𝐗𝐕. 𝐋𝐚 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐠𝐢𝐮𝐬𝐭𝐚
«Non prenderla nella maniera sbagliata, marmocchio, ma in quanto a cucinare hai preso proprio da tua madre!» Con sommo disappunto di Casey, Milton si ripulì i baffi dal sugo dopo aver cercato di mangiare i peggiori spaghetti che gli fossero mai capitati nel piatto, salvo le occasioni in cui era stata Lidia a cimentarsi nel preparare suddetta portata.
«Non era poi così male, dai» intervenne Noah, incoraggiato dall'occhiata implorante che il compagno gli aveva appena lanciato. «I-Insomma, magari... un po' di sale in meno e più tempo di cottura avrebbero potuto aiutare, ecco.»
Casey sbuffò sonoramente e si alzò da tavola. «Vado ad aiutare mia madre a lavare i piatti prima di correre il rischio di avvelenare qualcuno!» annunciò stizzito, svanendo in cucina.
Milton sospirò. «Se vuoi un consiglio spassionato, giovanotto... per questo Natale regalagli un libro di cucina per gente alle prime armi.»
«Ho paura che me lo sbatterebbe in faccia.»
«Beh, è un rischio che vale la pena di correre, a parer mio.» Il vecchio Leroin si guardò in giro circospetto, poi fu lesto nel tirar fuori una bustina di tabacco e a caricare la sua buon vecchia pipa, accendendosela e traendo infine da essa un rilassato tiro. «Allora, cosa hai deciso di fare con l'eredità dei Rivera?» domandò, il viso parzialmente celato dietro a una rarefatta cortina di fumo argentato.
McKay si morse il labbro inferiore. «Mi prenderò qualche giorno di ferie, sistemerò tutto e poi... penso proprio che aprirò dei fondi fiduciari per i ragazzi e con quel che rimane, invece, un conto che saremo io e Casey a gestire e che useremo per eventuali necessità economiche.»
«Non male come idea, ma devo sgonfiarti l'aureola: fino a prova contraria temo che i figli siano di Casey e dell'uomo con cui li ha concepiti, poco importa che le circostanze siano state tutt'altro che piacevoli e giuste. So che ormai per te i gemelli sono praticamente figli tanto tuoi che di Casey, ragazzo, ma... per la legge sei il fidanzato di mio nipote e niente di più. Non ti consentiranno di aprire i fondi patrimoniali per i gemelli, non quando non sei una figura genitoriale per loro, almeno sulla carta.»
Noah deglutì. «Lo so, ma...»
«Lo capisco» lo interruppe indulgente Milton. «C'è ancora tempo per reclamare tutti i beni che ti hanno lasciato i tuoi parenti e fino ad allora tu e Casey potreste semplicemente aprire un conto in comune, fondi fiduciari a parte. Per ora state insieme e se volete tirare avanti nel crescere tre marmocchi, allora vi consiglio di attingere alle riserve dei tuoi genitori e di tuo nonno più che potete. I figli costano un patrimonio, oggigiorno, e i piccoli Alphaga non sono esenti da vizi e necessità di ogni genere.»
«Casey, un paio di giorni fa, è stato al municipio per firmare delle carte. Ho provato a convincerlo a non farlo, almeno per scaramanzia, ma non ha voluto ascoltarmi. In pratica... quei documenti stabiliscono che in caso di sua morte la custodia dei suoi figli spetterebbe a me e oltre a questo, ha designato me come secondo genitore dei gemelli. All'inizio se n'è uscito dicendo che avremmo risolto tutto in poco tempo sposandoci, ma gli ho detto che era troppo presto e che avrebbe dovuto pensarci bene prima di prendere una decisione così importante» rivelò, con un certo imbarazzo, Noah.
Milton quasi perse la presa sulla pipa. «Non è da mio nipote prendere anche solo in considerazione il matrimonio. Che diamine gli frulla in testa, ultimamente? E comunque nessuno morirà. Che mi venga un colpo se non sembra quasi tirarsi addosso la iella! È proprio come Lidia: sempre pronto a pensare al peggio e a fasciarsi la testa prima di essersela rotta!»
«Ha detto di essere una persona troppo pratica per voler aspettare e magari incappare in brutte sorprese.» Noah deglutì a fatica. «Ha paura che Olegov decida di farsi vivo e di terminare quel che aveva iniziato a Caverney Town. Non posso dargli torto, ma vorrei tanto che non parlasse di sé come se fosse già condannato.»
Per quanto gli avesse fatto piacere che Casey avesse deciso di designarlo come genitore dei gemelli e tutto il resto, non gli piaceva il motivo che lo aveva spinto a essere così precipitoso e determinato a rimettere a posto i propri affari in vista di qualcosa che non era detto che accadesse. A volte sembrava un malato terminale che si preparava al peggio ormai inevitabile, anche se solo fra le mura di casa si permetteva di abbandonare l'aria di apparente tranquillità che mostrava con il prossimo e tornava a essere una persona spaventata all'idea di vedere tutto ciò a cui teneva venire spazzato via da un mostro che aveva già provato a distruggerlo.
Nel cuore della notte a McKay capitava di svegliarsi e di vedere il posto nel letto accanto al proprio vuoto; si alzava e scorgeva Casey in cucina e seduto su uno degli sgabelli del bancone a penisola. Lo vedeva piangere in silenzio e quasi sempre decideva di palesare la propria presenza e di recargli conforto, di non lasciarlo da solo quando lo stress e la paura avevano la meglio. Era ovvio che Leroin dovesse ancora smaltire, in parte, tutto ciò che aveva accumulato prima di rifugiarsi a Mythfield e di ottenere di nuovo la libertà, ma Noah iniziava a essere preoccupato per lui. Quel ragazzo era spaventato dal futuro che li attendeva e non sempre era consolabile, disposto a venire distolto da tutti quei timori ed esser riportato al presente che, nonostante gli alti e bassi, non era così terribile.
Proprio quando si stava accingendo a parlare di suddetta situazione con Milton, tuttavia, Noah venne interrotto dal suono del campanello che lo costrinse ad alzarsi, a recarsi all'ingresso e andare ad aprire. Non si sorprese vedendo che si trattava di Idris. Il giorno prima era passato da loro spiegando di aver bisogno di un po' del sangue di Casey per un incantesimo che gli avrebbe permesso di scovare la posizione attuale di Olegov e seguirne i passi. A giudicare dall'espressione dello strego dovevano esserci stati degli sviluppi. «Ci sei riuscito?» gli chiese subito l'Ibrido. «Dimmi che non si trova nei paraggi!»
«Macché» borbottò cupo Pothier. «Non è qui, ma questo non mi fa stare affatto tranquillo. È in Svezia e ieri sera, sul tardi, ho parlato di nuovo con Ariel e Crystal e loro hanno scoperto che proprio laggiù è situato un mausoleo nel quale la stirpe dei principi Leíron e dei loro parenti è stata tumulata sì e no al completo fino alla fine del loro dominio. È come pensava Crystal, a questo punto: lì c'è qualcosa che Olegov vuole e lo brama così tanto da essersi recato di persona in Europa per indagare.»
McKay impallidì. «Quindi... Demetrius forse era davvero uno stregone votato al male.»
«È possibile. Nel libro che è stato Crystal a esaminare c'era questa immagine che riportava fedelmente un'incisione particolare fatta proprio su un monumento all'interno del mausoleo sotterraneo. Parliamo di un'autentica necropoli nel sottosuolo, Noah, e se non sono di colpo diventato scemo, l'incisione è un autentico sigillo che deve per forza esser stato uno strego a creare. Viene usato per far sì che l'accesso a qualcosa venga precluso a chiunque e nulla, se non la magia, può infrangerlo. È naturale che sotto quel monumento ci sia una sorta di passaggio o addirittura la tomba dentro la quale venne deposto il corpo di Demetrius.» Idris mostrò a Noah una fotocopia dell'immagine che Ariel gli aveva consegnato. «Da quelle parti molti streghi utilizzavano ancora la sapienza dei popoli antichi e facevano uso delle rune anche nel modo che tu stesso stai osservando. Questa è la runa "algiz" e di solito serviva ad allontanare il male o a far da scudo a qualcosa per proteggerla da eventuali scocciatori. È capovolta, però, e quando è così, in ambito magico significa che lo strego che l'ha incisa voleva fare in modo che il male rimanesse sigillato, anziché venire respinto. Nulla può uscire né entrare da lì, in breve.»
«E Olegov sa tutto questo, ovviamente» concluse sconfortato Noah. «Poco ma sicuro, avrà già trovato qualcuno disposto a distruggere il sigillo, volente o nolente.»
«Se non l'ha fatto, sicuramente ci starà pensando e lavorando sopra. È scontato dire che neppure se potessimo materializzarci direttamente lì riusciremmo a fermarlo. Ormai è tardi, purtroppo.»
«Pensavo che la magia consentisse a voi streghi di... non lo so, teletrasportarvi dove vi pare!»
Idris squadrò torvo e indispettito l'Ibrido. «Ripeti dopo di me, McKay: gli streghi sono persone con poteri magici, non DeLorean dotate della possibilità di viaggiare nel tempo e nello spazio a piacimento.»
«Beh, Harry Potter sapeva smaterializzarsi» borbottò scontento Noah. «Pensavo che voi stregoni sapeste farlo anche nella realtà, ecco.»
«Ebbene, non è così. Sappiamo far apparire oggetti e quant'altro, ma un conto è sottoporre a un viaggio simile qualcosa di inanimato e un altro è far viaggiare attraverso le trame della realtà qualcosa di ben diverso e assai più grande di un bollitore per il tè!» Pothier alzò gli occhi al cielo ed emise un lungo ed esasperato sospiro. «Povero me! Quante devo sentirne ogni giorno!»
«Va bene, Abracadabra, scusa!» Noah sollevò le mani in segno di pace. «Che si fa, allora?»
«Non c'è niente che si possa fare, temo, se non augurarsi candidamente e sentitamente che il Lich dentro il mausoleo dei Leíron decida di ridurre Olegov a un sanguinolento spezzatino, nel caso quel pazzo riuscisse a liberarlo.»
McKay sbatté le palpebre. «Stai veramente dicendo di lasciare tutto al caso?»
«Se hai idee migliori, Einstein, fatti avanti.»
«Quello minaccia di sguinzagliare un mostro sì e no indistruttibile, Idris!»
«Lo so, maledizione! Lo so, ma noi siamo qui e Olegov si trova in Svezia e ci ha fregati di nuovo! La realtà è questa, Noah, e ci conviene accettarla e far fronte alle conseguenze delle azioni sconsiderate di un folle!»
Il suono di passi in avvicinamento mise fine alla discussione. I due guardarono quasi all'unisono dietro alle loro spalle e videro Casey che li fissava con aria perplessa. «Idris, che succede?» chiese Leroin. «Perché stavate discutendo?»
Lo strego precedette Noah e spiegò la situazione all'Indigo che, nell'udire le ultime, scoraggianti novità, si fece cereo in volto. «M-Ma... questo... questo significa che...»
«Non significa nulla, non ancora» cercò di rassicurarlo Noah. «Non è detto che Olegov riesca nel suo intento, Casey. Vero, Idris?»
