Capitolo 12.

"Nessuno è separato da nessuno. Nessuno lotta per se stesso. Tutto è uno. L'angoscia e il dolore, il piacere e la morte non sono nient'altro che un processo per esistere. La lotta rivoluzionaria in questo processo è una porta aperta all'intelligenza".

- Frida Kahlo.

Diana era assorta nei suoi pensieri, si lasciava cullare dal movimento oscillante dell'autobus. Le dita non smettevano di tremare, trovava un modo per non sentire l'ansia scorrerle nelle vene. Teneva lo sguardo fisso nel vuoto. Le passavano davanti uomini, donne solitarie passeggiare sul bagnasciuga. Il mare era agitato e la sua forza incontrollata aveva fatto riaffiorare pezzi di legno marcio sulla battigia.

La linea dell'orizzonte era impossibile da intravedere, la nebbia e le nuvole avevano amalgamato il mare con il cielo. Gli scogli venivano sommersi da alte onde. Esse inglobavano, affogavano inesorabili ogni forma di vita.

Diana si perdeva nell'osservare quella massa d'acqua in cui sarebbe voluta annegare. Voleva scendere dal mezzo, togliersi le scarpe e sentire la sabbia fredda sotto i piedi. Raggiungere la riva era la sua meta, voleva immergersi dentro e sparire per sempre. Voleva sentire il sapore del sale sulle labbra, percepire la pelle raggrinzire fino a lasciare solchi profondi sui polpastrelli.

L'ossessione di dover raggiungere Elia era più forte del desiderio di marcire nell'acqua fino a sparire. Aveva bisogno di sapere la verità. Odiava essere lasciata a metà, le sue parole criptiche la mandavano fuori di testa.

A un tratto, la frase scritta sul foglietto iniziò a martellarle la testa.

Portati dietro i tuoi pezzi d'anima, io so come ricomporli. In quel momento, Elia divenne la sua unica àncora di salvezza. Con lui vicino forse non avrebbe più fatto del male a Zofie, l'avrebbe lasciata vivere con serenità. A volte, bisognava lasciar andare, far perdere le proprie tracce per non dover più distruggere. Diana non voleva essere un peso per lei in futuro, non le avrebbe mai donato la serenità. Aveva ancora nel cervello l'immagine dei sacchetti della spesa lasciati davanti al suo appartamento.

Era un timido gesto per avere la possibilità di scusarsi, di dimenticare l'accaduto, ma Diana sapeva che se avesse bussato alla sua porta e l'avesse vista, sarebbe ceduta tra le sue braccia di nuovo. Non sopportava litigare, soprattutto con Zofie. Era l'unica ragione valida di poter assaporare una tranquillità tanto bramata. Dopo la mostra, però, qualcosa si era spezzato. Il dolore di averla delusa era forte, ancora aveva impresse le sue urla nelle orecchie e i suoi pianti di frustrazione. Le aveva reso la vita un inferno.

Zofie era scappata dalla sua famiglia per trovare un posto dove sentirsi accettata, avere qualcuno al suo fianco. Diana l'aveva accudita sotto le sue ali, i primi anni in cui era venuta ad abitare nell'appartamento di fronte, faceva molta fatica a conversare. Conosceva solo qualche frase grazie a suo nonno di origini italiane. Diana le aveva dato la possibilità di esprimersi, di liberare ogni suo demone e dimenticare i suoi genitori.

«Studio russo all'università, posso darti una mano se non conosci qualche parola in italiano o tradurti gli appunti se ne hai bisogno» le aveva proposto l'amica, senza avere niente in cambio tranne per la sua fiducia. Zofie aveva accettato senza nemmeno pensarci troppo, era la sua unica possibilità di sopravvivere. Aveva iniziato le sue prime lezioni in accademia di belle arti, pagata in segreto dal fratello. Non capiva dove si procurasse i soldi e non voleva saperlo, ma non appena era riuscita a trovare un lavoro stabile, aveva iniziato a essere più indipendente. Aveva imparato a cavarsela da sola fin dal primo momento in cui aveva varcato la soglia di casa per andarsene per sempre. Nessuno l'aveva cercata e allo stesso modo, Zofie non voleva sapere nulla del suo passato.

