Capitolo 1.
"Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l'ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco generose travolse alme d'eroi, e di cani e d'augelli orrido pasto lor salme abbandonò..."
-Proemio Iliade, Omero.
Il cuore le batteva forte nel petto, il sangue era in estrema eccitazione all'interno delle vene, i polmoni si riempivano d'aria e catrame. Era viva, ma non lo sarebbe stata ancora per molto.
Diana guardava fuori dalla finestra nella sua stanza buia. Le luci della città si riflettevano sulla candida e nuda pelle. Fumava sigarette senza filtro, le piaceva assaporare il tabacco in tutta la sua essenza, ubriacarsi i polmoni fin quasi a non riuscire a respirare.
I seni morbidi erano coperti da una chioma sanguigna. Le ciocche disegnavano arterie, capillari infuocati lungo la schiena e le spalle.
Lo sguardo assorto e la mente in stato confusionale vagavano in pensieri distorti, paranoie fatte di incubi e sogni irrealizzati.
Osservava ombre intossicate d'alcool camminare sui marciapiedi. Erano sole, indifese e al tempo stesso dimenticate.
La vita le prendeva a schiaffi ogni giorno, le rendeva senza un briciolo di dignità. Riempirsi lo stomaco d'acido era la loro unica via di fuga verso un mondo utopico e irraggiungibile, ma avrebbero fatto di tutto pur di ottenerlo. Erano schiavi delle proprie dipendenze.
Diana si fermava a osservare il ciclo della notte, il silenzio delle strade e il buio del cielo erano per lei l'unico conforto per la sua insonnia.
Immaginava di essere in mezzo alla folla, di perdersi in un mondo di colori dove poter esistere in pace. Invece, si ritrovava in un appartamento lercio in una città marittima, pagandosi gli studi con lavoretti da cameriera e qualche orgasmo la sera.
Appagava perversioni altrui solo per soldi.
Degli strani mugugni provenivano da sotto le coperte. Diana girò il volto affilato verso il ragazzo appisolato, non comprendeva come potesse dormire beato con la coscienza sudicia. Trasudava orgoglio e narcisismo da tutti i pori.
Diana si era ridotta a essere una bambola usa e getta: si divertivano come bambini viziati, la possedevano e si stancavano quando avevano placato le loro sadiche voglie. Sopportava ogni morso, ogni graffio sul cuore e sull'epidermide, solo per avere una possibilità di diventare qualcuno agli occhi della società. Sapeva, però, di star vivendo in un'illusione.
I glutei sodi del giovane erano visibili dalla sua postazione, la penombra riusciva a far vagare la mente tra curve morbide ed eccitanti.
Più restava a guardarlo, più la nausea le saliva in gola, la bile le ribolliva nello stomaco e i sensi di colpa rigurgitavano fuori come cibo andato a male.
Doveva aprire la finestra, far cambiare aria alla stanza, ma il freddo delle notti d'autunno non era invitante tanto quanto l'altezza.
I suoi occhi verdi puntavano verso il basso, un senso di vertigine la fece dondolare come dopo una dose di eroina. Il vuoto sotto di sé le dava alla testa, cadeva in quel limbo fatto d'aria. Le ossa si frantumavano, il sangue sgorgava dal cranio e dalla bocca, mentre pezzi di materia grigia si sparpagliavano al suolo.
Vermi e insetti si sarebbero cibati della sua carne, gli acidi l'avrebbero corrosa fino a rimanere nient'altro che polvere.
«Diana, chiudi la finestra, fa troppo freddo» si lamentò il giovane alzando di poco la testa per protestare dei troppi brividi lungo la schiena.