Pothier deglutì a vuoto. «Crystal ha detto che domare la volontà di un Lich è molto difficile, addirittura impossibile. Non sono dei cadaveri rianimati e privi di raziocinio. Sono esattamente quel che erano al momento della morte, solo... meno dotati di sentimenti, di emozioni e limiti. Dipende molto dal modo in cui sono venuti a mancare, ma non sappiamo nulla di cosa uccise Demetrius, quindi... non possiamo neppure sapere se si rivelerà un Lich tutto sommato ragionevole e in grado di frenarsi, di non scendere a patti con Olegov, o un mostro dissennato e assetato di sangue. Se volete la mia opinione, trovo che sia davvero molto sospetto che morì mentre era in viaggio per la Svezia in compagnia del marito e del figlioletto. Non si sa molto sul loro conto, se non che Demetrius non fosse poi così affezionato al consorte. Si erano sposati per mero interesse politico, d'altronde, e il modo in cui Demetrius riuscì a scalare le vette del potere, a elevarsi e a irradiare luce propria, mi fa supporre che forse suo marito, geloso e stanco del suo pessimo carattere, della sua sete di potere che lo aveva condotto a sterminare un intero clan rivale, potrebbe... beh... aver magari dato una spinta agli eventi.»
Casey lo squadrò perplesso. «Cosa te lo fa credere?»
«Non lo so, ma se Demetrius è davvero diventato un Lich dopo la morte, allora significa che prima di quel giorno avesse provveduto a formulare un piano di riserva, qualcosa che lo proteggesse e riportasse indietro nel caso fosse caduto vittima di eventuali congiure atte ad assassinarlo e a toglierlo di mezzo. In poche parole... solitamente un Lich è uno stregone che ha scelto di barattare qualcosa di importante con l'immortalità. Quasi sempre si tratta dell'anima. Quella in cambio di una seconda possibilità per conseguire obiettivi sempre più arditi e non temere mai più l'annientamento da parte di agenti esterni.» Idris provvide a spiegare a Casey quel che aveva già detto a Noah in merito alla runa che forse serviva a sigillare nel ventre del mausoleo dei Leíron qualcosa che Olegov invece voleva liberare. «Quel sigillo mi porta a credere che sia come temiamo. Là sotto c'è davvero qualcosa e... poco ma sicuro, si tratta quasi certamente di Demetrius che da secoli attende di tornare in superficie.»
«Se anche fosse come dici, com'è possibile che sia ancora lì? Insomma... sono passati secoli, no? Lich o meno, come può non essersi tramutato in cenere o in un mucchio di ossa inanimate?»
Idris si strinse nelle spalle. «Non lo so. L'esperto del settore è Crystal e lui non ha fatto menzione di cosa possa accadere a un Lich che resta intrappolato per un bel po' di tempo in una cripta. Dubito, tuttavia, che creature simili patiscano la sete o la fame e se anche fosse così, non credo proprio che per sostentarsi prediligano hamburger e patatine.»
Leroin, con le mani che tremavano, estrasse dalla tasca dei jeans il telefono. «Devo parlare con Crystal. Voglio che mi spieghi tutto come si deve e che mi dica chiaramente quante possibilità abbiamo contro un essere del genere!»
«Casey...»
«Non voglio sentire scuse, Noah! Non intendo stare qui ad aspettare che un dannato zombie coi poteri magici si presenti alla porta di casa mia per far fuori me o i miei figli!» Casey rifilò un'occhiata penetrante al fidanzato, si volse e attese che Crystal rispondesse. Ciò avvenne appena dopo il secondo squillo. Parlarono per circa cinque minuti e quando la chiamata si concluse, Leroin ripose il telefono e agguantò dalla piccola bacheca di legno appesa alla parete lì a fianco la sua copia delle chiavi di casa. «Vado da lui. Mi ha detto di raggiungerlo alla dependance.»
Vide Noah e Idris far per parlare, ma lui li interruppe subito e chiarì che avrebbe preferito confrontarsi con Hawthorn per conto proprio. Quelle furono le sue ultime parole, oltre alla raccomandazione indirizzata a McKay di controllare i gemelli e assicurarsi che Milton e Lidia venissero messi a parte delle ultime novità.
«Allora, che si fa?» Casey guardò con non poca apprensione Crystal. Sedevano entrambi sui gradini del piccolo portico di fronte all'ingresso della dependance e Hawthorn teneva fra due dita una sigaretta accesa mentre fissava un punto imprecisato del vialetto davanti a loro.
Lo strego sospirò. «Vuoi una risposta sincera?»
«Ovviamente!»
«Fosse per me sarei già su un aereo diretto in Svezia per rintracciare quel bastardo, ma ragionando con un minimo di logica... se anche lo facessi, sarebbe comunque troppo tardi.»
Leroin lo guardò, confuso. «Quindi la pensi come Idris?»
«Sì e no. Ascolta, so che la prospettiva di restare qui ad aspettare possa apparire controsenso e da vigliacchi, se vogliamo, ma prova per un secondo a mettere a fuoco l'insieme, Casey: se anche io ora decidessi di andare in Svezia per impedire a Olegov di fare quel che vuole fare, ci vorrebbe in ogni caso del tempo per trovarlo, tempo che probabilmente non abbiamo. E comunque... da solo non potrei fare granché. Se Olegov è al di sopra degli standard degli Alphaga, ho a che fare con una creatura, un mostro che fino ad ora non mi è mai capitato di dover sistemare per le feste. Certo, potrei coinvolgere altre persone, ma andremmo incontro a un pericolo inutile e perderemmo nel frattempo un prezioso vantaggio. Magari non possiamo fermare Olegov, ma possiamo sempre far fronte alle conseguenze delle sue azioni. Capisci cosa sto dicendo?»
Casey abbassò lo sguardo, sconfortato dopo che la sua ultima, flebile speranza era stata ridotta in cenere dal realismo di Crystal che, tuttavia, aggiunse: «Certe cose, mi disse una volta una persona saggia, sono come le onde anomale: non puoi impedire che si abbattano contro di te né fermarne l'arrivo, ma puoi sempre scegliere di prepararti all'impatto e di nuotare al momento opportuno, anziché annegare». Era stato Lance a dirglielo. Lo aveva fatto quando lui si era infine aperto e gli aveva raccontato tutto ciò che aveva passato prima del loro incontro; aveva confessato a Lance di avere paura del futuro, di temere che non sarebbe mai stato pronto davanti alle infinite difficoltà della vita quotidiana. Gli aveva confidato di aver paura che il mondo riuscisse a sopraffarlo e a travolgerlo, a spazzarlo via completamente. Ricordava bene lo sguardo affettuoso, paterno e rassicurante di Lance e il modo in cui l'uomo gli aveva posato una gentile carezza sul capo. Quel semplice gesto gli aveva trasmesso molto più conforto di quanto avessero fatto le sue sagge parole per le quali si era guadagnato il giocoso soprannome di Gandalf.
«Hai detto di averne passate tante, Casey, quindi... vedi tutto questo come il livello finale, quello più tosto e in apparenza impossibile da superare. Quando sarà il momento, fronteggeremo quel che Olegov deciderà di scagliarci contro e avremo la meglio. Il male potrà pure tornare quante volte gli pare, ma alla fine perderà sempre.»
Casey non riusciva a capire dove l'altro volesse andare a parare. «E allora che senso ha batterlo, se non c'è modo di liberarsene?»
«Ha molto senso.» Sulle labbra di Crystal comparve un sorrisetto beffardo. «Serve a tenere in costante esercizio chi condivide con me la professione di cacciatore, tanto per fare un esempio, e non è poca cosa.»
Casey, suo malgrado, soffocò una debole risata. «Sei un vero cazzone, Hawthorn.»
«Tu non sei da meno. Insomma, ti disperi e ti lamenti quando hai a disposizione l'aiuto del sottoscritto!»
«Vedo che il tuo ego smisurato non ha poi subito molti danni, in questi giorni.»
«Appena avrò depennato Olegov dalla lista di mostri da abbattere prima di crepare, fidati che il mio ego potrà solo crescere a dismisura.»
Leroin inspirò profondamente. «Vorrei chiederti una cosa, ma...»
«Spara, Pel di Carota.»
«Non è che potresti darmi qualche ripetizione su... beh, sul combattimento o roba simile?»
Crystal arcuò le sopracciglia. «Mi stai chiedendo di essere il tuo maestro improvvisato, Karate Kid?»
«Più o meno, Miyagi. Giusto qualche basamento.»
«Vedrò quel che posso fare, ma avremo bisogno di un posto tranquillo e di spazio.»
«C'è un campo dove di solito la squadra di calcio del liceo locale va ad allenarsi.»
«Ottimo. Se andremo lì di mattina presto, nessuno verrà a scocciare.» Crystal si alzò dai gradini. «Mi va di fare qualcosa di normale e avrei giusto un po' di fame. Di solito è Gray a cucinare, ma oggi doveva passare in accademia per delle lezioni importanti, visto che presto dovrà dare degli esami, quindi... beh, sono sì e no a digiuno. Ti va di accompagnarmi?»
Casey ripensò al pessimo piatto di pasta che aveva mangiato solo per semplice testardaggine e ripicca, pur sapendo di aver combinato un pasticcio, e non si fece ripetere due volte l'invito. Voleva prendersi un momento per sé, solamente uno, prima di tornare alla solita routine condita dalla paura nei confronti di Olegov e della vendetta che egli minacciava di scatenare su tutti loro, lui per primo. Si mise in piedi e seguì Crystal verso l'auto di questi; un quarto d'ora dopo andarono a sedersi a un tavolo del diner e pur tentato di concedersi una piccola deviazione alimentare, alla fine optò per prendersi una leggera insalata e del pollo alla piastra. Crystal lo squadrò. «Hai una volontà di ferro, Leroin, lasciatelo dire.»
«Mi sono strafogato, di tanto in tanto, mentre ero in attesa dei gemelli. Non che abbia in fin dei conti messo su chissà quanto peso, ma sto disperatamente cercando di tornare il più possibile in forma.»
Hawthorn annuì appena. «Ho... insomma... ho saputo che lo stronzo che ti ha messo nei casini ora si trova qui, nell'ospedale locale.»
Casey trattenne un lungo sospiro. «Sì, beh... è in coma e non può fare del male a una mosca. E comunque, alla fine, ho compreso il punto di vista di Vargos e penso che lo abbia fatto più per Cora ed Irene che per Dominic in sé per sé. Io sono in debito con entrambe, in enorme debito, e a esser onesto mi sento in colpa perché sono stato io a ridurre Dominic in quello stato. Non l'ho fatto apposta, ma è successo e loro ora stanno male. Lui... lui è stato orribile con il sottoscritto. Mi ha fatto passare mesi di inferno, ma quella notte dell'incidente si trovava lì per aiutarmi. Si è messo in mezzo e ha impedito a suo padre, a quel mostro di Simon, di farmi seriamente del male. Credo di poter considerare i nostri conti in sospeso ormai conclusi e appianati e se anche così non fosse, sono stufo di guardarmi indietro. Non serve a niente, dopotutto, e ho altro a cui pensare.»
Crystal esitò. «Non avrei mai avuto la forza di fare cos'hai fatto tu. Proseguire con la gravidanza e tenere i marmocchi, intendo. Non dopo il modo in cui sono stati concepiti.»
«Inizialmente ero deciso ad abortire, ma quando ho fatto l'ecografia e li ho visti... ho iniziato ad avere dei dubbi e poi, beh... Dominic mi ha rintracciato e ha coinvolto Noah nel casino, perciò non so dirti se sarei andato fino in fondo o meno. La gravidanza mi ha sottoposto a un enorme rischio di salute e sarei potuto morire. Ho vissuto per mesi nel terrore di non farcela e solo Noah mi ha aiutato a tenere a bada la paura e a credere che tutto sarebbe andato per il meglio.»
