𝐏𝐫𝐨𝐥𝐨𝐠𝐨. 𝐈𝐥 𝐫𝐚𝐠𝐚𝐳𝐳𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐮𝐜𝐜𝐢𝐝𝐞𝐯𝐚 𝐢 𝐦𝐨𝐬𝐭𝐫𝐢
L'Haven Lounge Bar era gremito di persone, quella sera. La musica di sottofondo a Crystal piaceva, lo rilassava, ma era il chiacchiericcio a guastare l'atmosfera. Non gli erano mai piaciuti i posti troppo affollati, tuttavia, non conoscendo più di tanto la città di Shreveport e avendo assolutamente bisogno di annegare i propri pensieri in un drink, quel locale era risultato essere il più vicino a dove risiedeva attualmente, nonché quello che somigliasse di meno a un formicaio dove le persone si accalcavano in massa proprio come industriose e frenetiche formiche operaie.
A discapito del sovraffollamento le luci soffuse davano comunque luogo a un'atmosfera piacevole e se solo vi fosse stata la musica ad attorniare Crystal, il ragazzo di certo si sarebbe persino potuto assopire.
Ragazzo... si faceva per dire! Si trovava lì da mezz'ora e già un paio di idioti lo avevano scambiato per una donna e gli avevano rivolto delle avances o quel che certi idioti insistenti credevano esser tali. Inutile dire che li avesse mandati dritti al diavolo.
Non che fosse uno che disdegnava la compagnia degli uomini, gli piaceva quanto quella delle donne, ma non era in vena. Non quella sera.
Con un sospiro sconsolato distolse gli occhi color lillà dalla sala e prese fra l'indice e il medio la cannuccia di un'intensa tonalità ciliegia per mescolare la Caipiroska alla fragola che aveva scelto soprattutto per la questione della dolcezza. Lo fece con fare distratto e svogliato. In quell'ultima settimana, come già gli accadeva da anni, più o meno dalla pubertà, di nuovo in lui si era fatta strada una prepotente voglia di sapori dolci e quello era in assoluto il problema minore; l'aspetto realmente fastidioso e spiacevole era rappresentato dai crampi, dall'abitudine spiacevole e non molto normale del suo corpo di salire troppo di temperatura, tanto da dargli l'impressione di essere una fornace ambulante.
Sapeva bene di non essere mai stato normale, suo padre glielo aveva ripetuto fino all'ultimo, fino al giorno in cui era uscito da scuola e una donna e un uomo gli avevano detto che c'era stato un incidente nel quale il povero diavolo era rimasto ucciso. Da allora era cambiato tutto: per un po' era rimasto in istituto dato che non aveva mai conosciuto sua madre ed era stato cresciuto unicamente dal defunto padre. Nessun altro parente, nonno o zio che fosse, si era presentato per sottrarlo a quel posto penoso e triste; più tardi una coppia di coniugi lo aveva infine preso in affidamento e all'inizio tutti e due gli erano sembrati persone normali, ma nei sei anni trascorsi insieme a loro aveva via via scoperto che in realtà non fossero affatto così impeccabili. In quella famiglia non aveva trovato comprensione né tolleranza o affetto: lei, soprattutto, lo aveva costretto a vestirsi da ragazza, a comportarsi come tale, quando invece non si era mai sentito né maschio né femmina, bensì solamente confuso e desideroso di risposte.
L'unica concreta eredità lasciatagli dal padre era il medaglione che recava anche in quel momento attorno al collo, celato sapientemente dagli abiti. Quando il marito della coppia che lo aveva preso in casa aveva dato prova di nutrire nei suoi confronti un interesse preoccupante, morboso e perverso, e la moglie nonostante tutto aveva fatto finta di niente e addirittura era arrivata a incolpare lui per la questione, non aveva retto oltre: una notte aveva afferrato quel po' di effetti personali di sua proprietà, li aveva ficcati in uno zaino e si era calato giù dalla finestra aiutandosi con la pianta rampicante che vi cresceva sotto.
In qualche modo era riuscito persino a eludere la polizia che, allertata, si era impegnata in una ricerca serrata per riportarlo in quell'inferno. All'epoca aveva sedici anni e nessuno cui poter rivolgersi. Di amici ne aveva avuti qualcuno, ma nessuno di loro abbastanza stretto o in bolla da poter ospitarlo. Coi pochi soldi che era riuscito a sgraffignare qui e là con non pochi rischi si era pagato un viaggio e per un po' di tempo era rimasto lontano da New York come se la città fosse stata un focolaio di peste bubbonica. Dove aveva vissuto? Un po' ovunque e senza mai mettere radici. A volte era dovuto ricorrere a mezzi disperati, arrabattarsi per un lungo e difficoltoso anno in ogni maniera possibile e immaginabile, spesso costringendo se stesso a rinunciare alla dignità pur di ottenere miseri gruzzoli che non gli erano bastati neppure per campare una settimana.
Nel dover vendere il proprio corpo a cani e porci aveva realizzato quanta gente malata ci fosse al mondo celata da accurate maschere di normalità e perbenismo.
Crystal, infatti, era nato con un difetto sessuale: benché in apparenza sembrasse un ragazzo spiccatamente androgino e femmineo, in realtà possedeva un apparato riproduttore puramente femminile al cento per cento e, per giunta, funzionante. La cosa ancora più strana era che tuttavia non avesse mai avuto un normale ciclo di ovulazione, bensì fenomeni fisiologici che vi si avvicinavano soltanto.
