𝐈𝐈. 𝐄𝐭𝐡𝐞𝐥
Ormai Crystal abitava nell'appartamento di Grayson da circa una settimana e in quel lasso di tempo si era impegnato a cercare di riportare un po' di ordine in quel pandemonio fatto di pesanti tomi e ciarpame magico d'ogni genere.
Era sabato e quando al crepuscolo Grayson finalmente rincasò, in un primo momento ebbe l'impressione di aver beccato la porta sbagliata: l'ambiente era irriconoscibile. Ogni cosa era stata messa in ordine e Crys aveva fatto tutto da solo aiutandosi solo un pochino con la magia.
Jennings lo vide sul divano intento ad affilare con una buon vecchia pietra pomice la spada d'argento. Quel giorno aveva i capelli raccolti in una treccia a spina di pesce che scendeva sulla schiena e gli dava un'aria completamente diversa. Un po', bisognava ammetterlo, accentuava il suo aspetto già abbastanza fuorviante.
Come il ragazzo fu sul punto di entrare in salotto, Crystal sollevò di scatto la testa e si voltò a guardarlo con aria torva. «Non osare entrare proprio ora! Ho appena finito di passare lo straccio, qui!»
«Uhm, v-va bene» chiocciò Gray in soggezione. Per un attimo gli parve quasi di risentire sua madre, anch'ella facile alla collera se capitava di camminare sul pavimento poco dopo che lei aveva terminato di pulirlo con lo straccio.
«Ecco, bravo» borbottò il biondo, tornando ad affilare la spada. «A proposito... stanotte esco. Non ne posso più di stare in casa e ho appena ricevuto una segnalazione. Starò via, credo, almeno tre giorni. Sembra ci sia qualcosa di strano nelle paludi e sulle rive del Missisippi. Qualcosa che attacca di notte. Dicono si tratti di un alligatore particolarmente famelico e attivo, ma al telefono un poliziotto mi ha confidato che non hanno la più pallida idea di cosa abbia ucciso tutte quelle persone. Ha detto che non si tratta assolutamente di un alligatore, però. Ne è sicuro, perciò è compito mio far luce su questa faccenda e assicurarmi che quell'affare non faccia più del male a nessuno, qualunque cosa sia. Spero solo che non mi tocchi di aver a che fare con un Kelpie. Sono difficili da individuare perché si mimetizzano negli acquitrini e per giunta nuotano a velocità impressionante. Francamente non ho alcuna voglia di tuffarmi nel Missisippi.»
Non era molto saggio vedersela con un mostro come quello, che fosse un Kelpie o qualcos'altro, a una settimana dalla fuga dall'ospedale, ma aveva bisogno di lavorare e comunque quella era anche una questione di dovere morale. Non poteva semplicemente lasciar perdere. Non era solo per la paga alquanto alta e invitante che faceva quel che faceva, d'altronde.
Gray deglutì. «Hai detto che sei rimasto ricoverato fino a lunedì, quindi sei uscito da neanche una settimana dall'ospedale. Sei... sei sicuro che... voglio dire...»
«Io dubito di tutto, in realtà» replicò sibillino Crystal rinfoderando con breve e metallico sibilo la spada. «Il mio compito è dare la caccia ai mostri, Gray, ed è un compito privo di scadenze. Se aspetto, ucciderà ancora. Purtroppo questa faccenda si sta verificando nel momento più sbagliato possibile per me, ma la coscienza mi impedisce di rimandare di un solo giorno l'indagine e la soppressione della creatura.» Posò lo sguardo su Biancospino che era tornato circa un paio di giorni addietro e ora se ne stava acciambellato sul divano, proprio accanto a lui. Sembrava depresso. Crys, dunque, passò con affetto l'indice sulla sua testa triangolare. «Dai, ora non mettere il broncio anche tu. Lo sai che torno sempre!»
Il serpente albino si limitò a far guizzare un paio di volte fuori dalla bocca la lingua rossa e biforcuta, poi si srotolò e strisciò giù dal divano, allontanandosi impettito con la testa e un terzo del lungo e liscio corpo a mezz'aria.
Crystal sbuffò. «È sempre più isterico ogni anno che passa» bofonchiò tra sé contrariato per l'atteggiamento infantile del proprio famiglio. A quelle parole, Biancospino parve raddoppiare la velocità con cui stava strisciando via, diretto alla stanza del suo padrone per rinchiudersi nel suo terrario.
Nonostante tutto, Gray sghignazzò a quella scena. «Piuttosto permaloso.»
«Tale padrone, tale serpente. Dopo questo non avrà più topi per una settimana, croce sul cuore. Mi mette il broncio pur sapendo che non ho alternative. Roba da chiodi!»