Crystal deglutì. «Io non ho avuto quel coraggio a prescindere» ammise. «In due occasioni ho preferito voltarmi da un'altra parte e risolvere il problema alla radice. Solo che... uno dei due problemi, di tanto in tanto, torna a perseguitarmi negli incubi. Uno spettro di appena dieci centimetri mi perseguita dove non ho armi con cui difendermi né menzogne da raccontare a me stesso.» Rendendosi conto di aver parlato a ruota libera, si zittì prima di aggiungere altro prendendo fra le labbra la cannuccia e suggendo un lungo sorso di Pepsi dal bicchiere.
Casey sbatté le palpebre. Proprio com'era accaduto con Ariel, capì all'istante l'allusione e ciò che essa celava e, allo stesso modo, avvertì una stretta allo stomaco. Crystal aveva parlato in maniera tutt'altro che distaccata e questo, sommato al discorso che aveva appena fatto, lasciava intendere come avesse realmente preso la faccenda. «Mi dispiace, Crystal.»
Hawthorn, senza guardarlo negli occhi, si strinse nelle spalle. «È stato meglio così. Non sarei ciò che sono adesso se avessi scelto diversamente e ora avremmo uno strego cacciatore in meno all'interno della Compagnia Anti-Olegov. Come puoi vedere, il destino pretendeva ben altro da me e comunque non ci ho mai saputo fare con i marmocchi. Non avrei saputo come prendermi cura di un neonato: ero un ragazzino e i bambini non dovrebbero crescere altri bambini. Considerando che non ho mai avuto granché fortuna nella vita, penso che alla fine gli sarebbe capitato qualcosa di terribile, se io non avessi deciso di risparmiargli una gran brutta vita.»
«Non dire questo.»
«È la pura verità, Casey. Ora come ora sono in paranoia costante che qualche disgrazia possa abbattersi su Grayson da un momento all'altro. Nel caso non lo avessi notato, chi mi sta vicino tende a finire male.»
«Non è vero. Non per colpa tua o perché sei stato tu a volerlo, Crystal. La colpa è di qualcun altro, qualcuno che vuole che tu ti senta così. Le prede migliori sono quelle isolate, ma tu ora non lo sei. E comunque... non è mai troppo tardi per certe cose. Se i figli non sono di tuo interesse, allora è un'altra faccenda, ma se ti ripeti questo solo per confortare te stesso e ignorare altre questioni, lascia che ti dia un consiglio: smettila di incolparti e di pensare che non avrai mai una vita felice. Smettila o il risultato sarà sempre lo stesso.»
Hawthorn inspirò tra sé. «Prima mettiamo fine a questa faccenda di Olegov e poi... vedrò cosa farne della mia vita, sempre che tutto vada liscio» concluse, dando un morso al panino che gli era appena stato servito da un cameriere che non aveva visto durante le precedenti visite al locale: era minuto, probabilmente Omega, ed era stato un tantino maldestro nel posare i piatti delle pietanze sul tavolo. Fu Casey a riconoscerlo, visto che lo aveva incrociato sempre lì quando, il giorno prima, si era recato al diner per fare un saluto a Noah e quest'ultimo gli aveva presentato il nuovo dipendente: Jesse Gardner.
Non appena aveva compreso trattarsi del ragazzo al quale Vargos aveva accennato a lui e a Noah, l'incontro fra lui e Gardner era stato a dir poco imbarazzante. Vargos, naturalmente, si era visto in dovere di raccontargli, con gran difficoltà, della relazione passata fra Jesse e Dominic Tarren e di come quest'ultimo avesse avuto un figlio, a sua insaputa, dal giovane Gardner. In poche parole, dunque, i tre gemelli erano a tutti gli effetti i fratellastri del piccolo Jamie e Dominic, senza volerlo, aveva sì e no dato vita a un autentico e microscopico harem.
Casey doveva ancora abituarsi a quella situazione surreale, al pensiero che Dominic fosse stato in passato capace di amare qualcuno e, tempo dopo, avesse comunque avuto il pelo sullo stomaco necessario a fare quel che aveva fatto a lui.
Aveva parlato con Jesse, si erano confrontati, e quando Gardner si era espresso sul conto di Dominic per Casey era stato come sentir parlare di un'altra persona, non di certo del fratello di Irene. Jesse si era mostrato terribilmente dispiaciuto per quanto accaduto fra le mura di Daffodil Manor e solo dopo aver accettato di bere qualche bicchiere di cordiale insieme a Leroin per mandar giù tutto quanto era riuscito più o meno a metabolizzare tutto quel che riguardava il lato oscuro dell'uomo che aveva amato e, ahilui, amava ancora, tanto da esser tornato a Caverney Town al solo scopo di renderlo parte della vita di Jamie.
Casey non sapeva proprio se provare un velo di pietà nei confronti di Jesse o meno. Sapeva solo di aver maledetto Simon Tarren per aver sottratto a Jesse la possibilità di essere felice con colui che amava e a lui di salvarsi dall'infausto destino che poi gli era piovuto addosso. Per quel poco che poteva saperne, forse Dominic aveva riversato la propria frustrazione per la rottura improvvisa e inspiegabile con Jesse proprio su di lui agendo con estrema cattiveria e crudeltà. Era risaputo, d'altronde, che certe persone fossero capaci di reagire al dolore, al senso di vuoto, accanendosi sul prossimo, su chi magari non c'entrava nulla con le loro personali disavventure. Tutto pur di riempire quel nero e famelico cratere nell'anima. Naturalmente questo non gettava una luce più benevola e clemente su Dominic e Casey ancora preferiva mostrarsi neutrale quando si parlava di quell'uomo. Taceva e lo faceva soltanto per rispetto nei riguardi di Irene e Cora, non di certo verso di lui.
Ad ogni buon conto, stando a quel che Irene gli aveva raccontato e ai resoconti della stessa Cora che Casey andava spesso a trovare, Dominic stava sempre peggio e solo il giorno prima aveva avuto un collasso quasi fatale. Ciò spiegava perfettamente l'aria mesta e palesemente meditabonda di Jesse. Irene, poi, una sera addietro si era recata da lui e Noah in lacrime e sempre piangendo come una bambina li aveva messi a parte della situazione ormai precaria del gemello. Più tardi, dopo essersi messi a letto, lui e Noah avevano parlato della questione e in silenzio, guardandosi negli occhi, si erano ritrovati d'accordo nel pensare che probabilmente avrebbero dovuto presto vestirsi di nero per partecipare a un funerale. Il loro non era pessimismo, ma semplice buonsenso. Si trattava di essere obiettivi e di saper riconoscere le avvisaglie che precedevano una tragedia.
«Chi è quell'imbranato?» chiese Crystal per cambiare discorso, accennando proprio a Gardner e strappando ai pensieri Leroin.
Casey guardò in direzione del ragazzo e rispose: «Si chiama Jesse. Era... insomma, era il fidanzato di Dominic. Sai, il tizio che mi ha impollinato e fatto tante altre belle cose. In fede mia non so cosa possa aver trovato in Dominic per arrivare ad amarlo. So solo che attualmente Jesse si ritrova con un figlio a carico che ha sangue Tarren nelle vene e che probabilmente non conoscerà mai il padre. Con un velo di cattiveria mi verrebbe da dire che forse sarebbe meglio così, ma poi... insomma... mi viene da pensare che si parla pur sempre di un bambino che è dovuto crescere lontano dalla città in cui è nato Jesse perché il nonno paterno aveva minacciato di far sparire entrambi in modo orribile. Una brutta storia, in breve, e sinceramente rispetto Jesse per esser stato abbastanza scaltro da andarsene da Caverney Town prima che Simon mettesse in atto le sue minacce. Vorrei solo esser stato altrettanto furbo e non essermi presentato di nuovo da Dominic, dopo che si era approfittato di me, perché non avevo i soldi per comprare le pillole abortive.» Sospirò pesantemente. «Ogni volta che ne parlo mi sento in colpa verso i miei bambini. Mesi fa li detestavo, li consideravo una malattia che pian piano cresceva dentro di me e minacciava di uccidermi, e ora eccomi qui fra poppate, pannolini e notti bianche trascorse a cullarli. L'unica loro colpa è di essersi ritrovati fra l'incudine e il martello. Vado avanti fingendo che siano i figli di Noah e lui... beh, si sta rivelando un padre esemplare per tutti e tre. Li tratta come se fossero suoi. A volte mi fermo per osservarlo mentre interagisce con loro e ricordo di esser stato davvero fortunato a incontrarlo nel peggior momento della mia vita. È stato un vero fascio di luce nelle tenebre. Mi ha aiutato quando era il primo a trovarsi in una brutta situazione. Noah è fatto così: si fa in quattro per gli altri anche se li conosce da appena cinque minuti.»
Crystal si fece sfuggire un debole sorriso. «Per esservi incrociati solo pochi mesi fa, sembra quasi che vi conosciate da una vita intera.»
«Per certi versi è così, se ricordi la faccenda di cui ti ho parlato. Che io voglia accettarlo o meno, era destino che incappassimo l'uno nell'altro e mi va bene così. Noah è un brav'uomo, è dolce e premuroso, anche se fa battute terribili ed è più disordinato di me!» Casey si sentiva un po' in colpa per aver trattato con una certa durezza Noah prima di raggiungere Crystal alla dependance e anche se poi si erano sentiti per telefono, lo stesso sapeva di avergli riversato addosso la propria frustrazione dimenticando che fosse preoccupato quanto lui per la sicurezza dei gemelli. A volte tendeva a dimenticare di non essere più solo contro il mondo come lo era stato a Daffodil Manor o in prigione e gli dispiaceva quando accadeva proprio con Noah. Noah che una notte sì e l'altra no asciugava le sue lacrime e lo stringeva forte fra le braccia finché il momento di sconforto e silente terrore non era passato. «Allora... tu e Grayson!» disse poi, virando l'argomento altrove. «A parte la questione di Olegov e tutto il resto, come va fra di voi?»
Hawthorn di nuovo si prese del tempo per rispondere sorseggiando la propria bevanda ghiacciata. «Tutto sommato va bene, ma lo vedo che è preoccupato per me e quasi per niente per se stesso e... la cosa mi manda un po' in bestia. Vorrei che pensasse anche alla sua di vita, non solo alla mia. Ho imparato che è inutile proteggere gli altri se poi sei il primo a rischiare come Gagarin e a non curarti della tua sopravvivenza. Da ferito o da morto non puoi aiutare chicchessia, quindi va bene, almeno un po', essere egoisti. Gray, però, è la persona meno egoista che io abbia mai incontrato. Si è preso a cuore sin da subito la mia situazione e non si è tirato indietro quando è saltata fuori la faccenda sulla mia reale natura e tutto il resto. Deve farsi viaggi infiniti avanti e indietro per star dietro agli studi e rimanere al mio fianco, e lo fa senza lamentarsi. Lui... lui mi piace, mi piace molto, ma non mi piace che non voglia saperne di pensare anche a se stesso. Ho paura che in una situazione di estremo pericolo sceglierebbe comunque di aiutare prima gli altri, specialmente me.»
Casey annuì appena. «Diamine, è peggio di Noah, e solo Dio sa quanto quell'uomo sia proprio incapace di non prender sulle proprie spalle i problemi altrui. Fa arrabbiare anche me questo suo lato, ma... devo conviverci e penso che tu debba fare lo stesso con Grayson. Accetta di avere accanto una persona resiliente e abnegante, Crystal. Non puoi cambiare Gray e non puoi impedirgli di preoccuparsi per te. Dovresti solamente provare a trovare un punto d'incontro fra il tuo carattere e il suo, come io sto cercando di fare con Noah.»