Una volta al mese, per una settimana o a volte di più, stava male, decisamente male: nausea, crampi insopportabili, niente sangue e, piuttosto, una voglia irrefrenabile, una pulsione sessuale che lo costringeva a stare rintanato da qualche parte in attesa che tutto finisse. Non era come se fosse affetto da ninfomania o un disturbo simile, ma qualcosa di differente e ben peggiore che non avrebbe saputo spiegare in modo chiaro ed esaustivo. Una persona avrebbe dovuto per forza passare quel che gli toccava tollerare ogni mese per capire sul serio come ci si sentiva a provare un bisogno fisico e disperato, pari all'urgenza di bere, mangiare e dormire, di avere rapporti carnali che non riuscivano comunque a soddisfarlo fino in fondo e, anzi, peggioravano la situazione e acuivano la smania.
Ecco perché si stava sbrigando a terminare il drink e ad andarsene: presto le cose sarebbero peggiorate e non aveva alcuna intenzione di mostrarsi in pubblico nello stato penoso in cui sarebbe piombato di lì a poco.
Erano state dette molte cose su Crystal, sia nell'istituto che nella casa dei suoi perversi genitori adottivi: che fosse stato per suo padre una punizione divina del tutto meritata perché probabilmente concepito con qualche donnaccia; che fosse uno dei tanti tiri mancini che certe volte la natura si divertiva a piazzare sul globo terrestre; che non era normale e fosse poco meno che idiota, e tanto altro ancora che alla fine lo aveva fatto chiudere in se stesso. Il passato era passato, certo, ma non per tale ragione faceva meno male.
Oggi è il mio compleanno, realizzò Crys senza smettere di guardare all'interno del lungo bicchiere e spaziare con le iridi lillà nel beverone alcolico rosso come il sangue.
Ventidue anni...
Gli sembrava solamente ieri quando si era messo in spalla lo zaino e si era calato giù dalla propria stanza come una brutta copia di Raperonzolo. Di certo non era mai stato nei suoi piani da adolescente in fuga incappare, un anno dopo esser scappato di casa, in un tizio di mezz'età, Lance, che si era poi intestardito nel voler addestrarlo e aiutarlo a comprendere le capacità che sempre aveva avuto e che per anni mai aveva capito.
Quelli come lui e Lance, infatti, si chiamavano streghi e streghe e, come ben si poteva intuire, erano capaci di far uso della magia, di evocarla servendosi della natura che li circondava e del nucleo vitale e arcano con il quale venivano al mondo.
A diciassette anni finalmente Crystal aveva saputo dare un senso agli strani incidenti che s'erano ripetutamente verificati sia nell'istituto che all'interno della casa dei genitori adottivi; incidenti che spesso lo avevano messo nei casini e fatto finire in punizione per via dei troppi pasticci causati in continuazione.
Ricordava bene la sera in cui aveva conosciuto Lance Barlow: il diciassettenne mingherlino e tutt'occhi che era stato all'epoca aveva provato a scippare un uomo tra i cinquanta e i sessant'anni dall'aria talmente tranquilla da risultare innocuo e inerme. Una preda facile che non avrebbe dato troppi problemi, almeno così aveva pensato il Crystal di allora appena un secondo prima di ritrovarsi bloccato sul posto senza un motivo apparente. I muscoli che di colpo avevano cessato di obbedirgli e questo appena un attimo dopo che Lance aveva estratto quella che era sembrata essere una comune e anonima penna stilografica dalla tasca della giacca a vento. Si erano guardati negli occhi a vicenda per interminabili secondi e il ragazzo aveva domandato all'uomo come fosse riuscito a fargli un simile scherzetto. Lance, con una naturalezza disarmante, si era stretto nelle spalle e aveva spiegato di essere uno strego, proprio come lui.
Crystal aveva riso e decretato che quel tizio fosse mezzo matto e il signor Barlow, come si era presentato in quel momento l'uomo, lo aveva invitato a sedere davanti a lui in un diner non molto distante da lì; il ragazzo, da giorni vittima dei crampi della fame, aveva messo da parte la diffidenza e ordinato cheeseburger al bacon e patatine mentre udiva Barlow affermare che fosse riuscito a immobilizzarlo grazie proprio alla magia.
‟Va bene, mettiamo che volessi credere a cos'hai detto... perché mai dovrei essere come te?" aveva chiesto Crystal fra un boccone del fragrante panino e l'altro.
Lance aveva sorriso sotto i baffi sale e pepe. Una curvatura delle labbra celate là sotto indulgente. ‟Non ti rendi conto di quando fai uso dei tuoi poteri" aveva sentenziato. ‟In quale altro modo avresti mai potuto, dopotutto, liberarti da solo dall'incantesimo che avevo eseguito?"
‟No che non l'ho fatto."
‟Sì, invece. Io avevo già riposto la penna quando tu, di colpo, sei riuscito a muoverti come al solito. Sei uno strego, Crystal, proprio come me e tanti altri."
Crystal era convinto che se quella lontana sera Lance gli avesse detto che era un cetriolo con quell'espressione naturale e tranquilla, ci avrebbe comunque creduto senza problemi.
Non aveva potuto far altro che affidarsi ciecamente alle parole di Barlow e, dopo un paio di giorni di indecisione, decidere di accettare la sua proposta di prenderlo sotto la propria ala protettiva per istruirlo sulla magia e insegnargli tutto ciò che sapeva in merito a essa. Col senno di poi ammetteva che quello fosse stato uno dei pochi giorni in cui era tornato ad avere un minimo di fiducia nell'umanità che, spesso, si era mostrata per la specie crudele e indifferente qual era nel profondo.