Jennings prese posto al suo fianco. «Fai attenzione, comunque. Le paludi sono un posto ingrato, credimi. Non c'è bisogno di un mostro per essere in pericolo, laggiù.»
Hawthorn fece un cenno, pensieroso. «In effetti sarà un problema individuare quell'affare con l'acqua torbida a offrirgli uno strategico riparo, specie se dovrò operare di notte.» Mentre rifletteva in silenzio, si sciolse la treccia e si scompigliò i capelli chiari. «Non credo dormirò molto e non ho di certo intenzione di prendermi una camera a New Orleans.» Sbuffò e si rilassò a ridosso dello schienale del divano. «Ci mancava solo un essere schifoso nella palude a coronare un gran bel periodo del cazzo. Stare in ospedale mi ha tolto tempo prezioso che avrei potuto impiegare lavorando di più.» Esitò, poi guardò Jennings. «Se non torno, devi farmi un favore: prenditi cura di Biancospino, va bene? È un bravo serpente e non ha mai morso nessuno. È talmente mansueto che mangia solo topi morti, pensa quanto è tontolone! Non ti darà problemi e avrà bisogno di una famiglia e soprattutto di un amico.» Era spaventosamente serio.
Gray si sentì gelare. «Oh, andiamo! Ora non fare il melodrammatico, su!»
«Melodrammatico? Gray, mi dispiace, ma a questo punto te lo devo dire: c'è un motivo se sono andato via da New York in fretta e furia. Non l'ho fatto solo per cambiare aria, va bene? Dovevo scappare da un losco gruppo di persone con intenzioni ancor più losche. Per quel che ne so, potrebbero aver risaputo in qualche maniera che mi trovo qui e se è così, potrebbero già essere sulle mie tracce. Mentre io sono via controlla sempre dallo spioncino chi c'è oltre la porta, quando qualcuno bussa o suona il campanello. Quando non ci sei, proteggi l'appartamento con degli incantesimi, anzi fallo anche quando sei in casa, giusto per un po' di sicurezza in più.»
«Crystal...»
«Grayson, non sto scherzando, cazzo. Quella è gente che ha ammazzato, gliel'ho letto negli occhi, e non voglio che tu ci rimetta la pelle per via delle mie personali stronzate. Stai all'erta e se c'è qualcosa di strano, non farti problemi a chiamarmi. Tornerò al più presto possibile, se sarò ancora vivo, altrimenti... beh... dattela a gambe e porta con te Biancospino, se riesci. Scappa e fa perdere le tue tracce più che puoi.»
Gray, pur avendo venticinque anni, al momento sembrava un bambino per via degli occhi di una splendida tonalità azzurra ora spalancati e pieni di paura. «Crys, smettila di fare il misterioso e dimmi chi ti sta dando la caccia.» Voleva sapere se poteva dargli una mano in qualche maniera. Era pronto ad aiutarlo, perciò sperava tanto che Crystal, finalmente, si decidesse ad aprirsi almeno un po' con lui.
Vide il coinquilino mordicchiarsi le unghie, agitato e incerto come solo chi aveva dei guai importanti alle spalle poteva essere. Era ovvio che non si sentisse al sicuro e fosse anche indeciso fra il dire tutto quanto a Jennings oppure tacere e cavarsela da solo senza coinvolgere eventuali vittime collaterali. «Io... io non ne sono sicuro» disse alla fine, la voce rauca ridotta quasi a un sussurro. «Non so bene in che genere di affari siano coinvolti quegli individui, ma avevano scritto in faccia, tutti quanti loro, che fossero soliti riservare un pessimo trattamento a chiunque osasse contraddirli o dire loro di no. Non conosco i loro nomi, a parte... a parte quello del loro capo: Olegov o qualcosa di simile. M-Mi avrebbero ricompensato con una cifra stratosferica se io avessi permesso a lui e alla sua banda di condurre su di me degli esperimenti, non so di che genere e non voglio neppure saperlo. Ho lasciato New York quando mi sono accorto che venivo pedinato, chiaro? E non so se sono tuttora sorvegliato, perciò antenne dritte e occhi aperti, Gray. Quelli sono capaci di tutto e non esitano di fronte a niente e a nessuno. Olegov, poi, aveva un'aria spaventosa. Lo ricordo ancora: uno dei suoi occhi era completamente bianco, lattiginoso, come se avesse subito un trauma, e il viso... non saprei come altro spiegarmi, se non dicendo che sembrava che qualcosa di corrosivo gli fosse stato lanciato in faccia e sul collo. Non era sfregiato in modo grave, solo superficialmente, ma metteva i brividi. Qualcosa in lui mi faceva solo pensare a un buco nero, vuoto e freddo. Quei buchi neri che divorano qualsiasi cosa li attorni: pianeti, satelliti... tutto ciò che si trova sulla loro strada. Non volevo venire risucchiato anch'io, ecco perché ho preso e me sono andato di punto in bianco da New York. Qualunque cosa avesse in mente quel tizio, io non ne avrei fatto parte.»
