𝐈𝐗. 𝐔𝐧 𝐛𝐮𝐨𝐧 𝐢𝐧𝐢𝐳𝐢𝐨


Casey e Noah fissarono con aria ebete l'Alfa per cinque minuti buoni prima che il primo, senza preavviso alcuno, sbottasse: «Che cosa hai fatto tu?»

Diversi avventori del locale si voltarono a fissare il tavolo al quale erano seduti lui, il suo fidanzato e Vargos, quest'ultimo appena tornato dal viaggio a Caverney Town da solo qualche ora.

Elimar fece cenno al giovane Leroin di calmarsi e di tornare a sedersi, poi rispose: «Ricordo bene i trascorsi fra te e Dominic, Casey, ma non potevo lasciare una situazione del genere a se stessa, non quando avevo il potere di fare qualcosa di concreto».

Noah era combattuto. «Beh... in effetti ha senso che abbia deciso così» concesse con molto giudizio. Casey gli rifilò un'occhiata inviperita che venne deliberatamente ignorata.

Vargos esitò. «Non so a quanto potrà servire il mio intervento. Dominic è in stato vegetativo, ormai, e il suo trasferimento ha causato altre complicazioni che al momento l'ospedale sta gestendo. Mi sono offerto di pagare le spese del ricovero e delle cure per conto di Cora, era il minimo che potessi fare per quella povera donna. In fin dei conti conosco i suoi figli e lei da quando ero bambino, io e Dominic giocavamo insieme, eravamo amici. Anche se poi è cambiato tutto, non posso voltare le spalle al passato e fingere che nulla sia mai avvenuto. Senza contare che altre due cose mi abbiano spinto a prendere con molta serietà la questione di Dominic.»

«Quali?» incalzò l'Indigo con una smorfia, solo per poi attenuare la durezza nell'espressione quando vide quanto Vargos apparisse stanco e spossato, quasi smagrito. Lo guardò portarsi la tazza di caffè alle labbra e ingerire un generoso sorso della calda bevanda.

Noah intervenne: «Puoi dirci tutto anche dopo o direttamente domani. Io... io penso che dovresti riposare un po', onestamente. Hai delle occhiaie da far spavento, Vargos».

L'Alfa sorrise di sbieco. «Tutta questa faccenda mi sta togliendo il sonno, lo ammetto, ma non sono stanco dal punto di vista mentale. Posso reggere benissimo, fidatevi.» Schiarì la voce. «Per spiegare il presente, prima è d'obbligo prendere in esame il passato. Dimmi, Casey, eri al corrente che Cora non sia figlia unica?»

Casey si accigliò e scosse la testa. «No. Non ho mai ficcato troppo il naso negli affari dei Tarren e mai ho avuto occasione di farlo. Dominic non mi diceva praticamente niente. Lui... uhm... si prendeva solo tutte le libertà possibili e immaginabili con me.»

Vargos annuì gravemente. Inorridiva al solo pensiero di cosa avesse dovuto passare Casey e in parte si sentiva in colpa ad aiutare l'uomo che lo aveva rapito e tenuto prigioniero, nonché seviziato e costretto a cose umilianti. «Bene, ora lo sai. Ha una sorella minore, Louise, e se le cose stanno come sono sicuro che stiano, Cora è una parente più o meno stretta di Crystal. Louise, infatti, era la madre di Emery, l'Omega che quasi per certo diede alla luce il ragazzo. Questo renderebbe Louise, dunque, la nonna di Crystal.»

Gli altri due fissarono Vargos a occhi sbarrati. «Quindi Cora sarebbe sua zia, invece?» incalzò Noah. «Questa devi spiegarcela per bene!»

«È semplice come appare, fidati. Va detto, tuttavia, che Cora e Louise, purtroppo, non si vedono né parlano da molti anni, da prima che Emery morisse.»

«C'era lo zampino di quella scoria radioattiva vivente di Simon, vero?» intervenne Casey cupo.

«Sì, purtroppo. Louise e suo marito, Mitchell, non erano in buoni rapporti con Simon, mai stati, ma le cose subirono un drastico cambiamento quando Emery espresse la volontà di voler sposare Dion Hawthorn. All'epoca per alcuni era grave che un Alphaga volesse unirsi in matrimonio con un individuo di specie diversa dalla sua, uno strego, come se non bastasse. Simon costrinse sua moglie a non frequentare mai più la sorella né il nipote, non le fu concesso neppure di presenziare al matrimonio di Emery. Quando... quando venne a risapere che poi il ragazzo, purtroppo, era morto in circostanze orribili, per lei fu un duro colpo tanto quanto lo fu chiaramente per i Lilrose. Quando le ho detto che Crystal potrebbe essere il figlio di Emery e Dion, ho visto nei suoi occhi un barlume di speranza riaccendersi. Potrebbe essere l'occasione giusta, per lei, di riallacciare finalmente i rapporti con sua sorella e per Crystal... beh... di avere finalmente una famiglia cui appoggiarsi, un'identità da riscoprire. Detto fra noi, Mitchell e Louise sono una coppia molto benestante e avrebbero a quel punto qualcuno al quale lasciare in eredità i loro possedimenti, cosa non da poco per un ragazzo che fino ad ora ha avuto una vita difficile. Per Crystal sarebbe una svolta enorme.»

«Nonché quella giusta» concesse Casey, pensieroso. «Non so, però, quale potrebbe essere la sua reazione. Ha reagito male al solo sentirmi parlare di una collaborazione per accoppare come si deve Olegov. È geloso dei propri affari e si comporta come se tutto potesse rivelarsi una possibile minaccia per la sua sicurezza.»

«Sono discorsi differenti» replicò paziente Vargos. «Qui parliamo di legami, di una famiglia che tanti anni fa andò in pezzi e potrebbe finalmente tornare a essere unita attraverso il bambino che quella notte sopravvisse grazie a Emery e al suo sconfinato amore che lo indusse a sacrificare quel che gli restava da vivere per il suo unico figlio non ancora nato. Credo... credo che in parte anche l'anima di Dion potrebbe trovare un po' di pace. Suo figlio è in mani sicure, sta per vendicare i genitori e riconquistare il suo posto all'interno della società Alphaga. C'è molto di cui esser fieri.»

«Sarai tu a dirglielo, immagino» intervenne Noah.

«Sì, esatto.»

«Auguri, allora. Se è vero quanto afferma Casey, credo proprio che ti servirà qualche aiuto divino. Quello lì è pura dinamite.»