«E come?» ironizzò Crystal. «Sono uno stronzo, Casey. Lo hai detto tu stesso e in fin dei conti è la pura verità.»
«Sarai pure uno stronzo, Crystal Hawthorn, ma sei comunque ancora qui nonostante tutto. Sinceramente ho fiducia nell'umanità che fingi di non avere o di non reputare così importante. Sei meno menefreghista di quel che pensi, Crys, e credo che Gray lo abbia capito molto prima di me.»
«Sì, ma... se dovesse accadergli qualcosa, io...»
«Sa badare a se stesso, proprio come te, e la cosa migliore che possiate fare è guardarvi le spalle a vicenda. Per ora, testuali parole tue, non c'è molto altro che si possa fare. Il resto lo si vedrà vivendo, giusto?»
Crystal sospirò e scosse la testa senza replicare, lanciando un'occhiata in direzione di Ariel che, con una certa fretta, era appena entrato nel locale, probabilmente per mettersi al lavoro dopo la giornata di riposo del giorno addietro. Doveva essersi attardato, a giudicare dal fare sbrigativo con cui li salutò entrambi prima di correre a cambiarsi.
Casey sbuffò una lieve risata. «Se solo non sapessi che in realtà è preoccupato quanto noi e ha ben altri pensieri per la testa, mi verrebbe da dire che la sua mente sia ormai del tutto proiettata verso Vargos» commentò con una punta di amarezza.
«Gli ho giurato che avrei fatto di tutto per impedire a Olegov di fare casino qui e di toccare le persone che gli sono care, ma ora... insomma, mi rendo conto della responsabilità enorme che mi sono addossato» lo rimbeccò Crystal con voce inquieta.
Casey fece un debole cenno con la testa. «Non si possono salvare tutti e credo che questo lo sappia bene anche lui, ma è comunque bello che tu abbia provato a rassicurarlo. Ariel ti è andato a genio sin da subito, l'ho notato.»
«Sì, beh... non è uno stronzo come vorrebbe far credere alla gente. È stato fra i primi a dirmi che qui avrei trovato un valido rifugio da Olegov e forse persino una nuova casa, un posto dove stabilirmi e metter radici.»
«In certi ambiti lui e Vargos si somigliano» osservò Leroin dopo aver sorseggiato dell'acqua. «Certo, Ariel è decisamente brusco e diretto, non si fa problemi a mandare al diavolo qualcuno, ma sa prendersi a cuore certe situazioni e credo che lo abbia fatto anche con la tua. Personalmente ci ho messo poco ad affezionarmi a lui.»
«Mi ha spiegato come funziona con le trasformazioni. Sai, no, quando gli Alphaga si tramutano in animali. Tu quale forma assumi?» chiese incuriosito Crystal.
Casey si strinse nelle spalle. «Una volpe» replicò, sorridendo di sbieco. «Scontato, lo so bene, ma in fin dei conti le nostre sembianze umane riflettono quasi sempre ciò che siamo dentro.»
«In effetti hai tutta l'aria di essere una volpe» lo punzecchiò beffardo Hawthorn. «Il tuo fidanzato, invece?»
«Un lupo. Non è passato molto tempo da quando è riuscito a trasformarsi per la prima volta e si è comportato abbastanza bene, considerando che all'inizio per molti di noi è difficile discernere l'istinto animale da quello razionale.»
«E... insomma... fa male? So che per altri mutaforma, come i licantropi, la metamorfosi è molto dolorosa, specialmente per i più giovani.»
«Affatto. È liberatorio, in realtà. In quel momento è come se le porte di una gabbia nella quale fino a quel momento sei rimasto costretto si spalancassero e tu potessi uscire all'aria aperta e respirare a pieni polmoni la libertà. È inebriante, almeno per ciò che ricordo. Non ho più potuto trasformarmi da quando... beh, da quando ho realizzato di avere dentro di me dei coinquilini abusivi, come chiamavo all'inizio i piccoli. Il prossimo mese, tuttavia, dovrò farlo per forza. Ci sarà la luna piena e dovrò ritrasformarmi per recuperare le forze che ancora, a volte, sento mancarmi.»
Crystal, da bravo strego qual era, sapeva tenere il conto delle fasi lunari e ricordò subito quando ci sarebbe stata la luna piena il mese successivo: il secondo giorno di marzo e il trentuno. «Quando pianifichi di farlo?» chiese. «Se vuoi... insomma... potrei tener d'occhio i marmocchi mentre tu sei via per scorrazzare nei boschi e... non lo so, dare la caccia alle lepri e roba simile.»
Casey sghignazzò. «Non faccio nulla del genere!» esclamò divertito. «Comunque... in teoria contavo di lasciare i bambini a mia madre e a mio nonno, visto che Noah probabilmente mi seguirà, ma saresti gentile a tener d'occhio per me la situazione. Più sono le persone che controllano i gemelli e meglio è, di questi tempi.» Lo aveva sorpreso la disponibilità di Crystal, ma si trattava di uno stupore positivo. «Grazie, Crys.»
«Se non altro avrò qualcosa da fare mentre attendo la tempesta e per una volta non dovrò sguainare la spada né addentrarmi in qualche putrida palude. Un compito tranquillo e pulito non può che farmi bene.»
Ragos sbatté le palpebre, incrociò le braccia sul torace e squadrò con aria comicamente smarrita e attonita il fratello maggiore. «Vorresti che ti dessi dei consigli su cosa regalare ad Ariel per il suo compleanno? E ad appena un giorno di distanza?» riassunse in breve il confuso discorso che Vargos per metà aveva espresso biascicando e per l'altra metà, invece, aveva affidato a gesticolazioni impacciate e poco comprensibili. «Mi prendi in giro, vero?»
Vargos lo guardò con aria disperata. «No, affatto. Insomma... avevo... avevo pensato a dei fiori, m-ma...»
Ragos sghignazzò. «Non mi sembra il tipo adatto al quale regalare un mazzo di rose, fratello!» esclamò divertito, immaginandosi Aguillard intento a usare il dono in questione come cappello improvvisato per abbellire la bionda chioma di Vargos. «Ma andiamo! Un po' di fantasia!»
«Ho pensato anche ad altre cose, ma ogni opzione mi sembra peggiore dell'altra» ammise il giovane governatore di Mythfield, abbattuto. «Sono settimane che ci rimugino e cerco di capire cosa potrebbe piacergli o meno.»
«E non hai ancora tratto delle conclusioni? Di solito sei un cervellone e ora ti perdi in un bicchiere d'acqua!» Ragos scosse la testa e alzò gli occhi al cielo mentre si versava in gola una sorsata di caffè. Quando si era recato a casa del fratello su richiesta di quest'ultimo, ovviamente non aveva risposto che avrebbe ucciso per un po' di whiskey, appena gli era stato domandato se volesse qualcosa da bere. Stava cercando di smettere o almeno di moderarsi e comunque Vargos detestava gli alcolici a priori. Ora che comunque conosceva l'argomento della conversazione urgente alla quale suo fratello aveva accennato per telefono, però, volentieri avrebbe vuotato un barile intero di qualunque bevanda esistente capace di metterlo al tappeto per una settimana. Aveva cercato di andare il più d'accordo possibile con Ariel e avevano persino parlato, un giorno, per provare ad appianare gli antichi dissapori, ma visto e considerato che erano due teste calde, ci sarebbe voluto ancora un bel po' prima di ottenere risultati considerevoli. Per il momento si limitavano a tollerarsi a vicenda nel nome del quieto vivere e, soprattutto, di Vargos che pareva tenerci molto a una loro rappacifiazione.
In tutta franchezza Ragos ci stava seriamente provando più per lui, per Vargos, che per reale volontà di non guardare più Ariel con la voglia malsana di prenderlo a sberle o strangolarlo.
«Avevo pensato a un libro o a qualcosa del genere, ma l'altro giorno ha ammesso di non leggere più di tanto. I suoi turni al diner sono cambiati e quasi sempre gli tocca lavorare fino a tarda sera e quindi... beh, spesso è troppo stanco per leggere.»
«Ha senso, in effetti» concesse Ragos. «Non porta gioielli né altro, perciò scarterei a priori diamanti e compagnia cantante. Lo farebbero solo sembrare ancor di più una batton...», si chetò all'occhiata scandalizzata e alquanto offesa che Vargos subito gli scoccò all'insulto mancato che aveva rivolto ad Ariel per pura e semplice abitudine. «Va bene, va bene. Scusa.» Sbuffò gonfiando le guance e si scompigliò i capelli. «Boh. Potresti puntare su una serata romantica e stronzate così, suppongo.»
«In che senso?»
«Porco mondo, Vargos!» Il minore degli Elimar si passò le mani sulla faccia, esasperato. «Sul serio, fratello, dove diancine sei stato fino ad ora? Sotto a un sasso? Cristo!» Era incredibile quanto poco ne sapesse Vargos sul romanticismo. «Cena fuori o a casa di uno dei due a lume di candela, luci soffuse, musica di sottofondo e cose del genere! Oppure una serata al cinema! Armati di inventiva, su!»
Assurdo che proprio lui, con i retroscena che aveva, dovesse trovarsi in quel momento a dare delle dritte a suo fratello circa quale regalo fare o meno ad Ariel Aguillard.
Vargos abbassò lo sguardo e non poté evitare di sentirsi un completo disastro non solo come fidanzato, ma anche come fratello. Sarebbe toccato a lui dare consigli in quel genere di cose a Ragos, non il contrario. «Scusa» mormorò. «So che questi argomenti per te non sono piacevoli, ma...»
«Non devi sentirti in colpa» lo interruppe Ragos, schiarendosi la voce e rendendosi subito conto di aver dato l'impressione sbagliata. «Insomma... solo perché a me è andata da schifo non significa che tu non debba avere una vita tua e che io non possa rendermi utile in vesti di fratello. È successo quel che è successo e ora sei tu ad avere finalmente una possibilità per essere felice e non devi sentirti in colpa per questo, va bene? Non è giusto ed è ora che tu inizi a pensare anche a te stesso, Vargos.» Sorrise di sbieco. «Ora come ora non so se sarei felice di avere per cognato Ariel, un giorno, ma non nego che sarebbe fico sentirmi chiamare da un nanerottolo biondo ‟zio Ragos"!» Vide il fratello maggiore farsi rosso come un pomodoro in viso. «Ma andiamo! Se non parliamo fra noi di queste cose, allora con chi dovremmo farlo?» Ricordava di aver chiesto a Vargos, a diciassette anni, se avesse avuto magari un profilattico di riserva, visto che quella sera non aveva avuto il tempo di procurarsene una confezione e aveva programmato di uscire con una tizia e poi, ovviamente, di andare a letto con lei, e Vargos, profondamente a disagio, biascicando aveva risposto di non avere preservativi in casa. La scena in sé per sé era stata comica, ma era da allora che Ragos non faceva che domandarsi se suo fratello avesse mai avuto almeno una notte di sesso sfrenato con qualcuno. Considerando le rare volte in cui si era preso un attimo di tempo per uscire con chicchessia, però, e visto il suo costante imbarazzo e la sua palese ignoranza in merito a un bel po' di questioni, la risposta al quesito era evidente. «State insieme da quasi tre settimane e ancora non c'è stato niente?» incalzò.
Ancor più in imbarazzo, Vargos si strinse nelle spalle e non osò rispondere.