Le esperienze passate avevano visibilmente indurito il carattere di Crystal, il quale ormai era abituato a restare saldo anche nelle situazioni peggiori, e questo lo portò a non batter ciglio neanche quando vide Gray davvero scosso e atterrito. Rimase in silenzio, guardandolo, in attesa di una reazione vera e propria.
Grayson abbassò lo sguardo. Conosceva Crys da pochissimo, però aveva paura lo stesso per lui. Non voleva gli accadesse qualcosa di male. Era un vizio il suo di affezionarsi subito alle persone, nonché aver poi paura di perderle da un momento all'altro. E quel nome, Olegov, poi...
Quel nome non gli era estraneo. Lo aveva già udito altrove, ma non avrebbe saputo dire in quali circostanze o quando. «Chi se ne frega» disse infine. «A me basta che tu torni sano e salvo. Per il resto... qualunque cosa voglia quella gente da te, non sarai da solo. Se la vedranno con ben due streghi incazzati neri e che Dio aiuti chiunque osi far saltare la mosca al naso a due fuoriclasse come noi. Abbiamo la magia e sappiamo usarla, perciò che restino lontani o avranno di che rompersi il capo!»
Crystal abbozzò un sorriso. Apprezzava l'ottimismo e la spigliatezza di Jennings, ma lo stesso sperava che avrebbe tenuto a mente i suoi avvertimenti. Non voleva che quel ragazzo facesse la fine di suo padre e di Lance. Era stufo di dire addio alle persone. Stufo di vedere tutti quanti svanire come fantasmi alle prime luci dell'alba. «Grazie per la comprensione.» Fece un respiro profondo e si ravviò all'indietro i capelli. «Pizza?»
Gray scoppiò a ridere. «Era un momento serio e te ne esci così? Sei pessimo, Hawthorn!»
«Odio i momenti seri. Allora, pizza o no?»
«Vada per la pizza.»
«Ottimo. Chiama, su! Non stare a gingillarti.»
«Perché devo chiamare io, scusa? Sei stato tu a proporre la pizza!»
«È da una settimana che pulisco questo tugurio ininterrottamente. Il minimo che tu possa fare, a questo punto, è offrirmi una bella pizza. Alza il culo e chiama, Jennings, o inizierò a rosicchiare i tuoi mobili come un castoro. Minaccia seria, credimi.»
Gray gli rifece il verso di nascosto mentre si sfilava il cellulare dalla tasca dei jeans e componeva il numero della pizzeria più vicina.
«Per me un'Hawaiana, a proposito.»
Grayson si bloccò e lentamente tornò a guardare il coinquilino. «Dimmi che stai scherzando. Ti piace quella roba? Sul serio?»
«Sono serissimo, Occhi Blu. Vado matto per l'Hawaina con olive e bacon al posto del prosciutto. Odio il prosciutto» lo rimbeccò distrattamente Crystal, iniziando nel frattempo a lucidare una delle due pistole d'argento. «Non so perché non piaccia a così tanta gente . È fantastica!»
«Piuttosto mi chiedo come tu faccia a esser magro come un chiodo» borbottò Gray.
«Semplice, amico mio: ammazzo tanti mostri e scopo come un riccio.»
Gray si ritrovò con le guance terribilmente accaldate mentre biascicava al telefono l'ordine presso la pizzeria.
Crystal si scostò, ricadde di schiena sul letto e si pettinò via i capelli dal viso accaldato e sudato. Gray, accanto a lui e ancora mezzo rintronato, si ricordò a malapena di disfarsi del preservativo gettandolo nel cestino poco distante dal letto. «Porca miseria...» mormorò ansante, voltandosi a guardare il biondo. «Credo sia stato il sesso più bello degli ultimi tre anni, almeno da quando ho rotto con la mia ragazza!»
Hawthorn ghignò mentre si accendeva una sigaretta. Ormai non faceva più tanto caso all'odiosa abitudine del suo corpo di non raggiungere mai l'orgasmo. Non sapeva neanche cosa fosse, mai l'aveva provato in vita sua, neanche durante gli amplessi migliori e c'era da dire che Gray fosse davvero bravo fra le lenzuola. Il bravo ragazzo aveva degli assi nella manica, a quanto pareva.
«Ne avevi proprio bisogno, a mio parere, e io dovevo distrarmi il più possibile» disse espirando il fumo.
Jennings lo guardò. «Da cosa hai dedotto che...»
«Detto fra noi, Gray, dovresti essere meno rumoroso e più discreto mentre ti masturbi. Le pareti qua dentro sono sottili ed è evidente che tu abbia dimenticato come sia vivere sotto lo stesso tetto con un coinquilino.»