Diana avrebbe tanto voluto il suo stesso coraggio, di andare sempre avanti e pensare a un futuro migliore. Invece, era intrappolata in un labirinto di diavoli dove tutti si divertivano a crearle insenature sempre più complicate fino a perdersi in un groviglio di nodi troppo intrecciati. Aveva la sensazione di sprofondare, di riempirsi i polmoni di terra fino a soffocare. Stava morendo da sola e nessuno se ne era ancora accorto.

Il marcio che le divorava gli organi riusciva anche a cibarsi delle anime altrui e doveva placare questa sadica fame. L'unico modo era allontanarsi da Zofie, ma il cuore lo sentiva già spezzarsi in milioni di frammenti di vetro, così appuntiti da riempirsi di sangue la trachea.

Aveva l'impressione di dover vomitare quel liquido vermiglio, lo sentiva sulla lingua e tra i denti, ma non poteva fiatare o urlare di dolore perché dentro a quell'autobus nessuno sapeva quanta sofferenza ci fosse dentro a un corpo così esile.

L'abbaiare di un cane la fece ridestare dai suoi incubi a occhi aperti e si guardò intorno per capire se fosse arrivata a destinazione. Si alzò dalla sua postazione e si aggrappò alle maniglie per non perdere l'equilibrio. Il bus si fermò e aprì le porte automatiche con uno sbuffo meccanico. Diana scese di corsa per non destare sospetti. Si strinse nel giaccone color verde militare e si diresse verso il luogo indicato da Elia.

Davanti a lei si stagliava un'immensa spiaggia con qualche chiosco chiuso a causa della fine della stagione estiva. Il mare gonfio si infrangeva senza sosta sulla spiaggia e sugli scogli, mentre il cielo si imbrattava delle stesse sfumature di quella massa d'acqua salata. La città si allontanava sempre di più dietro le sue spalle e il marciapiede cominciava a essere meno trafficato di gente.

Decise di deviare per la spiaggia, la morbidezza del terreno sotto le suole delle scarpe le faceva ricordare momenti spensierati nelle calde sere d'estate passate con Zofie. Avrebbe dato l'anima al diavolo per riavere indietro quegli istanti di pura felicità.

L'odore di iodio si fece sempre più intenso e una sottile nebbia si divertiva a rinchiudere Diana in una bolla di fumo e pioggerella finissima. Camminò per un po', cercando Elia con ossessione, ma qualcosa in lontananza ottenne la sua attenzione. Una figura nera era immobile davanti alla furia del mare. Sapeva nel profondo che quella macchia d'inchiostro era Elia, perché ogni passo la rendeva sempre più vicina alla sua condanna a morte. Quella strana visione si fece più nitida, i capelli di un bianco candido uscivano ribelli dal cappuccio e si animavano con il vento freddo di ottobre. Le mani abbandonate sui fianchi risaltavano come dita scolpite nel marmo. Diana aveva l'impressione di essere davanti a una statua, prendeva vita nel momento in cui i loro sguardi si univano in una macabra danza di ticchettii isterici.

Non appena lo raggiunse, la ragazza non fiatò, rimase a guardarlo con impotenza. La visione di Elia in mezzo a quella schiuma salata dava l'impressione di essere davanti al quadro della "Nascita di Venere". Era surreale, malinconico, come se l'inferno avesse liberato un'anima senza peccato. Era rimasto a vagare per troppo tempo in un posto fatto di fiamme e ghiaccio. Si era impregnato della sofferenza, del dolore dei corpi sotto strati d'acqua impossibile da scalfire, aveva impresso nelle pupille il volto di Lucifero, incastrato in quella buca oscura e le ali a rendere l'aria più gelida della morte.

Era frutto del dolore umano.

Intorno a loro c'erano solo il mare, la nebbia e una linea di scogli che li accompagnava in mezzo alle onde feroci. Il rumore della burrasca riempiva le orecchie di dolci canti, come se le sirene avessero atteso quel momento e stessero cantando gesta di anime affini, simili.

«Il mare è il riflesso delle nostre emozioni» proferì all'improvviso Elia, smorzando il silenzio creatosi tra di loro. «La sua furia è la nostra rabbia e la sua calma è la nostra tranquillità. Siamo collegati a lui più di quanto immagini».