Vivere nell'appartamentino a schiera di Lance Barlow era stato come ritrovarsi da un giorno all'altro ospite in casa di un lontano e benigno zio che adorava suonare il violino negli orari più inconsueti e sorseggiare tè alla mela mentre teneva il naso sepolto fra le pagine di qualche polveroso volume di stregoneria del Medio Oriente.
Un soggetto pittoresco, poco ma sicuro, ma più umano di tanti altri sedicenti benefattori osannati dall'opinione pubblica americana e mondiale. Una persona premurosa, cordiale e quasi all'antica capace di condurre un'intera lezione sulla magia persino di fronte a due bei piatti di salsicce e purè. Gli aveva impartito, fra tante altre cose, anche un po' di sana disciplina; lo aveva aiutato ad avere maggiore controllo sulle emozioni ricordandogli che quest'ultime fossero nei riguardi della magia spesso e volentieri quel che il cherosene era per le fiamme.
Lance si era preso cura di lui e nel farlo gli aveva ricordato, a volte e dolorosamente, suo padre, l'uomo che lo aveva protetto, amato e cresciuto al meglio delle proprie possibilità finché aveva potuto farlo, ripetendogli sempre, fino alla fine, che lui fosse speciale nel senso positivo del termine. Un ragazzino diverso dagli altri.
Da piccolo Crystal non aveva capito il senso di tali parole, ma poi aveva incontrato Lance e tutto gli era stato molto più chiaro e aveva acquisito un significato ben preciso: suo padre, Dion, evidentemente si era accorto di avere per figlio un bambino dotato di poteri magici. Magari, in tenera età, Crystal aveva fatto qualcosa che non aveva lasciato spazi ad ulteriori dubbi e messo Dion di fronte a una sorprendente verità.
Che egli fosse stato a sua volta uno strego risultava poco probabile. Crystal non rimembrava una sola occasione nella quale suo padre, di nascosto o meno, avesse dato prova di condividere con lui quell'autentico dono. Si era detto, dunque, di averlo probabilmente ereditato dalla madre che, secondo quel poco che Dion aveva raccontato, non era vissuta abbastanza neppure per prenderlo in braccio subito dopo averlo messo al mondo. La mamma era morta dandolo alla luce, ecco cosa sapeva Crystal sul suo conto. Erano morti entrambi, anzi, e con sé avevano per sempre trascinato nella tomba la verità.
La gentilezza di Lance e il suo terribile senso dell'umorismo, l'infinita pazienza mostrata nei riguardi del ragazzo sfacciato qual era sempre stato Crystal, avevano fatto sì che questi si fosse sentito per la prima volta a casa, parte di qualcosa di molto simile a una ristretta e bizzarra famiglia.
E mentre il signor Barlow lo trattava non solo come un figlio, ma anche come il suo personale pupillo, il suo discepolo, Crystal aveva appreso via via dell'esistenza di creature che attendevano solamente di esser rimesse al proprio posto; esseri che ormai gli umani ritenevano esistere solo nei libri di fantasia e negli antichi bestiari risalenti al Medioevo. Era tutto reale, invece: vampiri, lupi mannari, megere cannibali votate alla magia delle ombre che uccidevano i bambini per ricavare pozioni e intrugli d'ogni sorta; Ghoul in agguato nelle tenebre che ammazzavano ragazzini troppo impavidi che si davano appuntamento nei cimiteri; seducenti, aggressivi e famelici Kelpie che annegavano e divoravano nelle paludi il primo idiota che, avvicinandosi troppo alla sponda, si lasciavano irretire dalle loro ammalianti sembianze di maestosi equini acquatici e... tanto, tanto altro ancora. Troppe le immonde sozzure che brulicavano gli angoli della terra con la complicità dello scetticismo moderno. Roba contro la quale non erano sufficienti semplici pistole o fucili. A volte persino la granata migliore che esistesse non poteva nulla contro determinate creature partorite dall'incubo.
Lance, un giorno, gli aveva infine spiegato l'unica cosa che fino a quel giorno in particolare si era guardato dal rivelare: ad averlo preso con sé non era stato uno strego qualsiasi, bensì un cacciatore di mostri. Uno strego che, semplicemente, a richiesta o di sua spontanea volontà, tentava di tenere sotto controllo la pericolosa marmaglia di mostri uccidendone gli esemplari che avevano superato il limite e non potevano essere lasciati liberi di seminare il terrore ovunque andassero. Finalmente Crystal aveva capito come mai, di tanto in tanto, il signor Barlow si fosse dovuto assentare per un giorno o addirittura per un paio di settimane con scuse via via sempre meno credibili. Gli era stato chiaro il perché non avesse mai potuto accedere a una stanza in particolare, ovvero quella in cui Lance era stato solito custodire magiche e pericolose reliquie capaci di canalizzare con maggiore precisione il flusso magico di uno strego o, ancora, ogni genere di arma bianca o persino armi da fuoco che, se non maneggiate nel modo corretto, potevano rivelarsi fatali.
‟Non ho scelto di prenderti come mio allievo solo perché avevi bisogno di qualcuno che ti istruisse e si prendesse cura di te" aveva ammesso Barlow davanti al caminetto acceso mentre il riverbero delle luci di natale mescolate alla ghirlanda sistemata là sopra si rifletteva negli occhiali da vista del non poi così tranquillo strego d'appartamento. «Vedi questo bastone che porto sempre, Crystal? Lo uso perché, più o meno quindici anni fa, rimasi ferito in modo permanente mentre ero a caccia nei boschi della Virginia occidentale. Ero sulle tracce di..."