L'altro strego, nell'imbarazzo più totale, spalancò la bocca. «Non è vero che faccio rumore!» si lamentò. «E poi non è il massimo tirare avanti in quel modo come se avessi ancora quattordici anni.»
Crystal sghignazzò. «Questo è poco ma sicuro. In ogni caso, non c'è di che.»
Gray sbuffò, ma alla fine sorrise a sua volta. «Comunque sei stato... cavolo, non ho frequentato così tante persone che ci sapessero fare fino a questo punto quando si tratta del sesso!»
«Un paio di volte ho frequentato una ragazza che si prostituiva. Mi ha insegnato lei i trucchi migliori del mestiere» rivelò Crystal senza troppi fronzoli. «Si chiamava Jean, mi pare.»
«Te la sei fatta con una prostituta?»
«Sì, certo.» Hawthorn strinse le spalle. «Sono esseri umani anche loro, dopotutto. Non ci vedo niente di male. Jean era una brava ragazza sia quando lavorava, sia quando non lo faceva, credimi. Migliore di tanti altri ipocriti che ho conosciuto e magari si nascondevano dietro un doppiopetto griffato.» Per lui il discorso sulla prostituzione era alquanto delicato. Lui stesso aveva dovuto ricorrere a quell'espediente per vivere e odiava chi giudicava senza prima conoscere tutta la storia di una persona. «Fidati, Gray: ho conosciuto puttane molto più educate e umili di certi bastardi ai quali dovevo succhiarlo in macchine costose. Per giunta mi toccava farlo per pochi spiccioli che non mi facevano arrivare neppure fino alla fine della settimana, specie quando ero costretto a battere per strada.»
«Ti... ti prostituivi?» Grayson sembrava sì e no incredulo. «Ma perché? Voglio dire...»
«Avevo bisogno di soldi, tutto qui, e non avevo nessuno al quale rivolgermi. Ero troppo giovane per essere assunto anche se come semplice lavapiatti in una pizzeria, perciò ho ripiegato in altre maniere» spiegò Crystal con una tale freddezza e assenza di emozioni da far pensare che stesse in realtà parlando di qualcun altro e non di se stesso. Non guardava più Gray, però. «È così che per due volte ho dovuto abortire. Due stronzi non hanno voluto usare il preservativo per chissà quale stupido feticismo e mi sono ritrovato a disfarmi di ben due gravidanze indesiderate. Stupidi idioti. Ero persino pronto a farlo da dietro pur di evitare ad ogni costo certe conseguenze. Dico persino, amico, perché se il tipo con cui vai ti fa schifo anche solo a guardarlo e non sei avvezzo a certe cose, fa un male cane. Mi toccò farlo un paio di volte e prego di non dover più ricorrerci.»
Gray non sapeva cosa dire. «Mi dispiace. Non volevo... n-non pensare che io...»
«Tranquillo» tagliò corto Crys, spegnendo nel posacenere la sigaretta. Non era alterato né pareva essersela presa. «Ci vuole ben altro per arrivare a starmi sul cazzo, credimi.» Scivolò fuori dal letto e si stiracchiò. «Meglio che vada a dormire, adesso. Devo alzarmi presto.»
«Puoi dormire qui» tentò Grayson. «C'è spazio per tutti e due, no?»
Crystal si voltò. «Sarebbe fuorviante, non pensi? Voglio dire... abbiamo fatto sesso, va bene, ma non significa che... capisci cosa intendo, vero?» Lo disse più per Gray che per se stesso. Per lui era stato un semplice amplesso occasionale, nient'altro. Un modo come un altro per scaricare la tensione che aveva accumulato in quella settimana.
Gray parve abbattersi.
«Oh, andiamo!» si lamentò Crys. «Mai sentito parlare di amici con benefici?»
«Sì, ma così mi sembra quasi di aver approfittato di te. Insomma...»
Hawthorn si strinse nelle spalle. «E allora? Io ho fatto lo stesso con te. Santo cielo, Gray! Siamo adulti, non ragazzini. Sappiamo distinguere i sentimenti da una semplice scopata, giusto?» Nel parlare si rimise la maglietta. «E poi non mi è mai piaciuto dormire con un'altra persona accanto» ammise. «Non mi fa sentire a mio agio né al sicuro.»
Era chiaro, dalla sua espressione perplessa, che Jennings non avesse del tutto compreso il problema. «Ormai mi conosci, almeno un pochino, no?»
«Non è questo il punto. È solo che...» Crys sospirò. Non gli andava di trasformare quella conversazione in un'autentica discussione e non voleva che Grayson prendesse la cosa nel modo sbagliato. Il problema non era Gray, ma lui. Lo era sotto tanti, troppi aspetti. «'Notte, Gray. Uhm... dormi bene e... sappi che non...»