«Sì, Ragos mi ha detto che ha un carattere tosto. A giudicare da quel che si diceva di Emery, penso che questa qualità l'abbia ereditata dai Lilrose.»

«A proposito dei Lilrose...» Casey posò i gomiti sul tavolo. «È un cognome davvero singolare. Non che il mio sia chissà quanto comune, per carità, ma questo lo batte decisamente!»

Vargos sorrise di sbieco. «In effetti è particolare. Mio padre mi disse che in realtà gli avi dei Lilrose erano di origine tedesca. Significa letteralmente ‟rosa viola".»

Leroin si accigliò. «Curioso...» disse fra sé. «Un po' di tempo fa raccontasti di una famiglia tedesca che sfidò quella dei miei progenitori e venne sterminata. I Rozenheim, giusto?»

«Sì, esatto, ma non penso che le cose siano collegate. Come ho già detto, i Rozenheim vennero sterminati.»

«Non è esatto.» 

Quasi sobbalzarono tutti e tre quando una voce si intromise: Ariel era in piedi accanto al loro tavolo. Era stato lui a intervenire lasciandoli sì e no di sasso.

Noah si accigliò. «Che vuoi dire?»

Aguillard guardò Vargos. «Non dirmi, Elimar, che i tuoi genitori o i tuoi nonni non ti hanno mai raccontato delle voci che circolavano sui Rozenheim!» Sembrava davvero sconvolto.

Vargos deglutì e faticò molto a ignorare l'aspetto dell'Omega che gli sembrava più splendente che mai. Forse era colpa dei raggi del sole che provenivano dalla vetrata proprio alla loro destra e baciavano la figura di Ariel. Doveva essere per quello. Magari era colpa del caffè caldo che aveva bevuto se avvertiva un intenso calore sulle guance. Fatto stava che aveva la gola secca come se si fosse tramutata in una cava di sabbia. «Uhm... n-no, direi di no.»

«Oh, per piacere!» Ariel sbuffò, si raccolse i capelli in una bassa coda imprecisa e se li legò come faceva sempre quando era stizzito o stava per darsi da fare. «Tutti la conoscono, diamine! Non per vantarmi, ma quand'ero bambino me la raccontavano spesso e la ricordo a menadito!»

«Allora dicci quello che sai e basta» replicò Casey, lanciandogli un'occhiataccia.

Aguillard annuì e ignorando uno degli avventori che stava protestando e cercando di attirare la sua attenzione, disse: «Secondo questa leggenda, non tutti i Rozenheim trovarono la morte. Più o meno, si intende. La famiglia in sé per sé non ebbe scampo, il principe Demetrius ne fece uccidere alcuni durante la battaglia che distrusse il castello e la città che si trovava sotto la protezione dei Rozenheim, altri invece vennero fatti giustiziare pubblicamente. Sembra, tuttavia, che il figlio minore del principe Albert, Johan, avesse un amante. Albert era a capo dell'intera casata e aveva avuto due figli, entrambi Alfa. Il maggiore, Carl, venne ucciso durante l'assedio e la sua compagna Omega fu assassinata insieme al figlioletto di cinque anni. Dicono che si erano riparati in una delle torri e che fu Demetrius in persona ad assassinarli senza pietà. Non si fermò neppure quando dovette occuparsi del piccolo. Johan, però, stando al racconto, non era sposato, ma aveva appunto un amante tra la servitù, uno sguattero giunto al servizio della famiglia solo l'anno addietro. La leggenda racconta che questo ragazzo, di cui mai si seppe l'identità, portasse in grembo il figlio bastardo di Johan. Dicono che quest'ultimo ordinò alle proprie guardie di scortare in salvo il giovane in modo da permettergli di vivere e mettere al mondo il bambino, così che almeno un Rozenheim, seppur nato bastardo, potesse sopravvivere al massacro. Ad oggi non si sa nient'altro né chi sia stato per primo a spargere in giro questa voce che sa tanto di mito, ma a me piace pensare che tutto sia possibile e che forse qualcuno, secoli fa, riuscì davvero a salvarsi».

Vargos e gli altri erano attoniti, tuttavia Elimar quasi subito cercò di tornare coi piedi per terra: «Beh, uhm... potrebbe essere plausibile, ma ci sono prove concrete di questo? Voglio dire, stiamo pur sempre parlando di una leggenda, di qualcosa che solo per sentito dire parrebbe esser avvenuto secoli fa!»

«Non so cosa dirti. Io, una volta, volli cercare di saperne di più, ma sui Rozenheim non trovai altro che ciò che tutti sappiamo grazie ai libri che conservano la storia del nostro popolo. Se davvero quel ragazzo esistesse o meno, purtroppo, non ci è dato saperlo. Magari è così, però... sono tante le cose che possono accadere a un Omega in un mondo inospitale come quello in cui visse il nostro misterioso personaggio. Forse esisteva davvero, forse sul serio portava dentro di sé l'unica speranza rimasta ai Rozenheim, ma potrebbe anche essere morto subito dopo o non avercela fatta a fuggire. Potrebbe esser morto di parto insieme al bambino, magari nei boschi nei quali a rigor di logica sarebbe dovuto addentrarsi. Sono tante le possibilità.»

Casey sospirò. «Eppure, se davvero fosse esistito questo ragazzo... un nesso potrebbe esserci, per quanto fragile e assurdo.»

«Che intendi? Quale nesso?» domandò Ariel, incuriosito. 

Cas, pur sapendo di star per dirla grossa, decise lo stesso di rischiare: «Trovo sospetto che i Lilrose abbiano a che fare, in qualche maniera, con i Rozenheim. I cognomi come il loro o come il mio non sono comuni, sono i più antichi e nobili e, soprattutto, prendono sempre spunto dai fiori e non c'è mai un cognome che somigli a un altro o con la stessa specie di pianta. Non vi sembra strano, quindi? Sia nel cognome Rozenheim che Lilrose c'è una parola ricorrente: rosa».

Ariel era combattuto, proprio come gli altri. «Non è da escludere, ma non abbiamo alcuna prova, Casey. Per quel che ne sappiamo, tutti loro morirono in un solo giorno trucidati da Demetrius e il suo esercito assetato di sangue. Una semplice assonanza non è una garanzia. Potrebbe essere solo una coincidenza.»