Lance aveva scosso il capo e messo su un'espressione curiosa: quella di chi si era morso appena in tempo la lingua prima di riferire dettagli che era meglio sorvolare. Aveva posato a terra il bastone e aveva tirato su la stoffa dei pantaloni che celava la gamba destra per rivelare una complessa protesi alchemica di metallo lucido e mantenuto alla perfezione.
Crystal aveva trattenuto il fiato di fronte a quell'inatteso dettaglio. ‟Ma... come... cosa... chi...?" aveva balbettato, incredulo e spiazzato.
‟Un autentico mostro, credimi. Un essere diabolico, ragazzo mio, perché dotato di ciò che ad altre creature sue pari manca: l'intelletto e la possibilità di scegliere fra bene e male. Capisci cosa voglio dire?"
‟Beh, sì, ma..."
‟Ieri ti ho finalmente detto tutta la verità su di me e ora ti dirò anche questo: avevo bisogno di una persona all'altezza che potesse prendere il mio posto, Crystal. Io non sono più in grado di fronteggiare i mostri. Sto invecchiando. Protesi o meno, non ho più i riflessi di quand'ero più giovane e restare inattivo per quindici anni mi ha reso meno minaccioso di un porcellino d'india. Ho visto qualcosa in te, Crystal. Avevo già deciso di adottarti, in un certo senso, ma riconoscere in te la scintilla combattiva di un possibile e futuro strego guerriero mi ha convinto a pensare che un giorno ti avrei detto tutto e ..."
Crystal non gli aveva permesso neppure di terminare la frase. Era scattato in piedi come un pupazzo a molla dalla propria poltrona e aveva esclamato che sì, avrebbe accettato di venire addestrato per diventare un cacciatore proprio come Lance lo era stato un tempo.
Il resto, come si era soliti dire, era pura e semplice storia che lo aveva infine condotto a prendere il posto di Lance Barlow come difensore errante dell'ordine fra le creature magiche e sovrannaturali del suolo americano. Ovviamente nel processo non tutto era andato esattamente come avrebbe voluto e, ai giorni attuali, il signor Barlow aveva raggiunto nell'aldilà le uniche altre due persone alle quali fosse mai importato qualcosa di lui.
Lance non era più fra i vivi da quattro anni e andandosene aveva riaperto nel cuore del ragazzo vecchie ferite e, purtroppo, ceduto il posto all'ennesimo nero e vuoto cratere che solo la scomparsa di qualcuno di molto caro poteva lasciarsi alle spalle, una volta morto.
Il giovane e avvenente viso di Crystal si contrasse per lo sforzo sovrumano impiegato nel ricacciare indietro inutilmente le lacrime. Una minuscola goccia trasparente riuscì con successo a scivolare giù dalla dolce insenatura della sua guancia e si riversò nel pozzo di alcol al sapore di fragola rimasto pressoché intatto.
Crys si asciugò rapidamente il viso. Non voleva piangere in pubblico. In generale mai gli era piaciuto esternare certe emozioni perché sin dal principio aveva capito che quello era un mondo che non perdonava le persone sensibili o fragili, specialmente se erano come lui: diverse, difettose, bambole rotte ancor prima di esser messe in vetrina.
Tutta colpa del ciclo o qualunque altra cosa fosse: lo rendeva emotivamente instabile, una molla tesa e compressa in attesa di scattare.
Erano passati quattro lunghi anni da quando era rimasto di nuovo solo e aveva dovuto arrangiarsi al meglio delle magre possibilità in suo possesso.
Frugò sotto la maglietta nera ed estrasse dal colletto il medaglione alquanto vistoso che da sempre si portava dietro e che suo padre gli aveva detto di non dare mai e poi mai via, neppure se si fosse trovato in condizioni di estrema miseria.
Sottile e tondeggiante, sul fronte di esso campeggiava in rilievo la forma stilizzata della corolla di una rosa. Non v'era nient'altro: nessun nome sul retro o da qualche altra parte, nessuna identità alla quale Crystal avesse mai potuto aggrapparsi, a parte il cognome di suo padre che poi si era ripreso non appena era scappato di casa: Hawthorn. Benché avesse perso suo padre a dieci anni, non aveva mai dimenticato le proprie origini e aveva fatto di tutto per conservare più ricordi che poteva di Dion, suo padre.
Una volta gli era sembrato che Lance, apprendendo del suo cognome e del nome di suo padre, avesse fatto una faccia un po' strana, ma quando il ragazzo gli aveva chiesto spiegazioni Barlow aveva scosso il capo e cambiato argomento. Non aveva più voluto saperne di tornare sulla faccenda e Crystal si era infine convinto a catalogare l'episodio come frutto di una mera impressione personale, anziché della realtà concreta. Se Lance, per qualche assurdo e astruso motivo del tutto improbabile e senza senso, avesse conosciuto Dion Hawthorn, sicuramente lo avrebbe detto al figlio di quest'ultimo. Crystal, nella cieca fiducia che aveva riposto in Barlow, aveva permesso a quella spiegazione logica di strangolare nella culla eventuali dubbi sulla questione.
Tornò a osservare il suo medaglione e lo sfiorò col pollice come sempre faceva quando era sovrappensiero.