Un altro sospiro. Ecco, era a un solo passo dall'aprire il fantomatico vaso di Pandora. Scosse la testa e senza aggiungere altro, recuperò i jeans e uscì dalla camera del coinquilino.
Se solo non si fosse fermato in tempo, avrebbe detto a Grayson di non gradire particolarmente il dormire con qualcuno al proprio fianco perché sette anni prima gli era capitato, una volta, mentre il resto della casa era immerso nella quiete della notte, di sorprendere il padre affidatario nell'atto di stendersi vicino a lui. Quando l'uomo si era accorto che si era svegliato, anziché andarsene aveva approfittato di lui e l'aveva fatto premendogli una mano sulla bocca di modo che la moglie non udisse le grida e i lamenti di Crystal che, all'epoca vittima di un enorme svantaggio basato sulla sua giovane età e la confusione totale, non aveva potuto far altro, se non subire. Ci aveva provato, a un certo punto, a ribellarsi; era riuscito a scostare il viso e a provare a chiamare aiuto, ma... beh, il suo cosiddetto padre affidatario era stato lesto a soffocare il suo tentativo sul nascere. Qualcosa, quella notte e le tante altre che c'erano state dopo di essa, avevano suggerito a Crystal che gli episodi in questioni non fossero stati una novità per quell'uomo, bensì semplici gocce in un enorme bicchiere di spregevoli abitudini da galera.
Per quel che ne sapeva, non era stato il primo a subire quel genere di abusi e forse non era stato l'ultimo. Non ne aveva idea se fosse davvero così o meno, visto che alla fine, dopo un anno trascorso a quella maniera, a temere l'arrivo di ogni singola notte, se n'era andato da quella casa e ci aveva dato un taglio con lo sperare costantemente che il mondo degli adulti potesse essergli di qualche aiuto e conforto. Tanti degli adulti che aveva conosciuto, dopotutto, si erano rivelati canaglie, persone grette e perverse, ma in fin dei conti era quel che ci si doveva aspettare quando, da adolescenti, si finiva tra le fauci della bestia ottusa, dotata di artigli e costantemente affamata chiamata ‟mondo". Crystal si era sentito, prima di conoscere il signor Barlow, alla pari di una minuscola creatura ingoiata intera da un mostro di proporzioni lovecraftiane capace di avvertire ogni suo piccolo movimento all'interno del proprio stomaco e di scongiurare qualunque tentativo di sfuggirgli il ragazzo avesse via via messo in atto. C'era voluto l'intervento di uno strego cacciatore per riavere indietro un po' di libertà, di gentilezza e calore che non desiderassero in cambio disgustose prestazioni o ricatti.
Subire quel che aveva subito da parte di qualcuno che in teoria aveva assicurato allo Stato e alla legge di prendersi cura di lui come se fosse sempre appartenuto alla famiglia lo aveva condotto a odiare il semplice pensiero di avere una persona accanto a sé nel letto, buona o cattiva che fosse. Non lo tollerava e non sapeva proprio cosa farci. In lui era sopravvissuta la paura, anzi il terrore, di ridestarsi nel cuore della notte e scoprire di avere addosso delle mani che compivano atti che non gli piacevano e lo facevano sentire sporco, impotente e rovinato per sempre.
Nella veglia ormai sapeva difendersi a dovere e non era più così semplice coglierlo alla sprovvista né mettere in atto chissà quali balorde fantasie, ma nel sonno tutti, nessuno escluso, erano inermi e alla mercé di qualunque cosa si celasse nel buio della notte o dietro la porta appena socchiusa della camera in cui stava dormendo e si sentiva, a torto, del tutto al sicuro e lontano da eventuali pericoli. C'era un motivo valido se essere aggrediti mentre si dormiva da qualcuno fosse uno degli incubi peggiori nel quale le persone potessero incappare. Non c'era niente di peggio o quasi, lui lo sapeva bene.
Si chiuse la porta della camera alle spalle e si mise a letto con ancora la solita maglietta addosso. Non aveva molto altro, d'altronde, e doveva per forza centellinare il poco ricambio di abiti che possedeva finché non avesse trovato il tempo, e per tacere poi della voglia, di prendersi dei vestiti nuovi e magari anche un pigiama.