Leroin aveva una leggera nausea al pensiero di cosa fosse stato capace di fare quel suo avo. Uccidere tutte quelle persone senza risparmiare neppure i bambini e i più deboli...
Demetrius doveva esser stato un vero mostro senza cuore, poco importava che fosse salito al potere da giovanissimo. Neppure l'immaturità, magari un carattere infantile e capriccioso, scusavano una tale dose di crudeltà.

Forse, inconsciamente, stava cercando in ogni maniera di ricucire lo strappo, di trovare una piccola assoluzione e redenzione per la propria famiglia che, a conti fatti, aveva le mani sporche di sangue innocente e alla fine aveva avuto quel che si meritava, ovvero la caduta dalla grazia. Tutte le famiglie potenti che perpetravano la violenza e regnavano crudelmente trovavano pane per i loro denti. Era un dato di fatto. «Eppure quel medaglione di Crystal deve significare qualcosa. Non è un gioiello qualsiasi e comunque è fin troppo vistoso per non avere una storia alle spalle. Cosa sappiamo a riguardo?» chiese a Vargos.

Elimar rifletté. «L'ho chiesto a Cora e lei mi ha risposto che, per quel che ricorda, apparteneva alla famiglia Lilrose da diverso tempo. Era un loro autentico cimelio che veniva tramandato con l'avanzare delle generazioni. Suppongo che Emery, prima di morire, lo consegnò a Dion e Dion... beh... lasciò solamente quello in eredità a suo figlio. Crystal, in effetti, ha detto che è la sola cosa di valore che abbia mai posseduto e che mai si è sognato di vendere, neppure quando aveva un disperato bisogno di soldi. È autentico, questo lo sappiamo con certezza. Una volta lo fece esaminare da una persona esperta di gioielli e fu appurato che era d'oro zecchino e purissimo.»

Ariel si morse il labbro inferiore. «Forse, se glielo chiedessi, mi permetterebbe di esaminarlo di persona» disse. «Tra non molto finisce il mio turno, come Noah sa bene» aggiunse, sogghignando all'espressione insofferente dell'ibrido. «Magari posso fare un salto da Crystal e vedere se riesco a convincerlo. Sembra avermi preso in simpatia.»

Casey sorrise. «Saresti un vero angelo, Ariel.»

«Nah, preferisco rimanere un demonio» lo rimbeccò scherzoso Aguillard, facendogli l'occhiolino. Ripensando a quel che si erano detti, alla fine scelse per una volta di superare i propri personali paletti nei confronti del mondo, soprattutto di Vargos, e chiese a quest'ultimo se per caso gli andasse di accompagnarlo.

Elimar rimase inebetito. Noah, dunque, gli diede un calcio da sotto il tavolo. «Oh, uhm... b-beh... suppongo che... s-sì, mi sembra un'idea eccellente» biascicò l'Alfa, impaperandosi.

Ariel annuì. «Molto bene.»

Casey si alzò. «Io, ora, devo tornare a casa dai bambini. Tenetemi aggiornato, mi raccomando. E tu...», si chinò per baciare Noah sulle labbra. «Non rincasare troppo tardi, stasera.»

McKay sorrise di sbieco e gli rubò a sua volta un secondo bacio. «Tu, piuttosto, non impazzire con quei tre demonietti.»

«Farò del mio meglio.» Leroin guardò Vargos, poi Ariel e a quest'ultimo rivolse un'occhiata complice. «A proposito, quando hai detto che avevi una sorpresa per me, intendevi forse che mi avresti fatto venire un colpo portando qui Dominic?» gli chiese, a metà fra lo scherzo e il rimprovero.

Il governatore di Mythfield si batté una mano sulla fronte, come se si fosse finalmente ricordato qualcosa di importante. «Giusto!» esclamò. «Mi avevate parlato di Samuel Evans e quando sono andato a Caverney Town sono riuscito a rintracciarlo!»

«Chi diavolo è Samuel Evans, adesso?» fece Ariel stizzito.

«Una lunga storia. Avrete tutto il tempo per parlarne in auto» lo apostrofò in risposta Noah. «Allora, come sta? Dicci tutto» aggiunse, rivolgendosi ad Elimar.

Vargos sorrise. «Sta bene, per fortuna. Alla fine ha deciso di tornare nella baita fra i boschi dove vi eravate rifugiati dopo esser fuggiti dalla prigione ed è lì che Idris lo ha rintracciato. Da quel che ne so, Idris ha deciso di ospitarlo a casa propria per un po', ma è probabile che Samuel venga presto qui. I suoi genitori, dopotutto, quando ho detto loro che la situazione non era delle migliori hanno scelto di andarsene in fretta da Caverney Town e rifugiarsi ad Amberpond. È una città di Alphaga e non dista molto da qui. Il suo sindaco è in ottimi rapporti con me, perciò sono tranquillo e mi fido a rimettere alle sue cure gli Evans.»

Casey, però, lo fissava con tanto d'occhi. «Un attimo... Idris sta ospitando Samuel? Sul serio?»

«Beh, sì. Perché?»

«Uhm, come spiegartelo in breve? Diciamo che quei due vanno d'accordo più o meno come il diavolo e l'acqua santa!» intervenne Noah, scioccato quando il compagno.

Vargos impallidì lievemente. «Ma allora perché...»

«Perché gli sei simpatico e sapeva che non potevi occuparti di tutto. Idris è un pezzo di pane, sotto sotto» riprese parola Ariel con un mezzo sorriso.

«Lo conosci?» chiesero in coro gli altri tre.

Aguillard si strinse nelle spalle, non capendo proprio la loro sorpresa. «Con chi credete abbia parlato, anni fa, per sapere che tipo era Coso qui, dopo che Ethel gli aveva fatto una soffiata? Santa pace! Pensavo lo sapeste! E poi... beh, da allora di tanto in tanto ci vediamo per bere qualcosa.» Detto ciò si allontanò per andare nel retro del locale a cambiarsi.

Casey soffocò una risata. «A quanto pare sei materia di pettegolezzi, Vargos» disse sbarazzino ad Elimar. «Persino Ariel, alla fine, tesse le tue lodi a poveri streghi in difficoltà.» Non lo stupiva che Idris e Ariel, comunque, se la fossero intesa tanto da stringere una sorta di amicizia.

Vargos si limitò a sorridere debolmente e a salutare con un cenno Leroin appena quest'ultimo si rese conto che era tardi e doveva tornare a casa. Non per niente, ma sua madre si era trovata un lavoro in zona e suo nonno, all'età che aveva, non poteva star dietro più di tanto a tre neonati bisognosi perennemente di attenzioni.