Diana si risvegliò dal suo incubo a occhi aperti, le pupille erano dilatate, fin quasi a ricoprire l'iride. Il petto sporgeva dal bordo della finestra, i capelli volavano insieme al vento, le accarezzavano il viso come mani gentili di una madre premurosa. Nessuno si era degnato della sua presenza, era sempre rimasta invisibile agli occhi degli altri: era una come tante. Quando si spogliava, però, ogni essere umano la privava della sua fragilità. Divorava la sua essenza, si cibava di lei, della sua carne morbida e della sua anima solo per puro divertimento.
La solitudine l'aveva portata a essere la parte peggiore di se stessa, la legge del più forte era l'unica a cui non si poteva mai trasgredire.
«Lasciami stare, è casa mia, posso fare ciò che voglio» rispose rude, senza far trapelare un briciolo di emozione. La sigaretta tra le dita sottili bruciava imperterrita, lasciando scie di fumo lungo il braccio. Si alzò, senza fare rumore, mettendosi in piedi davanti al letto.
Il ragazzo dalla pelle olivastra si rigirò tra le coperte, come se non gli importasse delle parole di Diana.
La voce si perdeva nel tempo e nello spazio, ogni cellula del suo corpo era ricoperta di solitudine. Lo era sempre stata fin da bambina.
Odiava esistere. Doveva soffrire per vivere, era rinchiusa in un ciclo eterno senza via d'uscita. Iniziava a comprendere la malvagità dell'essere umano e lei ne aveva abbastanza di restare nell'ombra. All'età di ventun anni aveva visto negli occhi degli altri il volersi approfittare di un'anima fragile. Il suo cuore era diventato di ghiaccio, aveva smesso di battere tanto tempo fa, si era rinchiuso in una barriera fatta di cemento e l'unica possibilità di far smettere ogni suo tormento era la morte stessa.
Quell'uomo sdraiato sul suo letto, perso nei sogni, nella stanchezza che portava l'euforia dell'orgasmo, stava mettendo a dura prova la poca pazienza rimasta.
Cercò il suo portafoglio nella tasca dei pantaloni abbandonati a terra, le doveva un bel po' di lire. Era indietro con i pagamenti e aveva bisogno di soldi per stare in pari con l'affitto. Gli prese ogni centesimo e con violenza gli tirò i jeans in faccia, facendolo svegliare del tutto.
«Sparisci, non voglio più vederti» alzò il tono della voce. Accese l'abat-jour per osservare il giovane sconosciuto.
Non chiedeva mai il nome ai suoi clienti, non le interessava conoscerli. Arrivavano e sparivano nella sua vita in un battito di ciglia. Era una stazione affollata, ma senza capolinea. Sapere i loro nomi era solo una perdita di tempo.
«Che stai facendo?» domandò, assottigliando lo sguardo per coprirsi le sclere arrossate dalla luce improvvisa sul volto.
«Vattene da casa mia!» urlò, sull'orlo del pianto. Si diresse alla porta per fargli intendere di doversi sbrigare a vestirsi. Prese alcuni indumenti e li scaraventò nel corridoio esterno.
Spaventato dai suoi scatti d'ira si mise le mutande, arrabattò i suoi averi e uscì in fretta dall'appartamento.
«Vai al diavolo, puttana! Vediamo se all'università saprai fare l'altezzosa o ti nasconderai in bagno come sempre a succhiare i cazzi di tutto l'ateneo?». Le parole rimbombarono nell'atrio desolato, un cane da dietro la porta di uno dei vicini abbaiò nervoso. I latrati smorzavano la tensione, Diana rimase sull'uscio in silenzio per accettarsi di vederlo sparire dalla propria vista. Ci era abituata agli insulti, ferivano nel profondo, ma al tempo stesso non si sarebbe mai fatta abbindolare. Erano solo parole buttate al vento.
L'ansia le aveva teso i nervi come corde di violino, aveva paura di essere picchiata, molestata di nuovo. Nessuno aveva mai un briciolo di pietà.
Terminò la sigaretta, un ultimo soffio di fumo le uscì dalle labbra morbide e lasciò cadere il mozzicone sul posacenere vicino all'entrata.