Si girò verso Diana, i suoi movimenti erano lenti, gentili. Si tolse il cappuccio e il candore della pelle divenne ancora più evidente.

«Perché hai voluto portarmi qui?» chiese sbrigativa Diana, senza cercare di comprendere le sue parole.

«Avevo bisogno di vederti» sussurrò, abbassando il capo verso la sabbia umida sotto di loro.

«Non ti è bastato rovinarmi la vita? Cos'era quella statua? Cosa volevi mostrare al mondo?» chiese irritata Diana, mettendosi le braccia incrociate sotto al seno.

Elia l'aveva allontanata da Zofie, aveva distrutto un legame che andava oltre a una semplice amicizia.

«Rovinarti la vita? Io ti ho mostrato il tuo passato, ho ucciso il tuo dolore» rispose, alzando la voce. Si avvicinò minaccioso verso Diana, i loro visi erano a pochi centimetri di distanza. Le ciglia bianche delineavano il confine tra il pallore della pelle e le sclere piene di vene incandescenti, mentre il continuo movimento irrefrenabile delle iridi grigie la scrutavano nell'anima. Si sentiva quasi toccare da quello sguardo, le graffiava la carne, l'attorcigliava come un serpente con la sua preda.

«Non te l'ho mai chiesto» disse rude.

«Invece lo hai fatto, mio piccolo pettirosso. I tuoi occhi lo hanno implorato, perché vuoi sapere la verità. Sei tu che ispiri la mia arte, ricordalo. Ti sto creando un mondo in cui potrai essere felice, dovresti ringraziarmi» ringhiò, sentendosi colpito nel profondo, incompreso.

«Mi hai portato via la mia vita con Zofie e dovrei pure dirti grazie?» rivelò, con le lacrime agli occhi.

«Tutto ha un prezzo. Il tuo sangue è la tua sofferenza, la mia arte è il mio dolore».

Rimasero entrambi in silenzio, quella rivelazione stordì la mente di Diana, lo guardò con occhi sconcertati. Le aveva rivelato la verità di quel macabro patto, avevano condiviso le loro pene e cercavano di entrare uno nel corpo dell'altra. Avevano bisogno di essere ricordati in qualche modo, di essere notati, visti con sguardi d'ammirazione dopo aver combattuto battaglie nel nome della morte.

«Tu non sai niente di me, non capisci cosa provo e cosa ho passato per arrivare fin qua. Ho dovuto lottare per non essere rinchiusa come mia madre. Ho sofferto, Elia».

Sentire il suo nome pronunciato dalle labbra di Diana lo fece sussultare, si allontanò di qualche passo da lei, il viso si era rilassato e le rughe sulla sua fronte si erano addolcite. Gli occhi semichiusi avevano l'aria assonnata, le ciglia erano piccoli chicchi di neve poggiati a rami scheletrici di alberi dormienti.

Aveva un'aria assorta, innocente e in quel momento Diana lo vide perdere tutta la sua freddezza. Si era nutrito di quelle parole, lo aveva affamato e si era amalgamato con la spuma del mare. Il suo silenzio aveva lo stesso feroce impatto delle onde in tempesta.

«L'arte non è facile da capire» proferì poco dopo. «Bisogna allenare l'occhio a osservare i più piccoli particolari, i gesti, le espressioni. È un'orchestra di colori, di emozioni che solo i cuori fragili riescono a percepire. L'arte non spiega, ma mostra l'orrore, la morte, il dolore, la compassione in un solo e semplice istante. Resterà così per l'eternità e allo stesso modo noi saremo parte di quel tempo infinito».

Elia le accarezzò i lunghi capelli, la sua pelle si colorò di quel rosso intenso, sanguinava senza dolore. Scese fino a premere il palmo sulla sua guancia piena di efelidi. Diana era la rappresentazione dell'universo, era stelle, galassie e materia oscura. Avrebbe voluto tenerla per sé fino alla fine dei suoi giorni perché sapeva di poter rappresentare la pura e semplice realtà, imprimere la fragilità dell'essere umano e renderla immortale.