Noah si mise al lavoro qualche minuto prima che Ariel finalmente tornasse dal retro del locale. Non trovando Elimar da nessuna parte, chiese a McKay spiegazioni. «Ha deciso di aspettarti fuori, in auto» replicò l'uomo.

Fu allora che Ariel dimostrò di essere, sotto l'apparente superficie di disinvoltura, nervoso e teso. «Non ho riflettuto quando gli ho chiesto di accompagnarmi» confessò. «Ho fatto una stronzata.»

Noah scosse il capo. «Invece è stata una bella mossa, Ariel.»

«Sì, ma...»

«Sai che ho ragione.»

«Beh, in fin dei conti è solo lavoro o qualcosa di simile. Giusto?»

«Certo.» Noah sorrise beffardo. «Cercate di arrivare sani e salvi da Crystal, piuttosto. Per il resto si vedrà!»

Dentro la macchina di Vargos regnava l'assoluto silenzio. Né lui né Ariel avevano cercato di instaurare una conversazione e il primo, soprattutto, pareva quasi essersi chiuso in se stesso. Ariel lo aveva convinto a cedergli la guida, vedendolo visibilmente stanco e spossato.

Stufo di quel silenzio che perdurava da quasi dieci minuti buoni, alla fine si schiarì la voce e disse: «Prima, con Casey e Noah, parlavi a ruota libera. Com'è che ora te ne stai zitto zitto?»

Vargos parve cadere dalle nuvole nel momento in cui si voltò a guardarlo e sbatté le palpebre, quasi inebetito. «Uh? Cosa?»

Ariel ripeté.

Elimar, chiaramente imbarazzato, si massaggiò la nuca e si strinse nelle spalle, senza guardare direttamente il coetaneo. «Non lo so. Prima... io... ecco...», scosse la testa. «Solo quando devo parlare di cose inerenti al mio compito riesco a conversare in maniera normale. Non ho molto tempo libero né tante occasioni per chiacchierare del più e del meno, a esser sincero.»

Era proprio come aveva detto Casey: in circostanze normali e di neutralità Vargos andava nel pallone e si chiudeva a riccio, diventava insicuro come un ragazzino. Non era poi così cambiato dai tempi del liceo.

Aguillard si accigliò. «Con Ragos non parli mai di niente, scusa?»

«Una volta parlavamo, ora non più così tanto.»

«Per via di Rory?» si azzardò a domandare Aguillard.

«Sì e no. Non è più stato se stesso da quando... da quando è successo. Si è chiuso nel suo mondo. Ethel mi ha detto che ogni tanto alza troppo il gomito volutamente. La governante che è rimasta a casa nostra e lavora ancora per la nostra famiglia ha riferito che non lo vede quasi mai mangiare. Rifiuta continuamente i pasti e... beve, fuma, a volte le capita di vederlo piangere o sprofondare in momenti di apatia totale.» Vargos cercò di mantenere un minimo di contegno. «Io ancora devo fare i conti con la consapevolezza che mio fratello, in parte, se ne sia andato per sempre come Rory. Non lo riavrò mai indietro e forse... forse, prima o poi, lo perderò del tutto. Prima o poi la signora Basil mi telefonerà, una mattina, e mi dirà di averlo trovato morto.» Sapeva di suonare fatalista e di star forse esagerando, ma era la prima volta che gli capitava di parlare sul serio con qualcuno dei problemi di Ragos e di ciò che temeva sarebbe accaduto un domani non molto lontano. «Non mi permette di aiutarlo. Mi respinge. Una volta mi ha urlato addosso, mi ha detto che non potevo capire cosa stava passando, cos'aveva perso, che per lui non vi fosse altro modo di trovare la pace se non ammazzarsi, farla finita per sempre. Io... io neanche gli ho risposto. Insomma, cosa si dice di fronte a una situazione del genere? Cosa puoi dire a tuo fratello che rivela di voler morire, che prima o poi si ucciderà perché non lo capisci, non comprendi il suo dolore e questo lo fa sentire più solo che mai?»

Cosa lo angosciava e faceva vivere nel costante terrore era l'aver riconosciuto i segnali d'allarme perché ci era già passato. Ragos, ovviamente, non poteva ricordare tutto ciò che era accaduto durante la sua infanzia, ma lui, purtroppo, invece ricordava bene ogni cosa. Ricordava di aver visto suo padre svegliarsi con lo sguardo sempre un po' più spento e stanco; di averlo udito piangere oltre la porta dello studio in cui era stato solito rintanarsi per lavorare o rilassarsi. Ricordava di aver cercato di parlargli, di coinvolgerlo in delle attività tipicamente da padre e figlio, ma non aveva funzionato. Aveva fallito, altrimenti non avrebbe saputo spiegare in altre maniere perché, alla fine, una sera incappò nel cadavere di Farron che penzolava da una corda appesa alle travi della camera da letto padronale. Solo per miracolo, per una contingenza fortunata di eventi, Ragos non aveva collezionato l'ennesimo trauma: in quei giorni, infatti, era andato in campeggio con altri coetanei, perciò Vargos era rimasto da solo con i domestici e con Farron. Rimembrava molto poco di quegli istanti tremendi. Sapeva solamente di esser corso a rotta di collo giù dalle scale e di aver chiamato a squarciagola la signora Basil, di averla pregata di chiamare un'ambulanza perché suo padre si era impiccato. Non si era reso conto di rifiutare la realtà, che ormai il peggio si era verificato. Non lo aveva accettato finché lo sceriffo Aguillard, avvolgendogli un braccio attorno alle spalle e scortandolo in una stanza appartata e tranquilla, con calma gli aveva parlato e spiegato la situazione, compreso un dettaglio importante: da allora in avanti, in quanto unico parente ancora in vita di Ragos, sarebbe spettato a lui prendersi cura del suo fratellino. Naturalmente, aveva aggiunto Ellis che, con evidenza, stava soffrendo per la morte di un caro amico, Vargos e il fratello avrebbero trovato nella sua dimora e nella sua famiglia un punto d'appoggio, un rifugio, se necessario.