Per pura curiosità aveva scelto, un pomeriggio, di farlo stimare da un orefice ed era saltato fuori che valesse una fortuna e fosse per giunta in oro zecchino puro al duecento per cento. Gli era stata offerta una cifra esorbitante in cambio del ninnolo, ma aveva rifiutato fieramente. Non si sarebbe mai e poi mai separato da quel cimelio di famiglia, ma una voce interiore e fastidiosa gli ripeteva che prima o poi avrebbe dovuto disfarsene se non si fosse deciso a lavorare più del consueto per stare al passo con i prezzi che andavano facendosi sempre più salati.
Non avrebbe mai scoperto alcunché sulle origini di quell'affare, ecco la dura e crudele realtà, e se voleva evitare di dormire per strada aveva bisogno di denaro, e il denaro non cresceva sugli alberi. Lavorare da comune essere umano? Certo, come no! Quel paio di soggiorni in prigione che si era fatto dopo la morte di Lance, per quanto brevi, gli avevano guastato la reputazione e l'ultima volta che aveva cercato di farsi assumere, non appena era saltato fuori che la sua fedina penale non fosse proprio immacolata ecco che gli era stata sbattuta la porta in faccia. Più tentava di restare a galla e più gli pareva di andare a fondo, e prima o poi gli eventi lo avrebbero costretto a scegliere fra la promessa fatta a suo padre e lo stomaco che implorava di venir riempito con del cibo.
Per semplice scrupolo frugò nelle tasche del giubbotto dall'aspetto usurato e non appena ebbe in mano il portafogli, controllò all'interno di esso lo stato delle proprie attuali finanze.
Strinse le labbra in una smorfia irritata. «Fantastico!» sibilò a denti stretti, schiaffando con rabbia sul tavolo le poche banconote di cui disponeva.Gli restavano solo venti dollari, una somma oscenamente bassa e inutile, insufficiente a garantirgli un alloggio persino nel peggiore hotel della zona.
Ora come faccio?
Non si riferiva solo al dover pagare il drink, ma anche alla permanenza in quella città. Non voleva dover ricorrere di nuovo a soluzioni tanto drastiche quanto umilianti. Gli era già capitato di doverlo fare e non ci pensava neanche a ripetere quelle disgustose esperienze. Non sarebbe tornato a battere per strada né a soddisfare i vizi di qualche vecchio pervertito.
Il punto, però, era che trovare una missione da portare a termine non era così facile quando non si era più di tanto conosciuti, e nessuno sapeva che uno strego e cacciatore di mostri freelance si trovasse attualmente a Shreveport.
Aveva bisogno di lavorare, accidenti! Possibile che da quelle parti non vi fosse neppure un Ghoul che aspettava di esser rispedito a calci nella propria tomba? Avrebbe forse fatto meglio a spostarsi e a procedere verso le zone paludose e meno bazzicate? Magari laggiù avrebbe trovato tracce del passaggio inconfondibile di un Kelpie troppo su di giri...
Quando fu sul punto di tornare a sorseggiare il drink, decisamente sconsolato e di pessimo umore, un crampo al ventre lo costrinse a rimetter giù il bicchiere.
Premette entrambe le mani sul grembo e si chinò leggermente in avanti, imprecando in maniera così rozza che avrebbe fatto vergognare persino un marinaio.
Ci mancava solo questa! Perfetto!
Era da quando aveva tredici anni che conviveva con l'inopportuna abitudine del suo corpo di ricordargli mensilmente il motivo per cui la gente, spesso, lo vedeva come uno scherzo di natura; lo stesso per cui, un paio di volte, si era ritrovato nei casini fino al collo e a un passo dal dover sfamare non solo se stesso, ma anche un marmocchio petulante.
La prima volta era ricorso alla pillola abortiva, solo che aveva dovuto prenderne più di una perché la gravidanza sembrava non voler interrompersi per nulla al mondo. Aveva continuato a progredire, ancora e ancora, finché dopo tre settimane di massiccia assunzione di quella robaccia finalmente Crystal aveva sanguinato e la gravidanza si era interrotta.
Aveva rischiato come Gagarin, quella prima volta, poco ma sicuro, ma non aveva saputo in qualche altra maniera disfarsi della gravidanza imprevista e indesiderata.
La seconda volta, invece, una sua amica gli aveva presentato un medico in pensione che, quando ancora esercitava, aveva aiutato molte donne a disfarsi di eventuali errori di percorso. La cosa strana, a detta di quel medico, era che vi fosse stato una portata di sanguinamento maggiore del previsto. Il feto era stato particolarmente difficile da raschiare via, tra l'altro. Crys quella volta ci aveva rimesso per un soffio le penne; ricordava tanto, tanto sangue, dolori atroci al ventre e un esserino gelatinoso ridotto a brandelli stipato in un nido di garze. Ricordava di aver guardato con orrore quell'abbozzo di creatura umana e di aver subito dopo implorato l'abortista di disfarsene. Ammetteva di averlo fatto soprattutto per i sensi di colpa che lo avevano assalito nel trovarsi faccia a faccia con il frutto della sua sregolata e patetica esistenza fatta di espedienti, di sveltine contro il muro di qualche vicolo o nelle auto di pensionati che di mattina andavano in chiesa e di notte, invece, andavano a puttane.