Il minore degli Elimar sospirò. «Ora sì che capisco come mai Stronzilla sia così intrattabile, negli ultimi giorni. Insomma...!» Lungi da lui voler dare ad Ariel del promiscuo o simili, ma era chiaro che a differenza di Vargos di esperienze ne avesse avute a sufficienza, tanto da esser stato messo di fronte a una situazione che aveva probabilmente fronteggiato fino ai quindici anni. Era stato allora che era palesemente cambiato e aveva dimostrato di far molto più caso al proprio aspetto e a uscire con tanta, tanta gente. Non doveva esser semplice, quindi, passare da nottate dinamiche con questo o quest'altro tizio al condurre intere giornate all'insegna della più monastica e castrante purezza. «Beh... prima o poi dovrete arrivarci» aggiunse. «Voglio dire, state insieme da poco, è vero, ma se le cose continuassero ad andare bene fra di voi e a svilupparsi, un giorno o l'altro quel momento arriverà, Vargos. Poni, ad esempio, che un giorno decideste di sposarvi. Sul serio vorresti compiere il grande passo senza averlo mai neppure sfiorato in quel senso? Siamo nel duemiladiciotto, aggiornati!»
«L-Lo so, ma...» Vargos deglutì a fatica. «N-Non so come... e poi lui... voglio dire... ha più esperienza di me e... non vorrei che... capisci, no?»
«Cosa? Hai paura di fare cilecca?» incalzò Ragos, inarcando un sopracciglio. «Puttanate! Fidati che noi Alfa, in tal senso, non falliamo mai. Ti basta dirgli la verità e...»
«Lo sa già, in realtà.»
«Beh, meglio ancora. Se sa qual è il problema, allora saprà adattarsi. Se gli piaci così tanto, allora capirà e... insomma, ci andrà piano con te.»
Vargos scosse il capo tra sé. «Comunque... ora non è questo a contare. Domani è il suo compleanno e vorrei fosse una giornata speciale per lui. Insomma... ha detto che non lo festeggia più da un po' di tempo e che per lui è un giorno qualsiasi, ma vorrei... non lo so, che fosse almeno un'occasione per fargli capire che tengo davvero a lui. Che per me si tratta di una ricorrenza speciale, visto che parliamo del giorno in cui è nato.»
Ragos non se la prese per il suo aver voluto palesemente sviare il discorso riguardo al sesso. Poteva capire che non fosse un argomento semplice da affrontare per suo fratello e non lo biasimava. Era così per tutti, specie all'inizio. «Prendi quel dannato cellulare e invitalo a uscire nel ristorante più elegante dei dintorni. Se le cose stanno così, allora credo che per lui sarà sufficiente una serata fuori insieme a te, in tua compagnia. Per il resto... si vedrà.»
Vargos si fece coraggio e decise di seguire il consiglio di Ragos. Scrisse un messaggio ad Ariel e gli propose la fantomatica uscita assieme, ma ci vollero diversi minuti perché ricevesse una risposta e quando questa arrivò, si rivelò tutt'altro che di buon auspicio. Peggio, anzi. «Credo... credo che dovrò rimandare» disse, abbattuto e inquieto al tempo stesso. «Ha risposto di non sentirsi bene e che preferisce rimanere a casa.»
Ragos sospirò pesantemente. «Linguaggio in codice vecchio come il mondo. Sta per "sono in calore e non ho voglia di vedere nessuno perché sono in condizioni pietose".»
«Dici che è per questo?»
«Quando mi è capitato di ricevere questo genere di risposte, quasi sempre era per tale ragione.»
«Meglio se vado da lui, allora.»
«Meglio di no, a parer mio.»
Vargos, che si era già alzato con tutta l'intenzione di uscire e recarsi dal fidanzato, si bloccò. «Perché? Prendo sempre gli Inibitori, no?»
Il minore dei due soffocò una risata. «Sì, è la stessa risposta che avrei affibbiato a Rory se lui fosse riuscito a dirmi che era gravido» commentò con una punta di nera ironia. «Gli Inibitori, in certe situazioni, non servono a granché. Ovvio, non ti riduci in uno stato bestiale e quant'altro, ma questo solo con gli Omega con i quali non hai un legame affettivo o amoroso. Se si tratta di qualcuno che ti piace da impazzire, fidati che la frittata la si fa comunque e Ariel non mi pare il tipo che per farti una sorpresa ti mostrerebbe una tutina da neonato per comunicarti che ha la pagnotta nel forno. Piuttosto saresti tu a finire nel forno e no, non parlo delle sue leggiadre grazie. Se vai ora da lui, non so bene cosa potrebbe uscir fuori da una simile stronzata. Lascialo in pace, dammi retta. Quando un Omega è in calore non vuole rotture di scatole. Ci pensano già tutti i sintomi a rendergli la vita un inferno e a meno che tu non voglia dargli un aiutino ben diverso e abbreviare il suo ardente calvario, faresti bene a concedergli due o tre giorni di spazio,»
Vargos sospirò e non resse all'impulso di lanciare un'altra occhiata preoccupata allo schermo del telefono né di chiedersi se fosse la cosa giusta da fare lasciar perdere. Il dubbio che Ariel avesse dimenticato di nuovo di procurarsi i Soppressori lo tormentava e se era così, come poteva ignorare la faccenda? Stavano insieme e questo non era che l'ennesimo incentivo a correre il rischio e ad accertarsi che Ariel avesse tutto ciò di cui necessitava in quel momento.
Quando Ragos lo vide riporre nella tasca dei jeans il cellulare e lo sentì dire che sarebbe uscito, capì che il suo consiglio non sarebbe stato neppure lontanamente seguito. Si augurava solo di non dover vedere, a distanza di qualche mese, Ariel andarsene in giro con il ventre ingrossato dalla presenza di un Elimar in miniatura. Il solo pensiero di sopportare quell'isterico e le sue eventuali turbe emotive ogni qual volta lo avesse incrociato lo faceva semplicemente rabbrividire. Sarebbe stato decisamente troppo per i suoi poveri nervi già abbastanza provati.
Visto che possedeva una copia delle chiavi, per Vargos non fu difficile entrare nell'appartamento di Ariel. Appena ebbe chiuso la porta dietro di sé lo chiamò, ma non ottenne risposta. Girò per le stanze e non lo vide né in cucina né in salotto o nel piccolo studio adibito da Aguillard come sede per le ricerche costanti che stava conducendo sul conto di Demetrius; a discapito del volere di Ellis che aveva espresso il desiderio di non vedere il figlio con la divisa da poliziotto addosso, Ariel si stava rivelando comunque un detective in erba discretamente brillante e operoso.
C'era molto silenzio, ma non era quel silenzio tipico di una casa vuota. Ariel, semplicemente, non era nei paraggi e Vargos lo trovò solo quando infine giunse nella camera da letto: era avvolto nelle coperte, anzi proprio imbozzolato in esse, e ciononostante era palese il lieve tremore che lo attraversava a intervalli. Le imposte erano chiuse e neppure una bava di luce filtrava da esse.
No, Ariel non stava decisamente bene e onestamente Vargos sapeva di aver fatto la scelta giusta decidendo di andare e rischiare. Se non si stava accanto a una persona cara in momenti simili, allora la vicinanza non era poi così stretta. Accese la luce dall'interruttore della parete, si avvicinò e si sedette sul bordo del letto. «Ariel?» ritentò, cercando di tenere a mente che l'altro non fosse moribondo né malato, ma semplicemente in preda a qualcosa che purtroppo ogni Omega era costretto a tollerare una volta al mese. Questo, comunque, non lo faceva sentire meglio né meno in ansia.
Ariel, compiendo probabilmente uno sforzo non indifferente, si rigirò nelle coperte e socchiuse le palpebre per metterlo a fuoco. Era ovvio che non si fosse aspettato una sua visita. «Che ci fai qui?» chiese in un sussurro, negli occhi una malcelata apprensione. «Non dovevi venire.»
«Lo so, ma non me la sentivo di lasciar perdere. Volevo assicurarmi che stessi bene» ammise Elimar. Come al solito, quando Ariel era vicino a lui, il cuore gli martellava contro le costole. «Sei in queste condizioni da tanto?»
«No. Da ieri sera» replicò rauco Ariel con una smorfia. «Ho provato a prendere una pillola, stamattina, ma ho avuto un attacco di nausea poco dopo e ho rimesso tutto, compreso il farmaco. Cazzo.»
«Vuoi che vada a prendertene un'altra? Te la porto subito, se te la senti di riprovarci.»
«Vorrei solo che non ti trovassi qui, scusa la schiettezza.»
Vargos scosse il capo e abbozzò un lieve sorriso. «Io sto bene, vedi? E poi assumo gli Inibitori, te l'ho detto. Non succederà niente e almeno potrai parlare con qualcuno e distrarti un po'.»
«Non puoi saperlo.» L'ultima volta che Ariel aveva udito qualcuno dirgli che non sarebbe accaduto nulla grazie agli Inibitori, era rimasto fregato e aveva perso per giunta l'affetto e la stima di suo cugino. In tutta franchezza non se la sentiva di rischiare e mentre l'ex-ragazzo di suo cugino era stato una semplice fiamma passeggera, ciò che lui provava nei riguardi di Vargos andava ben oltre una cottarella, uno sfizio che bramava togliersi a tutti i costi. Già in condizioni normali era stato sul punto di osare di più, ma ricordando che Vargos fosse praticamente un novellino impacciato, si era detto di aspettare che fosse lui a fare il primo passo e di dover portare pazienza. Ora come ora, tuttavia, non era affatto in condizioni normali e gli era sufficiente passare in rassegna la figura di quell'uomo per avvertire, al basso ventre, un fisico e logorante richiamo, una brama che sconfinava nel dolore. In poche parole, la natura di Vargos lo ammaliava come il canto di una sirena e lui non era abbastanza in sé da rendersi sordo ad esso.
Lo voleva, diamine se lo voleva, ma... non così, non mentre il suo corpo era in preda a un autentico squilibrio di ormoni e tutto dentro di lui gli sussurrava di cedere all'istinto e porre fine allo strazio.
Serrò le labbra e gli occhi all'ennesimo crampo al basso ventre. In realtà, però, si avvicinava molto di più a un senso di vuoto che disperatamente voleva esser curato e guarito. Un vuoto che faceva dannatamente male.
Nel frattempo Elimar, per un momento, si distrasse e si chiese se Ariel, per sbaglio, non avesse esagerato con la temperatura del climatizzatore. Faceva un po' caldo, là dentro, tanto che volentieri si sarebbe tolto la giacca. «Dove... dove tieni i Soppressori?» chiese, schiarendosi la voce fattasi di colpo rauca.
Ariel lo squadrò in silenzio, come se lo stesse tenendo d'occhio. Aveva il respiro accelerato come chi era tiranneggiato da una febbre piuttosto alta e dalle sue labbra socchiuse il respiro giungeva al pari di una lontana e debole brezza. Anche in un momento simile non cessava di essere bello come un miraggio. In realtà, constatò con un nodo allo stomaco Vargos, sembrava ancor più stupendo del solito. I suoi occhi color acquamarina, davvero simili a suddette gemme, scintillavano febbrili e in essi era ben distinguibile una tale sofferenza da far stringere il cuore. «Esci almeno da questa stanza. Solo per qualche minuto» insisté Aguillard per motivi noti solamente a lui e ignoti invece a Vargos che, ancora una volta, scosse la testa. «Se non ti dò una mano in un momento del genere, allora...»