Diana si lasciò trasportare dal dolce tocco di mani lunghe e piene di forza. Avrebbe dovuto odiarlo con tutta se stessa, ma non aveva le forze di controbattere. Il suo discorso, la sua voce la cullavano in uno stato catatonico in cui avrebbe voluto abbandonare le sue stanche membra e dormire per l'eternità. Era un terreno morbido in cui far perire la sua carne.

«Cos'è che devo vedere?» chiese la giovane, con un filo di voce.

«Il mio passato» rispose a pochi centimetri dalle labbra di Diana. «Siamo più simili di quanto immagini, mia dolce musa».

La nebbia attorno a loro si era infittita, li aveva inglobati in un limbo in cui esistevano solo loro. L'orizzonte era impossibile da vedere, si riuscivano a percepire solo le onde del mare. L'odore di iodio era intenso, i loro corpi si impregnavano del suo sapore, mentre le guance venivano pizzicate da finissime gocce d'acqua rimaste a galleggiare nell'aria.

«Non devi avere paura della morte» continuò Elia. «Siamo attimi fuggenti, restiamo su questa terra per un periodo troppo breve, un battito di ciglia. Quindi esistiamo, finché ce lo permetteranno. Viviamo e riprendiamoci la libertà che bramiamo da una vita» sussurrò l'ultima frase. Elia era convinto delle sue scelte, delle sue capacità di rendere schiave le persone con la sua macabra arte. Voleva farle inginocchiare davanti a tale bellezza, farle svegliare da un sonno eterno fatto di irrealtà e superficialità. Aveva bisogno di vendicare la sua rabbia e al tempo stesso voleva dimostrare quanto fosse invincibile nel rappresentare tutti coloro che avevano diritto di marcire nelle fiamme dell'inferno.

Diana era in uno stato confusionale, la mente non ragionava più con lucidità. Si sentiva persa, ma al tempo stesso la sensazione di avere Elia vicino era confortante. Non riusciva a comprendere le sue emozioni, erano troppo forti, prepotenti e incontrollabili.

Le stava facendo credere di essere importante, di meritarsi l'esistenza più di chiunque altro. Era destinata a essere la sua musa, a vivere per l'eternità.

Diana tratteneva a stento un pianto, era in una strada senza ritorno. Sapeva che da quel giorno non sarebbe mai più stata la stessa, se avesse seguito le orme del suo amato pittore non avrebbe più dovuto soffrire, essere una bambola usa e getta.

Si sarebbe ricoperta del sangue delle sue vittime, eccitata nel vedere anime scendere all'inferno. La luce delle fiamme sarebbe stata la sua rinascita.

Insieme erano tempesta. Erano caos e distruzione, amore per l'ignoto e ossessionati dalla morte. Si sarebbero persi nelle loro perversioni fatte di colore a olio, di corpi nudi e fiumi di sangue.

In quel momento gli occhi di Diana immaginarono una scena di un mare scarlatto, entrambi erano immersi in quel liquido denso che entrava nelle loro carni e imbrattava le epidermidi. Si bagnavano in acque sanguigne, facevano l'amore tra quelle onde e intorno a loro tutti i colori sfumavano in un rosso intenso. Il cielo si era dipinto di fuoco incandescente e allo stesso modo le pupille di Diana danzavano attorno alle fiamme.

Un battito di ciglia e tutto ritornò al suo posto, il freddo intenso del vento marino tornò a pizzicarle il volto e la nebbia biancastra la proteggeva dagli sguardi della gente. Davanti a lei, Elia la ammirava in silenzio, avrebbe voluto essere parte di lei, entrare nel suo cervello e assaporare il suo dolce sangue. Sentiva vibrare le vene, si gonfiavano di sangue e di eccitazione.

«Ho dato un nome al serpente. L'ho chiamato Lestat» rivelò Diana, in preda a brividi intensi all'interno del petto.

«Lestat», ripeté Elia scandendo ogni lettera. «Mi sarebbe piaciuto avere quel nome da piccolo» abbozzò a un sorriso malinconico.

«Ha morso un uomo, lo conoscevo. Picchiava sua moglie ogni giorno. Tornava a casa ubriaco la sera. Per caso tutto questo fa parte del tuo passato?» chiese Diana, ripensando alle parole di Elia, pronunciate qualche attimo prima.