Avrebbe potuto tenere almeno uno dei due marmocchi? Certo, come no! Come se conducesse una vita agiata e stabile! Uccideva mostri per campare e non avrebbe mai condannato nessuno a condividere con lui un'esistenza del genere, men che meno un bambino. Aveva fatto la scelta più saggia e realista, poco importava se poi per settimane intere era stato tormentato dalla visione di quel piccolo abbozzo di perduta umanità ridotto in pezzi dai ferri del medico.
Malgrado la perdita di sangue superiore alla media prevista non aveva potuto recarsi in ospedale per ovvie ragioni visto che, altrimenti, gli avrebbero posto domande alle quali non avrebbe potuto rispondere; senza contare che avrebbe solo corso il rischio di mettere nei guai una persona che aveva cercato di aiutarlo. E comunque, per andare in ospedale bisognava avere i soldi, un'assicurazione decente o quantomeno esistente, e lui non aveva nulla di tutto ciò. L'America era il sogno solo di coloro che sguazzavano nell'oro e nel mentre i poveracci non potevano far altro che attaccarsi al tram o, ancora meglio, gettarvisi sotto direttamente.
Ad ogni modo, aveva imparato una cosa su se stesso: gli bastava non avere rapporti durante giorni ben precisi per non restare fregato al cento per cento. Mentre per una persona normale il ciclo abbassava di molto la possibilità di una gravidanza indesiderata, per lui era l'esatto opposto e questo nessuno aveva saputo spiegarselo. La vita aveva deciso di prenderlo per i fondelli fino in fondo, questo invece era chiarissimo.
Il punto era, però, che nei dieci giorni fatidici che si susseguivano mensilmente tendeva a essere particolarmente ansioso di andare con chiunque, maschio o femmina, giovane o vecchio, e sembrava non bastargli mai né soddisfarlo neppure lontanamente.
Un vero inferno e un tale col quale era stato per un po' di tempo, una volta, lo aveva paragonato a una gatta in calore. Gli aveva detto che durante quella strana forma di ciclo mestruale tendeva a comportarsi proprio come una gatta vogliosa. Crys, per tutta risposta, gli aveva mollato un pugno sulla spalla e gli aveva detto di chiudere la dannata fogna. Il tizio, poi, era finito ammazzato da un vampiro che Crystal stesso aveva poi rispedito a Satana con tanto di carta da regalo e bigliettino.
Mi viene da vomitare. Dio, se ora mi vedessero quelli della Gilda...
Premette forte una mano sulla bocca e cercò di farsi passare la nausea, ma non era semplice. Una sensazione strana, sottopelle e istintiva, lo convinse a sollevare lo sguardo e fu allora che intravide accanto al bancone un tizio che lo stava fissando a sua volta. Era alto, prestante come un atleta, i capelli biondo scuro e un giubbotto da biker che suggeriva la sua appartenenza a chissà quale gruppo di motociclisti. Gli occhi dal taglio allungato – e in un certo senso felini – continuavano a fissare Crystal con un'intensità e una serietà che finirono per far rabbrividire il ragazzo.
Non sembrava interessato a lui, non in quel senso. Piuttosto... pareva quasi tenerlo in osservazione. Che fosse per caso un poliziotto in borghese? Ma in tal caso perché mai avrebbe dovuto concentrarsi su di lui? Non era ricercato per qualche crimine né invischiato in questioni di malaffare.
Piantala, Hawthorn. Sei solo paranoico, si rimproverò, imponendo a se stesso di guardare altrove e di ignorare il biker o quello che fosse, ma qualcosa lo costrinse di nuovo a spostare le iridi color lillà sul tizio. A pensarci bene sembrava troppo giovane per essere un poliziotto in borghese e a occhio e croce sarebbe potuto passare per un suo coetaneo.
In ogni caso, perché continuava a pensare che lo stesse sorvegliando?
Quando la nausea e i crampi si fecero insostenibili, Crystal raccolse le forze per alzarsi e dirigersi in fretta e furia nel bagno degli uomini. Sperava solo che qualche cazzone di turno non lo scambiasse di nuovo per una ragazza un po' mascolina, perché altrimenti credeva proprio che avrebbe atterrato il disgraziato con un cazzotto sul muso.
Appena fu là dentro si aggrappò al lavabo più vicino appena in tempo per riversarvi all'interno quel poco che il suo stomaco fino ad allora aveva custodito. Rimettere non era mai piacevole, ma lui lo detestava all'ennesima potenza, specie per quell'amaro e acido retrogusto che poi si sedimentava in gola per ore.
Dopo qualche minuto scandito da odiosi conati intervallati da altri crampi al basso ventre più forti dei precedenti si sciacquò la bocca e il viso, infine si asciugò con delle salviette di carta.
Mentre lo faceva, però, la porta del bagno si aprì e chiuse. Crystal trasalì scorgendo nel grande specchio il riflesso del ragazzo di poco fa: era il tizio con la giacca da motociclista.
Che cazzo vuole questo qui da me, si può sapere?
Si diede dell'idiota immediatamente dopo aver formulato tale pensiero. Dopotutto quello era un bagno pubblico, no?
Eppure il biondone in questione pareva essere lì proprio per lui, non per obbedire al richiamo della natura.
Crys contò fino a dieci, poi gettò le salviette nel cestino, si volse e chiese, diretto: «Cerchi rogna, amico?»
Lo sconosciuto lo fissò quasi interdetto, poi si incupì. I suoi occhi, sotto la fredda luce del bagno, sembravano color nocciola, più che castani. Hawthorn si rese conto che in realtà il tipo stava guardando il suo medaglione. Il suo fu un gesto istintivo: afferrò il cimelio e se lo risistemò sotto la maglietta. «Che hai da guardare, si può sapere?» Per istinto tentò di rendere la voce – purtroppo chiara e ben poco mascolina – scura e minacciosa.