Ariel cercò di contare fino a dieci, ma alla fine scostò le coperte e a fatica si tirò su a sedere, squadrando torvo il suo neo-fidanzato. «Nella... nella mensola del bagno, ecco dove sono i Soppressori» spiegò con voce rotta, quasi furente. «Anche se francamente vorrei essere aiutato in ben altra maniera, visto che ora stiamo insieme!» Solo quando ormai aveva dato fiato alla bocca si rese conto di quel che aveva detto. Serrò le palpebre. «Io... mi dispiace, va bene? Scusa. Non sono in me, adesso. Ho crampi tremendi e ho di nuovo la nausea, per non parlare del resto, quindi... scusa. Non è colpa tua.» Si passò una mano tremante fra i lunghi capelli che erano madidi all'attaccatura, dato che sudava come se stesse spurgando un febbrone da cavallo. «Pensavo avresti capito al volo e che non saresti venuto qui. Avrei dovuto specificare meglio... la situazione.»
Perfetto, si disse. Ecco di nuovo l'altalena di emozioni entrare in funzione; gli era tornata la voglia irrefrenabile di piangere come un bambino. Odiava il calore e lo odiava ancora di più quando lo portava a passare da uno stato d'animo a un altro del tutto opposto. Era per questo che avrebbe voluto che Vargos fosse rimasto a casa: per non farsi vedere proprio da lui in quello stato, non solo per il rischio in sé per sé. «S-Sto bene, okay?» disse tra i singhiozzi, scostandosi non appena Elimar cercò di accarezzargli la parte alta della schiena per confortarlo. Non voleva che lo toccasse perché avrebbe solamente peggiorato la situazione. Solo nell'esser stato sfiorato un secondo aveva avvertito una specie di lieve scarica elettrica attraversarlo da cima a fondo e una debole contrazione bistrattare il suo utero impazzito. Raccolse fra le braccia le ginocchia, sperando che in tal modo avrebbe mitigato quei tremendi sintomi. «Ho... ho solo bisogno di riposare e poi starò meglio. Solo... t-ti prego... non toccarmi, Vargos.»
Vargos deglutì e il suo sguardo vagò apprensivo per la stanza come se lì, da qualche parte, avrebbe presto trovato una soluzione a quella situazione di stallo. Posò infine gli occhi nuovamente su Ariel. Gli faceva male vederlo così.
Si umettò le labbra e poi, dopo aver esitato a lungo, si fece coraggio e chiese: «C-Che cosa devo fare?»
Ariel, che nel frattempo era tornato a stendersi e giaceva su di un fianco in posizione semi-fetale e in preda a tremori più violenti che mai, replicò: «Te l'ho detto: prendimi i S-Soppressori in bagno e poi torna a...»
«No, n-non intendo quello» balbettò Elimar. «Insomma...», incrociò lo sguardo di Aguillard e lo pregò, in silenzio, di capire al volo dove volesse andare a parare. Se per vederlo stare meglio, davvero meglio, doveva superare la paura e la consapevolezza di esser profano in certi ambiti, allora lo avrebbe fatto. Continuava a pensare a quel che aveva detto Ragos e in fin dei conti suo fratello aveva ragione: non si poteva trovare sempre una scusa davanti a determinate questioni e sapeva bene che molte coppie, quando per un Omega giungeva il calore, sceglievano di risolvere il problema alla vecchia maniera, pur prestando attenzione e ricorrendo alle dovute precauzioni.
Ariel capì. «Prima non dicevo sul serio. È stato il nervoso a farmi parlare a vanvera» cercò di rassicurarlo, benché sapesse che non era del tutto la verità, ma si era ripromesso di andare per gradi con Vargos e di non affrettare niente, così come di di concedergli del tempo. «Va bene così, credimi.»
«N-Non pensare a me» disse l'altro, cercando di spiegarsi. «Se... se può aiutarti a stare meglio, almeno per un po', allora lascia che faccia un tentativo. Non ho esperienza, è vero, ma se vuoi, posso comunque provarci.»
Aguillard si passò due dita sugli occhi. Ci mancava solo quello. «Senti... se deve accadere qualcosa del genere fra me e te, vorrei che avvenisse in circostanze diverse e perché sei tu per primo a volerlo, non per fare un favore al sottoscritto. Capisci cosa intendo?»
Ancora una volta Vargos parlò e lo fece senza riflettere, lasciando che per una volta fosse il cervello a tacere: «Ma io lo voglio, Ariel. Tu... tu sei... sei meraviglioso. È... s-solo che... non so cosa fare e... i-insomma, non vorrei farti male». Sentiva le guance ardere come se fosse rimasto sotto il sole d'agosto per ore intere, ma non gli importava.
«Oh, Vargos...»
«Dimmi cosa fare e lo farò» concluse Vargos, implorandolo. Non era del tutto ignorante e tutti sapevano che i sintomi del calore si affievolivano quando un Omega decideva di curarli in un modo ben preciso, quello che il loro corpo tanto anelava. Alcuni sostenevano che fosse un rimedio ancor migliore dei Soppressori e che concedesse un paio di giorni di respiro a chi, come Ariel, soffriva davvero troppo per tollerare quello strazio ogni mese.
Ariel esitò, poi si sporse e gli prese il viso fra le mani per far sì che si guardassero negli occhi. Gli sorrise con una dolcezza che mai aveva riservato al prossimo fino ad allora. «Prendi quelle pillole, un bicchiere d'acqua e poi resta qui finché non mi sentirò meglio» decise infine. «Non sei obbligato a dimostrare niente. Non a me. Fa' quel che ti ho chiesto, Vargos. Mi basta averti qui con me.» Fu arduo per lui baciarlo e reggere allo smodato impulso di stringerlo a sé e trascinarlo giù nel letto per fare cose ben diverse dal buttare giù una pasticca, ma ci riuscì. Riuscì a resistere e a scostarsi, a carezzargli la guancia e ad allontanare le dita. «Vai. Ti aspetto qui.»
Vargos esitò, poi si convinse e si alzò, dirigendosi alla porta della stanza. Faceva caldo, accidenti... dannatamente caldo.
Si fermò sulla soglia e si passò il dorso della mano sulla fronte e rimase attonito nel constatare di averla sudata. E quel profumo che aleggiava nell'aria...
Era floreale e intenso, tanto da far girare la testa. All'inizio aveva provato a non farci troppo caso, ma ora gli pareva di trovarsi in una stanza addobbata ovunque da lussureggianti fiori che spandevano ovunque il loro inebriante e stordente sentore.
Il suo cuore non smetteva di battere all'impazzata. Sembrava un tamburo di guerra.
Serrò appena, ma con forza, le dita dell'altra mano sullo stipite, poi si voltò e tornò indietro; mentre lo faceva si tolse la giacca e comprese, grazie all'assenza di essa, di avere la pelle d'oca sulle braccia nude che sbucavano dalla T-shirt.
Ariel lo squadrò con aria perplessa. «Perché sei tornato indietro?» chiese, cercando di non fare caso neppure per sbaglio ai bicipiti scolpiti del coetaneo né al suo torace da atleta avvolto nella scura stoffa della maglietta. Ci provò con tutto se stesso, ma non fu semplice come lo era stato fino a pochi attimi prima. C'era qualcosa di diverso, di nuovo nello sguardo di Elimar che, a guardarlo bene, aveva l'aria di uno appena tornato da una lunga e faticosa maratona.
Non poteva essere, si disse Aguillard, senza smettere di fissarlo mentre la distanza fra di loro andava diminuendo. Se lo ripeté anche quando lo vide, dopo un breve attimo di esitazione quasi fanciullesca, quella tipica di chi non era solito fare cose del genere di fronte ad altri, privarsi della maglietta e mostrare l'ampio e virile petto che si sollevava e abbassava con lieve e appena percepibile affanno.
«Ne abbiamo già parlato» lo apostrofò, ripetendosi di non andare fuori rotta. Quella situazione si stava complicando e rischiava di sfociare in un gran bel disastro. Desiderava quell'uomo. Dio, se lo voleva. In quel momento, poi, e nello stato in cui si trovava, avrebbe ucciso pur di poter averlo sopra di sé, dentro di sé, ma non così. Era troppo rischioso. «Non devi sentirti costretto a...»
Nessuno seppe mai che cosa Vargos non fosse costretto a fare. Le labbra di quest'ultimo, infatti, troncarono a metà la frase di Ariel. In un primo momento Aguillard si ripeté che quella fosse una pura follia e di dover mostrare maggiore determinazione, ma quelle labbra sulle sue ebbero ben presto il medesimo effetto della benzina gettata su un fuocherello che divampò e divenne in pochi attimi il principio di un incendio.
Con un debole e deliziato lamento l'Omega ricambiò il bacio e avvolse le braccia attorno al collo del coetaneo. Avvertì il torace muscoloso di Vargos sfiorare il suo terribilmente sensibile e reattivo e a quel punto sulla sua ragione calò un denso, buio velo che annichilì ogni traccia di buonsenso. Lo attirò verso di sé, in basso, e lo intrappolò fra le proprie gambe. Ebbe un lieve sussulto che lo costrinse a interrompere l'effusione quando avvertì qualcosa premere con determinata ostinazione contro il suo bacino, proprio laddove l'incendio che lo consumava aveva origine e si palesava sotto le sembianze di scivolosi e cristallini effluvi che avevano ripreso a colare tra le sue cosce, a spandere la sua essenza tipicamente floreale e fatta appositamente per attirare, come un profumato fiore, l'ape che avrebbe avuto l'onore di scivolarvi dentro per raccoglierne il polline e trasformarlo in dolce nettare.
Col cuore in gola e con un'urgenza che ormai non poteva più essere repressa Ariel mandò al diavolo tutto quanto, si portò le mani ai pantaloncini del pigiama e li fece scivolare in basso, privandosene infine del tutto con un secco gesto del piede e, insieme ad essi, anche della biancheria al di sotto ormai di mero impiccio. «L-L'hai voluto tu» biascicò. Di solito era sempre spigliato e privo di pudore, eppure ora non riusciva a guardare Vargos negli occhi senza la consapevolezza che sarebbe arrossito come una scolaretta e forse, addirittura, avrebbe finito per bloccarsi e andare nel pallone, eccitazione a parte.
Armeggiò con la sua cintura, ma Elimar lo fermò. «F-Faccio io, tranquillo.» Un minuto dopo riuscì a sbottonare i jeans e a far scivolare in basso la zip. Dal canto proprio stava agendo grazie agli input di Ariel e anche a qualcos'altro, un istinto che mai fino ad allora si era palesato. L'unica cosa di cui era consapevole era che fosse trascorso diverso tempo dall'ultima volta in cui i pantaloni erano diventati in un attimo scomodi e troppo stretti. In tali circostanze aveva sempre provveduto per conto proprio a risolvere la faccenda e grazie agli Inibitori, alla fine, aveva trovato una soluzione al problema, ma ora... ora si sentiva bruciare dentro. Ardeva e gli pareva di trovarsi sull'orlo del baratro e una parte di lui, irragionevole e scalpitante, insisteva nel sussurrargli che l'unico modo per evitare la detonazione fosse cedere all'istinto che lo incoraggiava a proseguire.
Ariel gli sfiorò una guancia e quel gesto riuscì a farlo calmare, a evitare che perdesse la bussola completamente e, soprattutto, che finisse per andare nel pallone. Era in piena confusione e non sapeva bene dove mettere le mani o come muoversi. Si erano spogliati, ma ora?