Si era sentito minuscolo davanti alla prospettiva di dover pensare non solo al proprio di futuro, ma anche a quello di Ragos, all'epoca un ragazzino già di per sé esuberante e poco ubbidiente. Uno di quei fratelli minori che davano il tormento a quelli maggiori, ma Vargos non se l'era mai presa per i suoi scherzi e ci aveva riso sopra. Fino ad allora il loro era stato un rapporto sereno e forte, ma appena Ragos era tornato a fronte della notizia della morte del solo genitore che fosse rimasto loro, tutto era cambiato. Si era chiuso in camera da letto per un giorno intero e aveva permesso solamente alla signora Basil, la governante che li aveva visti nascere e crescere, di entrare per parlargli e convincerlo a uscire da lì. A Vargos, però, non aveva rivolto la parola per una settimana e a poco erano serviti i suoi sforzi per tentare di tamponare quella che era stata un'autentica emorragia famigliare e, nel frattempo, custodire la verità dietro alla scomparsa di Farron. Si era detto che non occorresse dire a suo fratello tutto quanto, ma solo la parte meno dolorosa di un concetto di per sé difficile da digerire. Che senso avrebbe avuto, in fin dei conti, portare in due un peso come quello? Nessuno a Mythfield sapeva che Farron si fosse suicidato e lo sceriffo, tutti coloro che quella sera avevano assistito alla rimozione del cadavere, di comune accordo, supportati da Vargos, avevano deciso di raccontare una bugia misericordiosa a tutti coloro che avevano stimato quell'uomo.

Malgrado tutto questo, era stato difficile per lui togliersi i panni di fratello maggiore e brillante studente di liceo per indossare quelli di ragazzo-padre che a stento ce la faceva a tirare avanti senza desiderare di imitare il gesto del padre defunto. Si era intestardito nell'essere lui a recare il peso del gestire un ragazzino irrequieto di tredici anni che gli ripeteva che non sarebbe mai stato come papà e che lo odiava. Un fratello minore che a quindici anni, poi, gli aveva urlato in faccia che avrebbe voluto che fosse stato lui a morire, anziché Farron. Così almeno avrebbe avuto ancora un padre e non un fratello rompiscatole, aveva aggiunto.
Vargos si era fatto scivolare di dosso ogni singola cosa, capendo alla perfezione il disagio di Ragos, il suo dolore e la sua rabbia, perché in fin dei conti riflettevano i suoi medesimi sentimenti. Anche lui, a volte, aveva pensato che volentieri si sarebbe scambiato di posto con il padre, convinto che non sarebbe stato mai alla sua altezza in nessun campo e che Mythfield, prima o poi, sarebbe piombata di nuovo nel disordine.

La verità era che un bambino non avrebbe dovuto crescere un altro bambino, ma l'alternativa sarebbe stata ancor peggiore e l'idea di perdere Ragos, di vederlo andarsene con degli assistenti sociali in un'altra famiglia, lo aveva terrorizzato. Era tutto ciò che rimaneva della famiglia Elimar insieme a lui e in fin dei conti lo aveva spronato a dare il massimo e a sbrigarsi a terminare gli studi e gestire la città nel migliore dei modi. Magari aveva sbagliato e avrebbe dovuto lasciar andare suo fratello, ma sfidava chiunque a restare impassibile mentre quel po' di famiglia che gli era rimasta veniva spazzata via completamente. Alcuni dicevano che avesse rinunciato ad avere una vita normale, a godersela come altri della sua età, ma per quel che lo riguardava sapeva che tutte quelle difficoltà lo avevano solamente fortificato e reso responsabile. Le cose con Ragos si erano appianate, specialmente da quando chiaramente fra quest'ultimo e Rory era nato qualcosa di speciale, ma la morte del giovane Elwood aveva distrutto quel miglioramento in pochi secondi.

E c'era chi davvero gli domandava come mai ce l'avesse tanto con Olegov e perché mirasse a consegnarlo alla giustizia o, meglio ancora, ucciderlo con le proprie mani. Lui sapeva quali motivi lo spingevano a perseverare e tanto bastava per non mollare la presa, ma un conto era eliminare un individuo malvagio e un altro salvare Ragos che purtroppo era condannato all'infelicità, a una morte vissuta per metà. Sapeva di non poter salvare tutti, ma non accettava di non poter almeno provarci. Come poteva arrendersi quando in ballo c'era la vita di suo fratello?

Ariel, nel frattempo, aveva avuto l'idea non proprio malvagia di fermare l'auto sul ciglio della strada; dopo densi istanti di silenzio, lentamente si voltò a guardare il coetaneo e lo squadrò. «Tuo fratello non mi è mai garbato, Vargos. Mai, neppure prima che Rory morisse o si mettesse con lui. Voglio dire, è da una vita che io attacco briga con lui e viceversa, è sempre stato così. Ricordo che quando era piccolo lo trovavo insopportabile e ancor la penso così. L'ho sempre considerato un cazzone presuntuoso e irresponsabile, non lo nascondo. Sì, gli ho augurato qualche volta di crepare proprio com'è accaduto al mio migliore amico e sì, tuttora vorrei spaccargli la faccia per non aver prestato più attenzione a Rory, ma a sentire certe cose... lo ammetto... mi sento un cane.» Sbuffò. Gli costava non poco fare quelle ammissioni, ma forse... forse Casey non aveva del tutto torto o forse era lui a essersi rammollito.

Vide che aveva la totale attenzione di Vargos. Gli occhi grigi di Elimar, infatti, erano fermi su Aguillard, anche se facevano di tutto per non incrociare lo sguardo del coetaneo.

«Non te lo sto dicendo per ripulirmi la coscienza, credimi» continuò Ariel. «Voglio solo dirti che allora, se la situazione è questa, dovresti prenderti una pausa e pensare a tuo fratello. Fallo, altrimenti una volta o l'altra le sue parole, le sue imprecazioni, diventeranno una realtà concreta. Non c'è un tasto di reset, Vargos. Non si torna indietro come in una dannata serie Netflix dove non devi far altro che premere un pulsante per risolvere tutto. Quando moriamo, moriamo e basta. Fine dei giochi. Alla morte non frega un cazzo se poi piangi, ti disperi e ti senti in colpa. Se non vuoi che Ragos muoia, allora non permettergli di farlo. Stagli vicino, va bene? Rory non può essere morto invano e tu non puoi restare a guardare senza fare niente. Sei suo fratello e se ti respinge, insisti. Se ti urla addosso, sta' zitto e lascia che si sfoghi, poi abbraccialo e ficcagli in testa che non è solo e che no, non capisci cosa prova, ma non hai intenzione di lasciarlo andare. Il resto dovrà deciderlo lui.» Lo innervosiva vedere Vargos reagire in modo così passivo di fronte a quella faccenda. «Che cavolo! Torna ad abitare con lui, tanto per cominciare! Non è nelle condizioni di restare da solo in quella casa!»