Se tornerò dalle paludi, è la prima cosa che farò, pensò mentre spegneva la luce. Un secondo dopo, però, si rimise su e non resistendo a quell'impulso, a quell'abitudine che sconfinava in un'autentico comportamento patologico e rituale, di alzarsi, girare il chiavistello per sigillare l'unica entrata e uscita presente nella stanza, infine tornare sotto le coperte e contare fino a dieci, poi fino a venti e così via, proprio come gli aveva suggerito Lance per provare a contrastare quella specie di mania che gli imponeva di rifare tutto una seconda volta o cento nella vana speranza di sentirsi più al sicuro. Accadeva ogni notte e non importava che Grayson fosse un ragazzo chiaramente a posto con la testa e dai modi garbati, un autentico esempio di affidabilità. Per lui non contava chi si trovava all'esterno della camera in cui dormiva. Gli bastava solo che rimanesse lì, dietro a una porta che non poteva essere aperta e che custodiva una camera che non poteva essere violata.
Sollevò lo sguardo dal cellulare e squadrò la graziosa e attraente ragazza che sedeva al suo fianco: aveva i capelli neri dai riflessi spiccatamente bluastri e molto lunghi che scendevano fin quasi alla vita in morbide onde corvine; una treccia centrale teneva uniti i capelli e consentiva al viso di mostrarsi in tutta la sua eterea bellezza. Dotata di un pallore diafano, la giovane donna aveva grandi e scintillanti occhi neri da cerbiatta che apparivano quasi ipnotici nella loro profondità, come se fossero finestre aperte su un cielo nel quale risplendevano minuscole stelle. Non fosse stato per le orecchie a punta ben proporzionate, la si sarebbe scambiata benissimo per un'umana pronta a vincere il premio come donna più bella del mondo.
I tratti del viso sembravano suggerire un'età che non superava i vent'anni, ma Ethel Nightbane ne aveva ben ottantadue ed era una mezzelfa: padre elfo e madre umana, una di quelle situazioni che di rado andavano a finire per il verso giusto. L'essere con le orecchie a punta, infatti, se n'era andato ancor prima di sapere di aver lasciato alla povera malcapitata di turno un regalino extra il quale, nove mesi dopo, era venuto al mondo ed era stato chiamato Ethel. Dell'elfo che le aveva lasciato in eredità parte della propria natura e poca fiducia nelle relazioni interpersonali non aveva mai saputo niente e lei, d'altronde, mai si era presa il disturbo di fargli sapere che esisteva. Buffo pensare che gli elfi, da esseri eterei legati alla natura, alla saggezza antica, al linguaggio segreto e silente degli astri, fossero finiti per soccombere ai vizi e ai difetti degli umani con i quali convivevano in un mondo che li aveva relegati nella fantasia del folklore e delle altisonanti opere di Tolkien. Si erano nascosti per tanto, tanto tempo, ma poi era arrivata l'epoca moderna. Un'era strana e contraddittoria in cui creature come gli elfi, i vampiri, i mostri in generale, venivano osannati e guardati con desiderio dall'essere umano che si struggeva convinto che certe cose fossero possibili soltanto tra le pagine dei libri e sui grandi schermi dei cinema. Attualmente, dunque, gli elfi autentici venivano solamente scambiati per umani che si erano sottoposti a operazioni di chirurgia plastica per sopperire a chissà quale ossessione per il genere fantasy.
Era proprio vero: gli umani non avrebbero saputo riconoscere un essere sovrannaturale neppure se per strada fossero andati a sbattere contro uno di essi. Era assai più probabile che prima o poi avrebbero finalmente trovato una cura per malattie difficilmente domabili come il cancro o qualche altro orrendo male del medesimo calibro. Doveva essere strano per un elfo vivere con la consapevolezza di non essere preso sul serio; vivere sapendo di rappresentare per il mondo intero nient'altro che un termine citato nei libri e nelle opere di fantasia.
Come tutti quelli di sangue elfico o quasi, ad ogni modo, Ethel invecchiava molto, molto lentamente. Secondo gli standard del suo popolo, per la precisione, non era arrivata neppure alla completa maturità.
Una cosa era sicura: era bellissima, ma per Ragos rappresentava solo una semplice e cara amica con la quale, di tanto in tanto, aveva vissuto, e continuava a vivere, avventure fra le più disparate.
«Cos'ha detto tuo fratello?» chiese Ethel, la voce vellutata simile a inebriante e corposo vino rosso della più sublime qualità. Distese le lunghe gambe celate da pantaloni scuri e attillati e si prese un sorso di birra dalla bottiglietta lasciata a metà dall'Alpha.
«Puoi arrivarci benissimo da sola» replicò Ragos. La sua voce, invece, era roca e raspante; alcuni la ritenevano sgradevole, altri l'esatto contrario, ma poco gli importava. Non si poteva piacere a tutti e andava bene esattamente così. «È andato fuori di testa quando gli ho detto di aver perso quel marmocchio. Come se avessi potuto prevedere che quel biondino dalla testa calda se la sarebbe squagliata! Fanculo a Vargos! Perché non alza il culo e viene qui a Shreverport? Almeno penserà lui a risolvere tutto, visto che io sono buono solo a far casino!»
