«È per questo che ho bisogno di allontanarmi per un po'. Tornerò a casa di mia madre» sussurrò Diana affranta. Le aveva mentito per l'ennesima volta, solo per il suo bene. Non voleva renderla partecipe della follia di Elia.

Zofie rimase in silenzio per interminabili secondi, non riusciva a credere di aver sentito quell'orribile frase. Si alzò in piedi di scatto e indietreggiò di qualche passo, scottata nell'anima da una decisione troppo drastica.

«No, non puoi. Non puoi lasciarmi qui da sola!» gridò, scagliandosi contro Diana.

Entrambe si ritrovarono a lottare, a graffiarsi a causa delle loro sofferenze, a piangere per il dolore al petto che non passava mai.

«Zof, smettila, così farai solo peggio». Diana provò a fermare i colpi di Zofie, non sentiva alcun dolore. Si lasciava picchiare perché sapeva di meritarselo. Era solo una persona inutile.

«Sei solo un'egoista, blyad'!» imprecò Zofie. «Ti fai trasportare dalle parole crudeli delle persone, dallo schifo che ti inietti quasi tutti i giorni. Secondo te, non lo so che ti fai di eroina e chissà quale altra merda? Non ti rendi nemmeno conto che stai morendo con le tue stesse mani» le urlò addosso tutta la sua frustrazione.

Diana la spinse via, facendola cadere a terra. Rimase in piedi con il volto nascosto dalla sua ombra, mentre la luce dietro di lei rendeva la sua figura tetra e imponente.

«Secondo te, ho scelto io di vivere?» gridò fino a graffiarsi le corde vocali. «Sono nata per sbaglio e devo tenermi questa condanna fino alla fine dei miei giorni. Non sono come tutti gli altri, odio ciò che sono e non posso vedere ancora gente spegnersi davanti ai miei occhi. Hai ragione, chi deve morire sono solo io». L'ultima frase risuonò come un'eco, il mondo si quietò e il silenzio regnò sovrano tra quattro sudice mura.

Non si erano accorte che il sole dietro di loro aveva iniziato a schiarire il cielo. L'oscurità stava ritirando il suo nero manto, per far risvegliare la gente dal loro profondo sonno.

Era l'alba di un doloroso giorno, Diana sapeva che il tempo a sua disposizione era troppo poco.

Zofie si tirò su dolorante, il volto rigato di lacrime e contratto dalla disperazione. La guardò per alcuni lunghi istanti, come se volesse ricordarsi ogni millimetro di pelle di Diana.

«Se te ne andrai, io morirò con te» sussurrò, con la voce rotta dal pianto.

«Smettila, Zofie!» alzò il tono della voce. Diana rimase pietrificata, non si aspettava una tale risposta. La rabbia iniziò a salirgli in corpo, non poteva minacciarla per una sua decisione. «Stavo per lasciarti da sola la sera in cui mi hai trovata a terra in quel sudicio bagno del pub». Diana le fece notare le profonde cicatrici ai polsi. «Se Elia non fosse arrivato in tempo, avresti visto solo un mare di sangue».

«Elia era lì?» domandò Zofie con leggero tremore.

Diana percepiva la paura e la delusione nei suoi occhi. Non rispose, si limitò ad abbassare il capo verso il basso. Provava una tale vergogna da non avere il coraggio di guardarla in faccia.

«Devo allontanarmi da tutto» rispose con un briciolo di coraggio rimasto, cercando di deviare il discorso. Si sentiva a pezzi. «Ti prometto, però, che tornerò. Sarà solo questione di giorni, non me ne vado per sempre»

Zofie scoppiò in un pianto disperato, si mise le mani sul viso per nascondere le lacrime. Il dolore all'anima era insopportabile, non riusciva ad accettare una decisione simile. Le unghie strappavano pelle e tiravano fili dorati di morbidi capelli.

«Non tornerai, invece. Lo sento» urlò, trovando la forza di guardarla dritta negli occhi. Cercò di avvicinarsi a Diana, ma le sue gambe cedettero di nuovo. Aveva l'impressione di essere pesante, la gravità la stava trascinando verso un baratro vuoto e il suo corpo non aveva più le forze di resistere. Cadde a terra in ginocchio, ciocche di capelli biondi nascosero l'immagine della disperazione impressa sul volto. Provava a respirare, ma l'aria era come rarefatta. I polmoni erano diventati rigidi e il respiro era un rantolo di sofferenza.

Diana si accasciò e la trattenne tra le sue braccia. La strinse a sé non curandosi di quanto dolore le stesse causando. Erano frammenti di vetro rimasti all'interno di una scatola vuota. Erano sole, in balia di una tempesta. La loro casa era il caos e non avrebbero mai avuto le forze di farlo smettere. Si sarebbe portato via ogni istante di vita. Le rendeva fragili, spezzate, mentre il mondo continuava a scorrere dimenticandosi delle loro esistenze.

Il sole creò giochi di luce all'interno della stanza, l'alba era uno dei momenti preferiti di Zofie. Diana cercò di farla sedere sulla sedia accanto alla finestra. Le avrebbe dato un ultimo momento felice insieme.

«Guarda, Zof, è l'alba. Vieni a vederla insieme a me» la incitò Diana, tenendola stretta a sé. «Ricordi nei giorni estivi quando aspettavamo l'alba in spiaggia? Eravamo così strafatte», sorrise appena. «Cantavamo a squarciagola fino a farci odiare dalla gente». Diana smise di parlare per qualche secondo e guardò gli occhi persi nel vuoto di Zofie. Osservava il sole sorgere, il calore dei raggi le imporporava le guance, ma il viso era senza espressione.

«Mi hai regalato i momenti felici migliori di tutta la mia vita» continuò Diana, sussurrandole nell'orecchio. Solleticò le guance sulle sue e premette le labbra sulla tempia.

Zofie a quel contatto si voltò e senza pensarci due volte fece combaciare la sua bocca con quella di Diana, era un bacio colmo di disperazione. Era umido di pianto, di un addio non detto. Lasciarla andare significava per Zofie vivere con metà del cuore, non sarebbe andata avanti a lungo.

«Avrei voluto essere capace di tenerti in vita ancora per un po', ma ho fallito» sibilò, sfiorando le labbra di Diana.

«Invece, sei il mio unico motivo che mi tiene ancorata qui, Zof». Diana le accarezzò una guancia, intrecciando le dita tra i suoi capelli dorati. «Tornerò, non preoccuparti»

«Allora, ti aspetterò fino al tramonto tutti i giorni» promise Zofie, guardandola dritta negli occhi, sprofondando in quel magnifico prato verde delle sue iridi.

Diana non rispose, le fece un timido sorriso e le si accoccolò accanto. Strinse forte la mano di Zofie e rimasero in quella posizione per ore intere, mentre i loro sguardi si persero per l'ultima volta nel fuoco splendente di una malinconica alba.

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