Gli parve di vedere Vargos rabbrividire. Per la prima volta da quando si conoscevano, lo vide fragile, anzi... spezzato. Non era un bello spettacolo. Ora non lo guardava più e teneva gli occhi bassi come se si vergognasse di parlare. «N-Non posso tornare lì. Non posso, io... io non...»

«Cosa?»

Elimar era sull'orlo delle lacrime. Da quanto non piangeva? Sicuramente da un bel po'. «I-In quella casa ho perso tutta la mia famiglia. P-Prima... prima mio zio, poi... poi mia madre e alla fine anche mio padre. Sento il dolore trasudare da tutte le pareti, da ogni asse del pavimento. Ha divorato tutto il resto, tutto l'amore che un tempo c'era là dentro è svanito. Mi restano solo ricordi brutti e dolorosi.»

«Oh, accidenti! Allora vendetela o buttatela giù, santa pace!» replicò Ariel stizzito. Lo destabilizzava aver a che fare con un Vargos incapace di reagire davanti a una situazione, specie quando riguardava direttamente Ragos. Allo stesso tempo, però, non se la sentiva di biasimarlo. Diamine, in quella casa aveva sul serio perso tutto ciò che amava un pezzo alla volta. Ricordava come se fosse accaduto solamente il giorno prima la sera in cui suo padre, dopo essere rincasato, aveva annunciato al resto della famiglia la morte di Farron Elimar. Per quanto ci fossero stati degli screzi con i figli di Farron, Ariel aveva rispettato sin da bambino la figura di quell'uomo che, a onor del vero, era stato un amico di famiglia talmente caro e stretto da apparire ai suoi occhi come una specie di zio acquisito. Gli aveva anche fatto da padrino, come se non bastasse, perciò quella notizia orribile era stata come un fulmine a ciel sereno. Non aveva voluto crederci, all'inizio, e ancora lo riempiva di perplessità e faceva un po' arrabbiare che suo padre avesse giustificato l'avvenimento affermando che Farron fosse morto per questioni di salute impreviste. Un problema al cuore, aveva aggiunto Ellis Aguillard sotto lo sguardo scioccato del compagno e del figlio.

Che fosse la verità o meno, nulla toglieva che fosse difficile rimanere dentro un luogo in cui si erano verificate tutte quelle tragedie. La vera domanda era come potesse Ragos resistere al peso dei ricordi di tutto ciò che lui e il fratello avevano perso un po' alla volta.

Vargos scosse la testa. «Non posso.»

«Perché no? »

«Ho promesso a mio padre che non avrei fatto niente di simile e che... che la tenuta sarebbe rimasta in famiglia. Lui... lui me lo fece promettere un po' di tempo prima che morisse.»

Ariel aguzzò lo sguardo. Trovava curioso che Elimar senior, morto senza alcun preavviso, casualmente avesse imbastito con suo figlio un discorso del genere. Da un lato era tentato di approfondire la questione, ma dall'altro era consapevole che le priorità, in quel momento, fossero ben altre. «Con tutto il rispetto per Farron, ormai è morto e sicuramente la sorte di quella bicocca sarà l'ultimo dei suoi pensieri mentre se ne sta nel paradiso degli Alphaga su una spiaggia immacolata e sorseggia un bel Martini Dry all'ombra di una cazzo di palma!» Rendendosi conto di aver esagerato, biascicò subito una scusa, ma Vargos invece rise, seppur debolmente. «Ammetto di... di non aver mai guardato le cose da questa prospettiva pittoresca.» In un certo senso la visione che Ariel gli aveva appena offerto era servita a lenire, sotto certi aspetti, il dolore per il gesto estremo di Farron e il vuoto che egli aveva lasciato andandosene. Non era male immaginare suo padre immerso nella pace di un paradiso terrestre, d'altronde.

«A quanto pare servo pure io a qualcosa. Cavolo, ho fatto ridere Vargos Elimar! Dovrebbero darmi una medaglia al valore!» Ariel mai avrebbe ammesso di aver sentito il cuore farsi più leggero nell'aver visto Vargos sorridere per via di una sua battuta. Deciso a mostrarsi amichevole, sentendo di voler esserlo, anzi, gli batté una mano sul torace e poi, per scherzo, gli scompose per dispetto il nodo in cui aveva raccolto i capelli mossi. «Su con la vita! Piangere alla tua età, poi! Non dirmi che a casa tua hai un intero scaffale di film strappalacrime, perché sarebbe il colmo!»

Vargos sbatté le palpebre, di nuovo inebetito. «E tu come lo sai?» chiese interdetto, non ricordando proprio di aver parlato con Ariel dei propri gusti cinematografici o... beh, di aver parlato sul serio con lui in generale.

Ariel inizialmente lo fissò con aria spaesata, chiedendosi se il coetaneo stesse scherzando o meno. «Ma che... ci ho preso sul serio?» Non sapeva se ridere o meno. 

Elimar, capendo finalmente che Aguillard avesse tirato semplicemente a indovinare, fece spallucce. «Beh, io... uhm...», si morse il labbro inferiore. «Non ci vedo niente di male. Preferisco i film drammatici a quelli comici. Spingono a riflettere.»

«Sì, quando non ti fanno venir voglia di spararti in testa.» Ariel sospirò. «Non ci credo a cosa sto per dire, ma... hai bisogno di un po' di normalità, Vargos. Insomma, di passare un paio d'ore senza dover ripulire i casini altrui.» Esitò. «Ti va se una volta usciamo a prenderci qualcosa da bere insieme? Da amici, ovviamente.»

Vargos pareva sconvolto. «Tu... tu vuoi essere mio amico? Davvero?»

«No, guarda, ti sto solo prendendo per il culo. Vedi, lassù, da qualche parte, dietro lo specchio retrovisore, dovrebbe persino esserci una telecamera nascosta!» Aguillard alzò gli occhi al cielo, fece qualche manovra con i comandi dell'auto e tornò sulla strada, ripartendo. «Certe volte sembri venire dalla luna, Elimar. Sei più tonto di un pesce rosso» brontolò, ma le labbra gli tremavano per lo sforzo titanico che stava compiendo pur di non farsi sfuggire un lieve sorriso.

«Scusa. Non lo faccio apposta» ammise Vargos, in difficoltà. 

«Lo so, ma mi chiedo come sia possibile che tu sia così. A scuola eri circondato sempre da un sacco di ragazzi.»