«Didì, tutto bene?» una vocina dall'accento russo si materializzò dalla parte opposta del corridoio. Una chioma riccia e due occhi azzurri si erano affacciati con timidezza senza far troppo rumore, per accertarsi di cosa fosse successo. Trovarla nuda, col trucco colato sulle guance era la rappresentazione di un angelo caduto dal paradiso.
«Sto bene, Zofie. Grazie per l'interesse» rispose affranta. Incrociò le braccia al petto per nascondersi i seni, ma con poco successo. Le spalle erano curvate in avanti, si intravedevano le vertebre spuntare dietro la schiena, come se le sue ossa volessero trovare una via di fuga dalla vergogna.
I contorni sinuosi si confondevano col buio, sembrava volesse sparire in un mondo costruito dalla sua mente, evadeva dalla realtà senza nemmeno rendersene conto.
«Tieni, prendi la mia felpa» sussurrò, avvicinandosi e mettendole addosso un po' di tessuto caldo per smorzare i brividi sulla pelle.
«Non sei obbligata ad aiutarmi».
«Lo faccio perché ci tengo a te, Didì. Non dovresti stare con gente che non ti ama». I capelli dorati dalle punte tinte di rosa le ricadevano sulle braccia come grano al sole. Il suo sguardo era perso a osservare la fragilità di Diana, era così irraggiungibile da non riuscire a esprimere i suoi sentimenti. In fondo, saperla lì accanto era uno dei pochi conforti della vita e avrebbe fatto di tutto per aiutarla.
«Domani te la riporto pulita, ora voglio solo andare a letto».
«C-ci vediamo a lezione, allora» disse biascicando le parole per l'ansia imminente. Dei piccoli e impercettibili tremuli si facevano largo tra le sue dita, mentre si portava una ciocca dietro l'orecchio.
«Ne dubito, devo prepararmi per un esame. Forse mi troverai in biblioteca» sospirò, cercando di placare le sue paranoie. Si morse le pellicine attorno alle unghie, il sapore del sangue riusciva a calmarla.
«D'accordo, allora ti verrò a trovare» sorrise leggermente, ma non ricevette nessuna risposta.
Diana aumentò le distanze da Zofie e se ne ritornò in stanza, chiudendosi dietro la porta. Non rispose alle sue premure, sapeva di farle pena. La gente per mostrarsi come finta samaritana si travestiva da crocerossina in soccorso al più debole.
Zofie non era del tutto così, la vedeva sempre in giro tra le vie piene di ragazzi fuorisede, ma non comprendeva del tutto cosa nascondessero i suoi gesti e i suoi tocchi gentili. Non era mai stata abituata a un tale affetto.
Tornò alla finestra, si rollò un'altra sigaretta e rimase a osservare l'alba. Le strade di Porto Arco cominciavano a ravvivarsi, le auto sfrecciavano sulla strada con più insistenza e qualche passero solitario si risvegliava dal suo sonno.
Tutto aveva uno scopo, ma la sua mente era persa in un groviglio di pensieri infiniti. Pianse in silenzio, lasciando che la sigaretta si consumasse tra le sue labbra fino a bruciarle la gola. Avrebbe voluto sparire, essere un puntino bianco in mezzo a una candida tela; invece, era solo un inutile scarabocchio rosso su un foglio accartocciato: un quadro da quattro soldi. Era viva, ma inutile e quando un oggetto non serviva più, veniva lasciato a prendere polvere o a marcire nell'immondizia. La sua anima non era altro che spazzatura.
«Perché sono ancora viva?» domandò a se stessa, guardando il cielo diventare una fiamma incandescente di colori e sfumature intense. L'odore della salsedine si insinuò nelle narici, riusciva quasi a sentire le onde del mare infrangersi sulla sabbia, voleva immaginare a occhi aperti e mai più svegliarsi.
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