L'altro ragazzo incrociò le braccia sull'ampio petto e con evidenza frugò dentro la propria testa alla ricerca delle parole adatte con cui affrontare la conversazione. «Quella... quella collana che indossi ha un'aria familiare» rispose infine, diretto.
«A me non sembra di conoscerti, invece. Guarda un po'!»
«Infatti mi riferivo al medaglione, non a te» replicò lo sconosciuto. Crystal capì che lo stava studiando. «Non hai la più pallida idea di ciò che sei realmente, dico bene?»
«Ciò che sono?» ripeté irritato Hawthorn. «Ma di che stai parlando? Hai battuto la testa, per caso?»
«Lo sai perfettamente. Quello che gli altri non notano né percepiscono, io l'ho sentito dal primo momento in cui sei entrato in questo locale. Lasciatelo dire: Shreveport non è un luogo sicuro per quelli come te e non lo è neppure il mondo in generale, a dirla tutta.»
Crystal lo fissò per qualche secondo. Il tizio si riferiva forse al suo difetto, al suo essere femmineo? Oppure a qualcos'altro?
Che sciocchezza! Non può mica sapere che sono uno strego cacciatore!
Stufo di quelle balordaggini, con un gesto maleducato lo liquidò. «Ma vaffanculo, Jesus Christ Superstar.» Non aggiunse altro e uscì dal bagno, chiedendosi perché toccasse sempre a lui aver a che fare con certi cretini.
Non fece in tempo a fare un altro passo, però: una mano calda si avvolse attorno al suo braccio e lo trattenne. Capì subito che si trattava dell'uomo di poco fa e allora cercò di liberarsi con uno strattone, ma quella presa era salda come l'acciaio, pur senza esser violenta. Si volse. «Non sono in vena di scherzi!» sbottò a denti stretti. «Si può sapere che diavolo vuoi? Neanche ti conosco! Lasciami in pace!»
Lo sconosciuto gli fece cenno di guardare dietro l'angolo, ossia nella sala del locale. «Forse non te ne sei accorto, ma non sono l'unico ad averti notato e percepito. Osserva con attenzione.»
Crys si rese conto che in mezzo a tanta gente che neanche si prendeva il disturbo di calcolarlo, la coppia di ragazzi che all'inizio gli avevano fatto le avances invece gli stavano lanciando occhiate molto incuriosite e... bramose, proprio come prima. Davvero inquietante, ora che ci pensava meglio. «Saranno due stronzi arrapati qualsiasi» biascicò, come al solito ancorato alla razionalità e al realismo. «Troppi ce ne sono in giro!» Sperava solo che non fossero vampiri o qualche altra schifezza immonda.
«Ti sbagli, invece» lo contraddisse il tipo con aria molto seria e inquieta. «Avvertono il tuo odore, proprio come me, ma non sono altrettanto gentili. Sei in un casino bello grosso, credimi.»
Quella storia iniziava a turbare Crystal. «Non so quale scherzo tu abbia architettato, ma non voglio farne parte.» Si liberò dalla sua stretta. «Lasciami stare. Ne ho abbastanza.»
Era meglio alzare i tacchi, questo sì che l'aveva capito.
Tornò in sala, poi al tavolo e recuperò il portafogli, lasciando i venti dollari lì dove si trovavano. In un posto come quello nessuno si sognava di rubare, tanti sembravano i soliti spocchiosi le cui tasche straripavano dei bigliettoni dei genitori. Per ultima cosa afferrò la lunga borsa che conteneva in apparenza vestiti e quant'altro; in realtà, però, aveva operato un incantesimo di camuffamento di modo che nessuno scoprisse che in verità, là dentro, vi fossero anche una spada e delle pistole. Insomma, un piccolo arsenale di giocattolini per ammazzare i mostri.
Sobbalzò udendo la voce del tizio alle proprie spalle. «Ho pagato io il tuo drink.»
Okay, okay... adesso ho capito. È tutto più chiaro.
Crystal lo squadrò e, senza peli sulla lingua, sputò fuori: «Non sono dell'umore adatto per farmi abbordare e scopare nel vicolo qui accanto, se il tuo obiettivo era questo». Con rabbia si rimise il portafogli in tasca. «Be', grazie, anche se nessuno ti aveva chiesto di fare un bel niente! A mai più rivederci, MacGyver!»
Borbottando inviperito si fece spazio tra la gente, raggiunse l'uscita e si incamminò, incurante del fatto che pioveva a dirotto. Era abituato a stare sotto gli acquazzoni e a inzaccherarsi fino al midollo. Dopo la fuga dalla casa degli orrori gli era capitato di restarsene in un vicolo o sullo scalino di qualche negozio chiuso di notte perché non aveva un posto dove andare o era stato buttato fuori perché non aveva più potuto pagare l'affitto dei pochi appartamenti squallidi in cui aveva abitato.
Non era mai riuscito a metter radici, eppure le erbacce come lui erano solite farlo anche nelle condizioni più sfavorevoli.
Nel giro di cinque minuti era già fradicio e gocciolante come uno straccio per i pavimenti, i lunghi capelli biondo cenere sembravano intrecciarsi fra di loro e ormai parevano simili a trecce molto sottili. Aveva smesso di chiedersi cosa vedessero gli altri quando lo incrociavano per strada, ma dubitava fosse un bello spettacolo.