Lo attraversò un fremito quando Ariel, cercando di essere il più delicato possibile malgrado l'impazienza che lo stava logorando, fece scivolare una mano lungo il suo plesso solare e poi dentro i suoi boxer; Vargos sentì le dita morbide e calde del fidanzato avvolgersi attorno alla sua virilità e iniziare ad accarezzarla, a rivolgerle attenzioni che, complice la vista di quegli occhi verdazzurri ardenti e ipnotici, lo indussero a sciogliersi, a serrare le palpebre e concentrarsi sul piacere che che stava provando. «Ariel...» sospirò in estasi, esponendo maggiormente il collo ai baci che Aguillard aveva preso a posare proprio su di esso. Credeva di iniziare a comprendere molto meglio la domanda che Ariel, settimane prima, gli aveva posto: come si poteva resistere a tutto ciò?
Non era esattamente come fare da soli. Era diverso e molto, molto meglio, e non si sentiva affatto a disagio. Le attenzioni di Ariel lo deliziavano, lo inebriavano, lo inducevano a volerne ancora. E quel profumo... Dio, quel profumo...
Riaprì gli occhi e in quello stesso istante schiuse le labbra, pronto a emettere un gemito più intenso dei precedenti, a lasciarsi andare e a varcare le soglie dell'apice, ma proprio allora Ariel esercitò una lieve, ma decisa, stretta alla base del suo membro e ciò fece arretrare l'orgasmo, come se Aguillard ne avesse tirato le briglie.
«Devi allenarti un po', lasciatelo dire» lo punzecchiò Ariel. Stava sondando il terreno per capire se Vargos si sentisse realmente pronto o meno per il resto. Averlo visto in quello stato di abbandono, poco prima, lo aveva decisamente distolto dall'impellente bisogno che avvertiva di passare all'artiglieria pesante. Non avrebbe permesso all'istinto di avere la meglio sull'inesperienza del suo partner.
«Se vuoi un consiglio... a noi Omega piace qui, invece.» Gli prese una mano, conducendola lungo il proprio torace e poi in basso, ancora e ancora, finché Elimar non avvertì l'intenso calore che regnava fra le sue gambe e, in special modo, dentro il suo corpo. Caldo e umido, parve accoglierlo sin da subito come avrebbe fatto un padrone di casa abituato a ricevere un ospite. Vargos sentì le dita scivolare dentro Ariel mentre questi le guidava e si lasciava sfuggire dei gemiti sempre più lascivi che alle sue orecchie risuonavano come un canto ammaliante, un canto che gli stava infondendo sicurezza. «Non puoi farmi male mentre sono in queste condizioni, non credi?» disse infine Aguillard, sorridendo di sbieco fra i sospiri e scivolando più in basso col bacino per dargli più spazio di manovra e indurlo ad approfondire la penetrazione, a esplorare il suo corpo per conoscerlo meglio.
Vargos deglutì a fatica. Gli facevano male le gengive per via dei canini che si erano fatti più accentuati e stava provando in ogni maniera a non badarci né a permettere al panico di avere la meglio. L'eccitazione era tornata e per quanto si stesse impegnando a porle un freno, a ripeterle di aspettare, cominciava comunque a sconfinare nel dolore, ma non si sentiva ancora mentalmente pronto.
Provando a ripetere i movimenti compiuti con l'aiuto di Ariel, spinse ancora più in profondità e con cautela le falangi nelle membra del coetaneo che si inarcò e serrò il suo braccio fra le cosce, imprecando con voce strozzata. Elimar osservò il suo torace messo in mostra da quella posizione e si focalizzò, sì e no ipnotizzato, sulle rosee areole che sembravano implorarlo di essere sfiorate, di ricevere attenzioni.
Si chinò e posò sopra quella di sinistra un delicato bacio e Ariel affondò una mano tra i suoi capelli come a voler incoraggiarlo a continuare; tale gesto che sapeva non solo di urgenza e di preghiera, ma anche di dolcezza, portò Vargos a indugiare su quel punto ben preciso senza usare i denti per paura di far del male ad Aguillard.
Nel fare tutto ciò avvertì il corpo del coetaneo serrarglisi attorno e contrarsi, attirarlo ancora più in profondità come il gorgo di un fiume avrebbe fatto con un'imbarcazione.
Ariel, con mani malferme, gli cinse il viso. «F-Fallo, ti prego» lo implorò. «Prendimi, Vargos. F-Fallo smettere!» Stava bruciando e non avrebbe resistito un istante di più.
Non gli era mai capitato di soffrire degli effetti del calore in modo così doloroso e viscerale. Era come se quell'uomo, in particolare, avesse acuito tutti i sintomi con ogni singolo gesto compiuto fino ad allora. Lo voleva e non intendeva aspettare oltre. Pronto o no, Vargos avrebbe dovuto armarsi di iniziativa e agire.
Gli abbassò completamente la biancheria intima e i jeans mentre rispondeva all'ennesimo bacio; nel bel mezzo di quell'intensa effusione divaricò nuovamente le gambe e accolse fra di esse Elimar, conscio che questi avesse ormai inteso il meccanismo e cosa dovesse fare. Aveva capito tutto quel che c'era da capire e sembrava incapace quanto lui di reggere il peso delle angherie della foga.
Lo desiderava, glielo leggeva negli occhi dalle pupille che ora, proprio come le sue, si erano assottigliate. Una visione celestiale.
Vargos, non senza una certa dose di goffaggine, con un braccio indusse il bacino di Aguillard a sollevarsi un po' di più e con l'altra mano, consapevole di quel che andava fatto, guidò la propria virilità lì dove l'incendio stava divampando. Lì dove sarebbero arsi assieme, legati nella carne e nello spirito da qualcosa che andava oltre la mera lussuria.
Procedette lentamente e un po' alla volta, pur non incontrando resistenza alcuna e, anzi, realizzando che le membra di Ariel fossero naturalmente capaci di adattarsi alla sua presenza e di facilitargli l'ingresso.
Tremava come una foglia e la paura di sbagliare qualcosa era tanta, troppa, ma tentò di scacciarla e con lentezza, con crescente e viscerale sollievo simile a quello che avrebbe provato spargendo un unguento su una ferita, avanzò dentro Ariel. Fu semplice quanto affondare un coltello arroventato nel burro. Talmente facile da farlo vergognare di se stesso per la propria ignoranza.
Impacciato, ansimante e nervoso, pose le mani ai lati delle cosce di Ariel e quest'ultimo, mordendosi il labbro inferiore mentre sembrava pian piano scivolare in uno stato di estatica beatitudine, divaricò le gambe con lentezza e lasciò andare un gemito lascivo nel sentire Vargos ricolmarlo fino al limite consentito dai loro corpi. Lo sentì premere e scivolare dentro di lui, farsi strada con dolcezza in un territorio per lui sempre rimasto inesplorato e che ora lo stava chiamando a sé.
«Vargos...» ansimò, accarezzandogli il torace scolpito e inarcandosi quando lo sentì, solo per un momento, fare pressione sulla sua prostata. Non avvertiva più i crampi né il dolore o il senso di logorante vuoto. Tutto dentro di lui era in pace e teneva il fiato sospeso in attesa di altro sollievo. Una voce interiore lontana, ovattata e sempre più insignificante cercava invano di avvertirlo di aver dimenticato qualcosa, che un dettaglio gli fosse sfuggito e che si trattava di una cosa davvero importante, ma al momento non gli importava. Che tacesse pure, quella dannata voce. Niente e nessuno lo avrebbe distolto da quella pace beata giunta dopo ore di sofferenza.
Era felice, in preda a sensazioni meravigliose e non per via di quel che stava facendo, ma per la persona con cui si ritrovava ora a condividere quell'esperienza dopo che qualcun altro prima di Vargos lo aveva indotto ad aprirsi e a esser ricambiato con l'abbandono.
Vargos, però, era diverso. Ne era degno.
«V-Va tutto bene?» chiese Elimar. «Ti fa male?»
Ariel si sporse e si aggrappò a lui. «Macché. Sono in paradiso» lo rimbeccò, tra il serio e il faceto. Gli baciò il collo e poi la mascella mentre faceva scivolare le mani fino al suo fondoschiena e con una lieve pressione lo incoraggiava a muoversi, a iniziare la danza che difficile non era affatto. Era proprio come ballare: avanti e indietro, abbracciati l'uno all'altro mentre danzavano al ritmo di una melodia che solo loro potevano udire.
Vargos ne imparò ben presto i passi e quando iniziò a ritrarsi e a spingere a intervalli, lo fece anche perché fu l'istinto a dirgli di farlo. Tenendosi sollevato con le mani sul materasso per non gravare addosso ad Ariel, mosse avanti e indietro il bacino e provò ad accontentare Aguillard che lo supplicò di farlo con maggiore forza e poi più veloce. Fece del proprio meglio mentre la frenesia pian piano lo soverchiava e il piacere indotto dal trovarsi dentro Ariel, dentro quel corpo che sembrava letteralmente voler risucchiarlo, incoraggiarlo a dargli tutto quel che era in grado di offrire, lo faceva impazzire.
Intrecciò le dita con quelle di Aguillard e spinse le mani di quest'ultimo contro il materasso, senza interrompere tale contatto che, se possibile, era ancora meglio della frizione fra i loro corpi. Ancora meglio delle carezze della lussuria.
Se ripensava agli anni di scuola in cui Ariel non l'aveva mai degnato di uno sguardo o, ancora peggio, a quando sembrava averlo preso in antipatia e aver deciso di scoraggiare ogni tentativo di riavvicinamento, di dar vita ad almeno una parvenza di amicizia, a stento riusciva a credere che in quel preciso istante fossero avvinghiati in un amplesso che andava oltre il mero bisogno fisico. Adesso Ariel lo guardava, gli sorrideva e ricambiava, tramite silenziosi sguardi, quel che lui gli stava a sua volta confidando senza l'ausilio di parole.
Ariel, in effetti, aveva piegato le labbra in uno splendido sorriso per nulla intaccato dagli ansiti; inebriato e in preda alla frenesia più dolce e dissetante che avesse mai provato in tutta la propria esistenza, accostò una mano al viso di Vargos e scacciò dalle sue guance le lacrime che le stavano solcando. Si spinse verso di lui e lo strinse, lo trasse più vicino a sé. «Vieni qui, cagnolone» sussurrò, usando il giocoso soprannome che gli aveva affibbiato la settimana prima. Aveva compreso il motivo di quelle lacrime e si odiava per aver probabilmente fatto soffrire quell'uomo con i suoi continui rifiuti o frecciatine gelide; si odiava per avergli mentito e avergli fatto credere di aver già trovato un accompagnatore per la Festa del Solstizio d'Estate, quando in realtà, alla fine, era stato talmente cocciuto da aver rifiutato tutte le proposte che gli erano state rivolte e si era ritrovato a guardare film a ruota libera per tutta la sera mentre gli altri, invece, erano a divertirsi. Odiava se stesso per aver scoraggiato quel barlume di coraggio che Vargos aveva scelto, per una volta nella vita, di mostrare con lui. Gli aveva letto negli occhi l'entità del dolore che quell'ennesima stoccata gli aveva causato, eppure Vargos aveva semplicemente sorriso come meglio aveva potuto prima di allontanarsi con l'aria da cane bastonato, di chi aveva finalmente capito di dover mollare la spugna e arrendersi.
Perfido e testardo, ecco come si era comportato con Vargos. Troppo concentrato su se stesso, su vecchie dicerie sugli Elimar e poi, anni dopo, sulla morte di Rory, per capire di aver commesso fin troppi eclatanti errori.
Affondò il viso nell'incavo tra spalla e collo del coetaneo e inspirò con piacere paradisiaco, con sollievo, il suo sentore, mentre silenziose lacrime pregne di senso di colpa e, al tempo stesso, di gioia, si mescolavano al sudore. Piangeva per esser stato uno sciocco, ma era felice di aver ritrovato finalmente il senno.