Ethel alzò gli occhi al cielo. «Quante volte devo dirtelo? Non sono tua sorella né tua madre o la tua ragazza. Non puoi venire sempre a lamentarti con me ogni volta che tuo fratello ti fa perdere le staffe. Ho appena seppellito il mio quarto marito, tra l'altro, lo sai? Non è bello parlare di quisquilie tra fratelli con una povera vedova fresca di lutto.»
«Vorrà dire che la proposta che sto per farti servirà a distoglierti dall'immane dolore che sicuramente ti starà logorando in questo preciso momento» la rimbeccò Ragos, sarcastico e un po' tagliente.
«Non provare a coinvolgermi nei tuoi soliti pasticci, signorino. Hai idee pessime quasi sempre e poi tocca sempre a me risolvere i casini che ne conseguono»
«Sei coinvolta dal primo momento in cui ci siamo incontrati, rassegnati.»
«Be', stavolta dovresti cavartela da solo, a mio parere. Stiamo parlando di un ragazzo, non di una feroce Chimera.»
«Fidati, fra quello là e una Chimera, preferisco di gran lunga la seconda. Tu non l'hai conosciuto, Ethel, e credimi: averci a che fare è piacevole quanto lo sarebbe darsi un attizzatoio dritto sul naso.»
Ethel rise. «Andrebbe premiato solo perché non è stato così scemo da darti confidenza, secondo me!»
Ragos si rabbuiò. «Da che parte stai, si può sapere?» chiese piccato, accendendosi un cigarillo.
Ethel sventolò la mano e le sue labbra carnose e ben proporzionate si storsero in una brutta smorfia. Odiava l'odore sprigionato da quella roba. «Dalla parte di chiunque sia abbastanza sano di mente da ignorarti» ribatté con un sorrisetto impertinente.
«Stavo solo cercando di aiutarlo, per Dio!» fece spazientito Elimar. «In quel posto a momenti rischiava di essere sì e no violentato! Conosco fin troppo bene la mia razza e non tutti sono come me, Vargos o gli abitanti di Mythfield!»
«Sì, ma lui questo non lo sapeva e non è che tu abbia dato chissà quante spiegazioni dettagliate. Se un tizio fosse venuto da me dicendo che ero in pericolo e altre stupidaggini, come minimo gli avrei dato un calcio nei gioielli di famiglia e gli avrei detto chiaro e tondo di andare a far piovere sulla parata di qualcun altro. Era lì per svagarsi, forse aveva avuto una brutta giornata e tu l'hai talmente inquietato da averlo fatto finire sotto una macchina pur di seminarti. È giusto e sacrosanto che ti abbia guardato in cagnesco tutte le volte in cui sei andato a trovarlo in ospedale e non ti abbia detto niente, a parte il suo cognome. Non è neppure detto che sia quello vero, tra l'altro.»
Ragos piegò le labbra in un sorriso tanto forzato quanto sgradevole. «Visto? Vi capite al volo! Ecco perché ho deciso che sarai tu a rintracciarlo.»
Ethel, che stava bevendo, fu sul punto di strozzarsi con la birra. «Cosa?» gracchiò. «Ma sei matto? Che c'entro io? Ho appena detto di non voler farmi coinvolgere!» Cercò di ripulirsi la maglietta rosso scuro sibilando a denti stretti una bestemmia oscena.
«Non fare la preziosa. Lo so che ti piace improvvisarti cacciatrice di taglie e stavolta è per una buona causa. Quel ragazzo va rintracciato e messo al sicuro, Ethel. È troppo pericoloso per un Indigo là fuori, specie con Olegov che gironzola per l'America come un maledetto moscone radioattivo.»
«Nemmeno lo conosco questo Crystal! Come dovrei fare per convincerlo a venire con me?»
«Usa la tua fervida immaginazione e il tuo sconfinato charme, cara.»
«Sai cosa puoi farci tu, invece, con lo sconfinato charme?»
«No. Cosa?»
«Non te lo dico solo perché sono alla presenza di un lattante.»
Ragos sogghignò. «Avanti, Ethel! Non farti pregare!»
Lei roteò gli occhi e finse di non ascoltarlo.
«Ti prometto che poi non verrò più a romperti le scatole per un anno intero» incalzò il ragazzo con l'aria più convincente che riuscì a tirar fuori dall'arsenale di tattiche utilizzate per rabbonire la mezzelfa.
Sussiegosa Ethel incrociò le braccia sotto il seno appena accennato. «Due anni» decretò.
«Uno e mezzo» rilanciò Elimar.
Lei lo squadrò con aria truce. «Andata» sentenziò, visibilmente poco entusiasta. «Però voglio essere pagata, intesi? Non ho intenzione di sprecare il mio tempo con questa caccia al Cenerentolo del Ventunesimo Secolo e farlo per giunta gratis. Sono una donna impegnata, io, sai?»