La sola cosa a cui mai si era sognato di avvicinarsi era la droga, nell'anno che aveva passato per strada precedente all'incontro con Lance. Mai lo aveva attratto, neppure nei momenti più bui e umilianti di suddetto periodo. Aveva visto uno dei suoi amici di strada morire per overdose e da quel momento in avanti aveva capito una volta per tutte di dover star lontano da quella robaccia.
La droga faceva sentire bene solo per un po', poi tutto tornava a fare schifo e allora ecco che si entrava in un circolo vizioso. Una volta, tuttavia, aveva quasi ceduto alla curiosità, alla tentazione di provare, poi però si era ricordato di non voler diventare un miserabile fino in fondo.
Si fermò e si guardò in giro, chiedendosi dove stesse andando con esattezza. Realizzò di non saperlo, dato che non conosceva Shreveport. Avrebbe potuto fermare un taxi, ma dubitava che il tassista gli avrebbe offerto una corsa gratis, e comunque non aveva un posto dove trascorrere la notte e attendere l'arrivo del giorno.
Intanto la gente camminava frettolosamente per strada, alcuni gli andavano addosso e neppure si disturbavano a scusarsi, come se non si trovasse nemmeno lì o fosse un rognoso cane di strada.
Si scostò i capelli fradici dalla fronte, il mento che gocciolava e il corpo intirizzito dalle fredde e impietose carezze della pioggia, ma quella era una sensazione che conosceva molto bene e che ormai riteneva quasi una sorta di amica. In quei momenti si ricordava di essere vivo, benché subito dopo si ritrovasse spesso a chiedersi quale senso avesse la sua esistenza.
Certo, la Gilda delle Streghe americana gli aveva offerto di entrare a far parte della comunità, ma aveva rifiutato perché nel profondo si sentiva troppo diverso da tutti loro, così tanto da avere la netta sensazione di star molto meglio per conto proprio.
Uccideva mostri e si faceva pagare per questo, e poi cosa, però? Tornava a casa, restava lì in totale solitudine e in attesa del prossimo compito da svolgere.
Mentre evitava l'ennesima pozzanghera realizzò di non essersi mai sentito così solo, smarrito e pieno di desolazione.
A cosa era servito scappare da New York? Cos'era cambiato? Valeva la pena fuggire, quando in fin dei conti la sua vita non aveva alcun valore, neanche per lui in primo luogo? Diamine, si era ripromesso di dare la caccia a chiunque avesse fatto fuori il signor Barlow, ma non era riuscito a scoprire assolutamente nulla su chi o cosa si fosse preso la vita di Lance quella maledetta sera di settembre. Aveva indagato e aveva soltanto ottenuto, non molto tempo prima, di incappare nelle persone sbagliate e dover così fuggire pur di non incrociarle nuovamente.
Era fuggito, sì, lo aveva fatto quando a New York aveva capito di esser stato preso di mira da una gang o qualcosa del genere che sapeva cosa faceva e chi e cosa era. Appena il tizio che capeggiava quel branco di manigoldi aveva avanzato nei suoi riguardi una strana e inquietante proposta era scappato dalla Grande Mela senza guardarsi indietro, poco importava che gli avessero promesso in cambio una lauta ricompensa. Non gli era piaciuto per niente lo sguardo negli occhi freddi di quell'individuo, Olegov o come diamine si chiamava. Un maledetto stronzo con il cognome slavo e la faccia da pappone che gli aveva proposto di sottoporsi a degli esperimenti di chissà quale natura. Neanche aveva voluto sentire il resto e se n'era andato subito da quella casa.
Con un sospiro riprese a camminare, sperando di farsi venire qualche idea in mente a furia di errare come un'anima persa per le strade di Shreveport.
«Ehi, aspetta!»
Strinse le labbra e imprecò rabbiosamente quando la voce del tizio del locale risuonò alle sue spalle, in parte coperta dallo scroscio interminabile della pioggia.
Era stanco, aveva freddo, i crampi continuavano a imperversare implacabili e la nausea non accennava a svanire. Non era per niente in vena di tollerare altre prese per i fondelli. Dio santo, di lì a poco avrebbe rimesso anche le budella sull'asfalto!
E poi, prima, in bagno, per un attimo aveva nutrito il sospetto che la vicinanza del tipo biondo avesse in qualche maniera contribuito a peggiorare i suoi già insopportabili sintomi da pre-ciclo. Pareva assurdo, ma era così. Conosceva bene il proprio corpo e sapeva che di solito non reagiva così impietosamente alla presenza di qualcuno. La sensazione si era fatta più intollerabile e fastidiosa quando lo sconosciuto gli aveva afferrato il braccio, ecco perché si era sbrigato ad allontanarlo e ad alzare i tacchi.
Deciso a seminarlo e ad allontanarsi da lui il più in fretta possibile prima di perdere sul serio il controllo, superò il marciapiede con la chiara intenzione di attraversare la strada e raggiungere la parte opposta rispetto a dove si trovava.
Fu un errore madornale, ma Crystal non arrivò mai a realizzarlo.
In un battito del cuore una macchina non accennò a rallentare in tempo e il ragazzo, come c'era da aspettarsi, venne travolto in pieno. L'ultima cosa che vide, prima dello schianto e di quel breve e intenso dolore, prima del buio che poi calò su ogni cosa, fu il riverbero accecante di due fari anabbaglianti.
Un nero e opprimente silenzio, infine, mise a tacere il mondo intero che lo circondava.
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