«Sei più intelligente di quanto credessi, piccolo pettirosso», sogghignò divertito, «ma altro non posso rivelarti. Devi scoprirlo da sola e arriverai a conoscere anche il tuo di passato».

«Io ho bisogno di sapere, capire cosa sta succedendo» disse Diana, quasi implorandolo.

«Scoprirai tutto a tempo debito» si allontanò fino ad arrivare alla riva. La nebbia lo aveva nascosto ai suoi occhi, cercava di seguirlo con lo sguardo, ma era schivo come un fantasma.

Si ritrovò all'improvviso da sola, cercò di avvicinarsi, ma era come volatilizzato in un battito di ali.

Lo chiamò a squarciagola, si era sentita riemergere da un sogno. La realtà la stava di nuovo trascinando verso il basso. Non voleva lasciarlo andare, aveva bisogno di lui.

All'improvviso, degli schizzi d'acqua le piombarono addosso come spilli di ghiaccio. Diana sussultò e gemette per lo spavento. Si ritrovò a terra sulla sabbia bagnata e il giaccone pieno di gocce salate. I capelli si erano inumiditi e granelli di conchiglie le erano entrate dentro le scarpe.

Una risata gutturale si propagò come un'eco, Elia era sempre rimasto lì con lei. Si era divertito a schizzarla con l'acqua del mare, si era tolto le scarpe e in un momento di pura innocenza l'aveva riportata agli anni in cui era una timida bambina tra le braccia di sua madre e la paura dell'acqua.

«Ma che diavolo...» sbraitò Diana, finché anche lei si lasciò trasportare da una risata contagiosa. Le mani piene di sabbia erano diventate ruvide, piccoli chicchi giallognoli si erano avvinghiati a lei profumandole la pelle del sapore dell'estate.

Avevano riscoperto entrambi il piacere di essere innocenti. In un istante, Diana si era dimenticata dei suoi problemi, della sua solitudine e le voci nella sua testa si erano affievolite. Riusciva a sentire nitidamente ogni rumore intorno a lei. La bolla in cui era rimasta per tanto tempo era esplosa e aveva come l'impressione che l'esistenza fosse meno difficile. Sapeva, però, che tutto quello non sarebbe durato a lungo.

Senza pensarci due volte, Diana si rialzò e corse verso di lui come una furia. Si avvinghiò a lui, facendogli perdere l'equilibrio. Caddero sulla riva piena di alghe e rametti impregnati d'acqua. Entrambi si bagnarono i vestiti e vennero sorpresi da un'onda improvvisa. I capelli di entrambi si inumidirono, diventando fili sottili di ghiaccio e sangue.

Si persero nelle loro risate, le braccia forti di Elia la trattenevano sopra il suo petto. Diana era una piccola macchia rossa in mezzo a un foglio bianco. Quel contatto così ravvicinato le riempiva la schiena di brividi.

Le loro bocche erano socchiuse per far passare più aria possibile nei polmoni, ma le labbra erano a un passo dallo sfiorarsi. Diana non poteva cedere alla tentazione, si sarebbe resa ancora più vulnerabile e non se lo sarebbe mai perdonata.

Diana si rialzò subito, cercando di togliersi la sabbia di dosso, ma senza risultati. Tremava dal freddo a causa degli indumenti zuppi d'acqua e doveva tornare subito a casa.

«Diana» disse Elia, alzandosi anche lui da terra. «Vieni da me, ti darò dei panni puliti e finiremo ciò che abbiamo iniziato. Ho bisogno della mia musa».

Elia le prese una mano e la intrecciò alla sua. Aspettò una reazione di Diana, ma rimaneva ferma, impassibile a quella richiesta inaspettata e strana al tempo stesso.

Senza dire una parola, Diana si fece coraggio e lo seguì nella fitta nebbia. Scomparirono in mezzo alla foschia, divennero parte di quell'inquietante spettacolo in cui la morte e la follia si nascondevano in attesa della loro ascesa.

Divennero l'essenza stessa della vita. Erano lacrime di ghiaccio e fiumi di sangue.

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