Non provava dolore né altro, ma solo gioia, senso di completezza, persino pace.
Per tutti questi anni mi hai aspettato, pensò, maledicendosi per esser stato così tardo e stupido.
I suoi pensieri vennero interrotti da una contrazione che riconobbe all'istante e che precedette di un paio di istanti l'orgasmo che raggiunse insieme a Elimar. Gemette forte, premendo il capo sul cuscino mentre sentiva Vargos continuare a spingere e la pressione dentro di sé esercitata dal membro dell'Alfa aumentare mentre egli veniva e gli lasciava come ultimo dono la propria, fertile linfa.
A nessuno dei due, in quel momento, importava di quel che tale dettaglio avrebbe forse potuto causare. L'istinto regnava sovrano e lo fece finché Elimar, esausto, non si accasciò fra le braccia di Ariel che, anziché sentirsi infastidito dal peso della sua mole, lo trovava l'ennesimo dettaglio capace di riempirlo di felicità, di piacevole senso di appagamento e di abbandono.
Appena ebbe ripreso un po' di fiato, Vargos sollevò il capo e guardò Aguillard. «Stai... stai bene?» chiese, un po' ansioso. Temeva di esser stato troppo rude e di avergli fatto male, verso la fine.
«Sto benissimo. Mai stato meglio in vita mia, anzi» sorrise Ariel, baciandolo. «E ora voglio godermi quel che rimane del mio regalo di compleanno.» Seppur con un giorno di anticipo, considerava lo stesso quel che era appena avvenuto fra di loro una sorta di prezioso dono. Non per il sesso in sé per sé, ma perché nell'aria c'era qualcosa di speciale. Solo Dio sapeva se sarebbero stati in grado di avere un po' di pace, in futuro, perciò vedeva quegli attimi trascorsi fra le braccia di Vargos oro colato, inestimabili.
Non gli era mai piaciuto festeggiare il proprio compleanno. La considerava un'usanza sciocca, un inutile balsamo da ciarlatani per lenire la triste realtà della vita che un anno dopo l'altro andava accorciandosi e facendosi sempre più fragile, ma lì, insieme a Elimar che era corso da lui subito non appena gli aveva vagamente accennato di non star bene, si era del tutto dimenticato del vero significato dietro al giorno seguente, al dover depennare un altro anno dalla lista di quelli che lo separavano dall'invecchiare e infine morire. Non ci aveva pensato neanche per un secondo, ecco perché quei momenti per lui erano inestimabili.
Provare dei sentimenti per qualcuno avrebbe dovuto aiutare le persone a fuggire dalla crudele realtà della vita e dar loro la forza necessaria per andare avanti malgrado il male e il dolore presenti nel quotidiano e Vargos, in quelle settimane di frequentazione, di progressivo avvicinamento, era stato capace di fare tutto questo. Forse lo amava, forse invece gli voleva bene e la strada da percorrere era ancora molto, molto lunga, ma non gli importava. Gli bastava sapere che Vargos, finché avesse potuto, sarebbe rimasto al suo fianco.
«A pensarci meglio... avrei un po' di sete, adesso» ammise un paio di minuti dopo Ariel, divertito. «Non è che potresti...?»
Vargos annuì e gli baciò la fronte. «Sì, tranquillo. Vado subito a...», si bloccò e si accigliò quando Ariel, al suo tentativo di scivolare fuori da lui per alzarsi e andare a prendere un bicchier d'acqua, sussultò ed emise un debole gemito tutt'altro che deliziato. Ora sì che sembrava avergli procurato dolore. Ritentò, ma Aguillard lo fermò. «Non ti muovere di un centimetro o sono guai!» sbottò, serrando le palpebre quando l'altro, inavvertitamente, si mosse di nuovo causandogli un'altra fitta. Erano bloccati e lo erano per il semplice motivo che Vargos, da Alfa qual era, per puro istinto aveva eseguito il temuto nodo.
In poche parole... non sarebbero stati capaci di separarsi per almeno quindici minuti e se anche ci avessero provato, ciò avrebbe causato dolore fisico a entrambi, specialmente a lui.
Una delle cose più odiose che gli Alphaga si portavano dietro dai tempi antichi e che avevano conservato fino alle generazioni odierne, anche se ormai non c'era più bisogno del nodo per assicurarsi una discendenza e indurre l'Omega di turno a stare fermo nel momento cruciale. Un tempo si veniva presi con la forza, che lo si desiderasse o meno, perché gli Omega erano considerati oggetti, creature inferiori il cui unico scopo era di contribuire alla continuazione della specie, ma per fortuna le cose erano cambiate.
Tutto molto bello, si disse Ariel, ma perché cavolo si era ricordato solo in quel preciso momento che non avessero pensato a far uso di un profilattico, prima di darsi alla pazza gioia? Ecco cosa si erano dimenticati, dannazione!
«Ci risiamo» borbottò fra sé, affatto entusiasta all'idea che presto avrebbe dovuto fare un test di gravidanza o più di uno per assicurarsi che non avessero combinato un autentico pasticcio. Purtroppo già conosceva la risposta, dentro di sé. Difficilmente un rapporto non protetto non andava a buon fine, specie se terminava con il nodo che costringeva l'Alfa a restare dov'era fino a quando la parte finale del membro non fosse tornata alle dimensioni standard. Era quello il famoso nodo e non c'era verso di evitare che conducesse a una gravidanza.
«Ariel...» Vargos pareva sul punto di scoppiare in lacrime. Era visibilmente mortificato, quasi spaventato. Non proprio un bello spettacolo.
«Non è colpa tua» disse Ariel, dopo un po' di silenzio. Abbozzò un debole sorriso e gli accarezzò una guancia. «Può... può succedere, va bene? E ormai è andata, quindi... non fa niente.» Non c'era molto altro da dire e a poco serviva arrabbiarsi. A fronte di quel che si stava per abbattere su Mythfield, della tempesta alle porte, una gravidanza inattesa era decisamente la cosa più innocua che esistesse.
Leggeva negli occhi di Vargos la stessa inquietudine, sapeva a cosa stava pensando. Lui, invece, di nuovo vide se stesso su quell'asettico letto d'ospedale dotato di appositi sostegni per le gambe; gli parve di udire nuovamente le proprie grida mentre, avvolto in spire di dolore, in preda alle contrazioni, spingeva fuori dal proprio grembo un minuscolo essere dalle fattezze vagamente umane. Non per dargli la possibilità di conoscere il mondo, ma per sottrargliela per sempre. Vide se stesso di poco più giovane e spaventato da quel che stava accadendo fissare la creatura sepolta fra le garze del medico mentre avvertiva qualcosa di lancinante scavargli dentro il petto, dentro il cuore. Che cosa ho fatto?, si era detto, coprendosi la bocca per ricacciare indietro un urlo. Era stato il suo ultimo pensiero di senso compiuto prima della crisi, prima di subire un'iniezione dopo che neppure due infermieri erano stati capaci di calmarlo, di impedirgli di alzarsi, per quanto debole e stremato, per fare tante, troppe cose ormai inutili.
Vuoto e apatia. Due parole erano sufficienti a descrivere ciò che aveva provato nei giorni seguenti e poi per intere settimane, finché il senso di vuoto e di perdita non erano diventati un'abitudine, qualcosa con cui convivere nel bene e nel male mentre si era ripetuto che era stato lui a volerlo, ad andare a cercarsela.
Con l'eco dei singhiozzi che aveva soffocato nel cuscino per mesi tornò al presente e guardò di nuovo Vargos. «Magari il test sarà negativo. È troppo presto per...»
«S-Se non fosse così, non devi sentirti obbligato a fare niente» lo interruppe Elimar. «È una scelta tua e la rispetterò, Ariel.» Se anche Ariel l'avesse pensata diversamente sui figli e quant'altro, sarebbe stato comunque un pessimo momento per una cosa così importante e radicale. Andava bene provare a costruire una relazione stabile, andava bene tutto quanto, ma finché Olegov fosse rimasto in vita non si fidava a esporre chicchessia a un pericolo simile. Se Ariel avesse preso una decisione differente e se maledettamente si fosse sparsa la voce che il bambino fosse suo, di Vargos Elimar, Olegov sarebbe piombato su Ariel come un falco e solo per arrecare un dolore a lui. Avrebbe ucciso Ariel e la vita che aveva dentro di sé, proprio come aveva sottratto Rory a Ragos e lui... lui sentiva che di fronte a uno scenario simile avrebbe a quel punto perso la presa sulla vita, sulla voglia di lottare. Non si sarebbe risollevato dopo una caduta come quella, lo sapeva.
Avrebbe voluto scostarsi e voltarsi per celare le lacrime ad Ariel, ma non poteva e non riusciva a frenarsi. «F-Fa' la cosa giusta, Ariel» mormorò, la voce rotta dal pianto. «Salvati, ti prego! Non posso... non posso perdere nessun altro e lui... lui potrebbe... ti scongiuro, non dargli un altro motivo per farti del male.»
Quelle parole strangolarono nella culla ciò che Ariel avrebbe invece voluto dirgli. Avrebbe voluto dirgli che non era affatto sicuro di voler abortire e di voler invece dare una possibilità alla vita che forse, tra non molto, avrebbe scoperto di portare dentro di sé, ma vedere Vargos in quello stato, piangere per il senso di colpa, terrorizzato all'idea che Olegov potesse voler nuocere a lui pur di portare quel che rimaneva degli Elimar all'estinzione e infliggere loro il colpo di grazia, lo indusse a ricacciare indietro quell'accenno di coraggio affiorato nel suo cuore.
I minuti fatidici dovevano esser ormai scaduti: Vargos, infatti, riuscì finalmente a separarsi da lui e a mettersi seduto sul bordo del letto, dandogli le spalle.
Ariel lo squadrò. «Se dovesse accadere, non voglio abortire» enunciò dopo un denso silenzio. «Se sei così deciso a rispettare la mia decisione, allora dovrai farlo anche se sceglierò di tenere il bambino.» Vide l'altro strofinarsi la fronte. «Non questa. Non adesso. Non voglio che Olegov si prenda anche te come si è preso tutto il resto.»
«Fanculo Olegov! Non posso vivere a seconda dei suoi capricci, della paura che possa farmi questo o quest'altro perché ho per compagno la persona che tanto detesta! Che se ne vada al diavolo!» sbottò Aguillard, davvero furioso. «E sappi che neppure tu sei obbligato a rispettare chissà quali responsabilità! Crescerò il marmocchio da solo, se devo, chiaro?»
Vargos si voltò e gli rifilò un'occhiata severa. «È questo che io o i tuoi genitori dovremo far scrivere sulla tua lapide, dimmi? È questo, Ariel? Perché è così che finirà!»
Ariel, un po' barcollando, si alzò dal letto e camminò fino a ritrovarsi di fronte a Elimar. «Nel caso ti fosse sfuggito, Vargos, la vita è un fottuto lancio di dadi ogni maledetto giorno! Olegov o meno, si rischia di crepare anche solo uscendo in strada! Rischi possibilmente la vita ogni volta che sali in macchina o persino bevendo un dannato bicchiere d'acqua! Si rischia ogni giorno, ma fino ad ora non mi sono mai chiuso in casa perché avevo paura di venire investito o solo Dio sa cos'altro, quindi che Olegov se ne vada a quel paese!» Non aggiunse altro e abbandonò la camera da letto per farsi una lunga doccia. O così o avrebbe strangolato quell'idiota di un Elimar.
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