«Sai com'è: tutti vogliono essere tuoi amici solo quando vogliono qualcosa da te o perché sei il figlio dell'uomo più importante di Mythfield. Nessuno di loro mi ha mai invitato a bere qualcosa o a fare i compiti insieme e... non lo so, mi stava bene anche così. Li lasciavo fare.»

Ariel era allibito. «E perché mai?»

«Mi dicevo che non ne valevo la pena, probabilmente. Però, se potevo dar loro una mano, perché avrei dovuto negargli il mio aiuto? Non erano obbligati a frequentarmi in modo serio, non se non lo volevano davvero. Non è giusto forzare le persone a starci accanto, se non è ciò che desiderano.»

«Non si può sempre dare senza ricevere, Elimar. Si chiama sfruttamento. Anzi, è letteralmente roba da carogne della peggior specie usare gli altri solo quando si ha bisogno di qualcosa. Ora capisco perché erano ansiosi di averti accanto durante i compiti in classe.»

Calò di nuovo il silenzio fra di loro, ma stavolta ebbe vita breve. Vaegos, infatti, disse: «Sai, Ariel... non mi stavi antipatico, a scuola. Io... io ti invidiavo, in realtà».

Se solo non fosse stato uno poco avvezzo al farsi cogliere di sorpresa, Ariel era certo che avrebbe sbandato con l'auto dopo aver udito quella frase. «Mi invidiavi?» ripeté perplesso.

«Il fatto è che tu hai una cosa che io non ho mai avuto e forse non avrò mai: il coraggio. Dio solo sa quanto me ne servirebbe, adesso, e invece so di non averne affatto. Insomma... niente sembra mai spaventarti e persino davanti al dolore reagisci e ti rifiuti di accettare passivamente qualcosa.»

«Ti sbagli.» Ariel cambiò marcia e non osò guardare Vargos mentre, senza voler neppure rifletterci sopra, si accingeva a guastare la visione erronea che il giovane governatore di Mythfield aveva di lui. «Non sono affatto coraggioso come credi.» Una pausa. «Quasi quattro anni fa... io... uhm...», sbuffò, gonfiando le guance. «Stavo per sposarmi.»

Quelle parole provocarono in Vargos un sordo, doloroso tuffo al cuore. Aveva capito bene?

«Dici davvero?»

«Dico eccome. Furono i miei a presentarmi l'Alfa che poi non è mai stato mio marito. Era uno perbene, per carità, e io... io per un po' mi sono illuso di amarlo a mia volta, proprio come mi amava lui. Mi trattava bene, era persino disposto ad accettare una vita senza figli e roba simile. Sapeva che non ne volevo e non ero tipo da tollerare di avere dei marmocchi che scorrazzavano per casa, e lo accettò. Era tutto pronto, mancavano... oh, Dio, quanto? Due settimane? Alla fine non ce la feci più. Sentivo che non ero all'altezza, che avrei solo preso in giro lui e me stesso, quindi decisi di essere sincero. Gli spezzai il cuore. Sapevo che sarebbe finita in quel modo, lo avevo capito da quando avevo imposto alle nostre famiglie di non strombazzare ai quattro venti la notizia del nostro matrimonio e per questo nessuno è venuto a saperne niente. Finì tutto in sordina, con tanto dolore e tanta delusione da parte non solo sua, ma anche dei nostri parenti. I miei genitori, poi, erano abbattuti. Pensavano che sarei stato finalmente felice e con accanto un uomo perbene, e invece avevo infranto i loro sogni. Tu dici che sono coraggioso, ma non ebbi il coraggio sin da subito di impormi, di non spezzare il cuore alla mia famiglia e a quella di un ragazzo che si era persino innamorato di me. Io... io credo di averlo amato a mia volta, ma ero troppo spaventato dalla prospettiva del matrimonio. L'idea di dover legarmi a una persona per sempre, forse di essere costretto poi a vederla soffrire o persino morire, mi terrorizzava. Non sono coraggioso, Vargos. Sono solo una canaglia che preferisce scappare non appena le cose si fanno troppo serie e in ballo inizia a esserci troppo.»

Non aveva detto a nessun altro di quella storia, neppure a Casey o a Noah. Se ne vergognava ancora, come se fosse accaduto tutto solo a distanza di pochi giorni. Si era solennemente ripromesso di non parlarne ad anima viva e invece eccolo lì a confidare i propri segreti a Vargos, fra tanti altri.
Fece un respiro profondo e non resisté alla voglia di accendersi una sigaretta. Espirò il fumo e poi lo soffiò fuori. «A quest'ora, se non avessi scelto la strada più difficile e giusta per me stesso, sarei sposato, costretto a far buon viso a cattivo gioco, forse con già due figli e un terzo nella pancia e il cuore strapieno di un'infelicità che non avrei potuto palesare. Invece sono ancora qui, libero come un uccellino, con alle spalle un mancato matrimonio e ancor prima di esso un aborto. Siamo tutti bravi a essere coraggiosi scappando da ciò che ci terrorizza, Elimar.»

Quando si rese conto di aver rivelato una cosa che in realtà non avrebbe dovuto dire, fu tardi per rimangiarsi tutto. Si accorse di aver detto troppo non appena notò l'espressione interdetta del coetaneo.
Vargos, già sottosopra per via della storia del matrimonio e, allo stesso tempo, incapace di non sentirsi grato che Ariel avesse avuto dei ripensamenti, cercò faticosamente di metabolizzare la questione tirata in ballo da Aguillard per puro sbaglio. «Quando... quando è successo?» chiese. Non se la sentiva di far finta di non aver udito o di sorvolare la questione.

Ariel fece un altro tiro e non si convinse subito ad approfondire il discorso. Non che provasse vergogna a riguardo, ma... era qualcosa di estremamente personale e si odiava per essersela fatta sfuggire di bocca come uno scemo. Che errore da babbei!
Vedere Vargos poi così incline ad ascoltarlo, poi, lo metteva in difficoltà, anziché farlo sentire a suo agio. Elimar non era un tipo bacchettone, lo sapevano tutti, ma valeva la pena parlare proprio di quella cosa?

«Non ti sto giudicando» aggiunse dunque Vargos, forse interpretando il suo prolungato silenzio come un sintomo di sfiducia nei suoi riguardi. «Comunque... se non vuoi parlarne, non sei costretto a...»

«Due anni fa» snocciolò Ariel, interrompendolo. «Non è stato piacevole, per la cronaca, ma non mi pento di averlo fatto. Quel bambino non avrebbe avuto una bella vita, non con me come genitore. Sono un egoista per natura, non avrei saputo come prendermi cura di un neonato. Per quelli come Crystal e Casey è più semplice, ma per gli Omega... beh... lo sai, no? Ci sono due alternative: la prima è farsi operare per rimuovere tutto quanto, la seconda è aspettare e farsi indurre il prima possibile un parto d'emergenza, per così dire.»

Vargos tacque e rilassò la colonna contro lo schienale del sedile senza smettere di guardare Aguillard e di ascoltare con attenzione quel che stava dicendo.

«L'operazione avrebbe richiesto troppo tempo e avevo aspettato così tanto che mi dissero che mi sarebbe convenuto scegliere la seconda opzione. Fu l'evento più triste e sterile della mia vita: spingere fuori dal mio corpo un piccolo essere sapendo perfettamente che non sarebbe sopravvissuto all'esterno e che sarebbe morto nel giro di pochissimo. Quando tutto finì... vidi l'ostetrica prendere in mano quel fagotto di garze insanguinate e intravidi una mano minuscola. Non aveva ancora la pelle ben formata, sembrava... non lo so, fatto di gelatina. Solo per un breve istante mi parve di notare un lieve movimento delle dita. Mi venne la nausea e mi misi a piangere a dirotto. Mi sentii un assassino. Sapevo di aver scelto la cosa migliore per entrambi, ma non potevo non convincermi di avere in realtà ucciso mio figlio. Come intravidi quel movimento ebbi una specie di crisi isterica. Una delle poche volte in cui ho perso la testa e ho agito senza sapere quel che stavo facendo. Dentro sentivo qualcosa di irrazionale che mi ripeteva, mi urlava di prendere con me quella povera creatura e fare qualcosa per salvarla. In una situazione diversa avrei saputo perfettamente che non c'era niente da fare, ma come ho detto... non ragionavo. Ho detto di non essermi pentito della scelta che feci, non che non abbia avuto delle conseguenze sul sottoscritto.»

Di nuovo espirò del fumo dalla sigaretta malgrado le dita che tremavano e che a stento riuscivano a sorreggerla. Bel modo di sputtanarsi sin da subito offrendo alla sua antica cotta adolescenziale una bella vista panoramica dei suoi piccoli, sporchi segreti.

«La mia famiglia non ne ha mai saputo niente, ovviamente. Sapevo come avrebbero reagito. Loro... loro sono quasi del tutto obiettori di coscienza e avrebbero visto un gesto come il mio nel peggiore dei modi e se anche così non fosse stato, non c'era ragione perché dovessero sapere di una cosa del genere. Parlandone avrei poi dovuto spiegare come avessi fatto a restare fregato come un idiota alle prime armi. Ci sarebbe stato proprio da divertirsi, a quel punto.»

Vargos sospirò amareggiato. Il racconto di Ariel lo aveva angosciato, specialmente la parte in cui aveva avuto una crisi di nervi durante l'operazione. Era una cosa piuttosto frequente, per la verità, ma ciò non toglieva che fosse spiacevole da vedersi e da affrontare in prima persona.
«A mio parere saresti stato un padre eccezionale. Voglio dire... non mi sembri un irresponsabile e quando andavamo ancora al liceo tutti i genitori parlavano bene di te nelle vesti di baby-sitter. Credo che te la saresti cavata, Ariel» disse con onestà. «Tuttavia non spetta agli altri giudicare scelte come la tua. Non ti sentivi pronto e hai agito nel modo che ritenevi più corretto. Non ho idea di come ci si possa sentire, non mi è mai capitato niente del genere, ma essere genitori non credo sia il lavoro più facile del mondo e bisogna essere convinti per svolgerlo nel migliore dei modi. Non eri pronto e hai avuto il coraggio di ammetterlo e di fare una scelta ben precisa.»

«Non lo feci solo perché non mi sentivo pronto.» Ariel si sistemò meglio sul sedile. Di colpo aveva il battito cardiaco lievemente accelerato e gli pizzicavano gli occhi. Se doveva proprio parlarne, allora avrebbe detto tutto quanto. «La crudele verità è che scelsi di abortire perché all'epoca ero incazzato da morire con il padre del marmocchio. Non solo mi aveva abbindolato e poi lasciato da solo a gestire il problema, ma era... era anche l'ex fidanzato di mio cugino. Sai, no, Riley... quello che ora è sposato felicemente con Billy. Quello stronzo mi stregò fino al punto da tradire la fiducia di Riley e finì per ingravidarmi come un emerito imbecille. Gli avevo detto e ripetuto che non mi andava di scopare nel periodo del calore, ma una volta mi convinse a farlo ugualmente e rimasi fregato, non avendo avuto il tempo di prendere i Soppressori. All'inizio pensai che si sarebbe assunto le sue responsabilità e quasi mi convinsi a tenere il bambino. Non mi allettava fino in fondo la prospettiva di dover cambiare pannolini e avere un pargolo urlante che ogni due ore avrebbe voluto attaccarmisi al seno, ma... penso che all'epoca mi fossi innamorato di quel ragazzo. Riley, però, scoprì della tresca e lo stronzo fece ricadere tutta la colpa su di me. Riley da quel giorno mi tratta con freddezza e distacco e ha finito per spargere la voce fra i suoi amici che sono una puttana, un rovina-coppie. Come dicevo prima, ero incazzato e scelsi di mandare a monte ogni buon proposito per metter fine alla faccenda.»

Elimar non si era aspettato un retroscena di quel tipo. «Mi... mi dispiace, Ariel. Davvero. Non riesco a immaginare come debba esser stato affrontare tutto questo da solo. Cavolo, che casino...»

Aguillard forzò un debole sorriso. «Uno schifo, semmai.» Gettò il mozzicone dal finestrino. «Beh... sono ancora qui e tanto basta. Piangere sopra il passato non serve a niente.» Non voleva più parlarne, ecco qual era la verità, e si sentì grato vedendo che Vargos non fosse intenzionato a insistere. «Sarà meglio andare a trovare quel matto, adesso.»

Elimar si umettò le labbra. «Sono felice che tu mi abbia parlato un po' del tuo passato, sai? Penso che possa essere un buon inizio.»

Ariel lo guardò di sfuggita e sorrise appena, ma in modo sincero. «Sì. Lo penso anch'io.»

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