«Va bene, va bene. Verrai pagata, croce sul cuore.»
La Nightbane mise su un mezzo e astuto sorriso mentre tendeva una mano e con l'indice compiva un gesto di incoraggiamento. «Pretendo la prima metà in anticipo, bello, perciò fuori il portafogli e sgancia i verdoni. Su, forza, prima che venga sera!»
«Sei una sanguisuga, Orecchie a Punta!» ringhiò Ragos armeggiando con il portafogli ed estraendo un bel po' di banconote. Gliele schiaffò sulla mano protesa ornata da unghie a mandorla curate e laccate di lucido smalto nero.
Ethel sorrise mielosa. «Sei un vero tesoro, lupetto.» Si mise a contare i soldi. «Che aspetto ha questo Crystal, comunque? Ho bisogno di una descrizione fisica o ci impiegherò secoli per rintracciarlo, sempre che ci riesca.»
«Capelli biondi e lunghi, occhi...»
«Biondo come? Oro, cenere, fragola...?»
«Ne so un cazzo io di che razza di biondo è! Porco mondo!» sbottò esasperato Ragos. Dall'espressione maligna mostrata da Ethel, capì che lei lo aveva fatto apposta. «Con tutti i problemi che ho figurati se vado a interessarmi se quello là abbia i capelli biondo fragola o canarino!»
«Canarino?» ripeté la mezzelfa, ridendo. «Mai sentito prima d'ora! Non nel regno del buongusto, almeno!»
«Fa lo stesso! È biondo, punto!»
«Okay, okay! Biondo, poi?»
«Occhi... boh, viola chiaro, mi pare. Caucasico. Dovrebbe avere fra i venti e i venticinque anni, credo. Sembra più una ragazza che un ragazzo o... diciamo una via di mezzo fra entrambi. Insomma, è quasi come tutti gli Indigo: faccia da femmina e carattere docile come quello di uno scorpione incazzato. Roba da far ammattire i santi!»
«Persino la polizia, di fronte a un identikit del genere, rinuncerebbe in partenza.»
«Senti, Cosa...» cominciò Ragos. «Vuoi aiutarmi o no? Perché se vuoi aiutarmi, allora...»
«Dio santo, calmati!» sghignazzò impunita Ethel che adorava vederlo scaldarsi e iniziare a sciorinarle le sue solite tirate epocali. «Non è che per caso, e dico per caso, hai qualcosa che gli appartiene? Così sarebbe più facile da rintracciare, mi basterebbe consultare una mia amica strega e...»
«NIENTE STREGHE» tuonò Elimar, categorico. «Mi stanno sul cazzo, quelle là! Tutte loro! E anche gli streghi, ora che ci penso!»
«È probabile che forse conoscano questo ragazzo. È difficile che non facciano comunella gli uni con gli altr, e la maggior parte delle streghe e degli streghi è riunita sotto un'unica Gilda che poi, a sua volta, è frammentata in altre Gilde minori. In totale esistono la Gilda Americana, quella Europea, Asiatica, Slava...»
«Lo so da solo cosa sono le Gilde e come funzionano! E poi nessuno dice che lui sia a conoscenza dei poteri che ha!»
«Mi lasci finire o faccio in tempo a prendermi un caffè?»
«Va bene! Ma sii breve e concisa!»
«È una sciocchezza che il ragazzo non sappia di avere dei poteri. Da quello che hai detto, ha saputo usarli al meglio per fuggire dall'ospedale senza farsi notare e questo, un novellino, non avrebbe mai potuto farlo, neppure per semplice incidente o istinto. Sa eccome di avere dei poteri, da' retta a me. Detto ciò... Dammi tempo un paio di giorni, quanto serve a contattare questa mia amica, e potrei scoprire qualcosa sul conto di questo Crystal. Sicuro non ti abbia detto altro, a parte il cognome?»
«Non ha voluto spiccicare parola! Mi ha solo mandato a fanculo dopo aver detto di chiamarsi Crystal Hawthorn o qualcosa del genere! Che nome del cazzo, tra parentesi!»
«Il tuo, a essere onesti, fa pensare un po' al ragù italiano» commentò Ethel con un sorrisetto maligno.
Elimar la fulminò con una delle sue proverbiali occhiate assassine, poi: «Trovalo e basta. Per favore».
«Siamo sicuri, al cento per cento, che sia un Indigo? Sono estremamente rari» fece Ethel, cauta.
«Ti dico che lo è! L'ho riconosciuto dall'odore o come si dice!»
«Non uscirtene con questi discorsi da Alphaga, ti prego. È inquietante. Vi fa sembrare degli assatanati o cani da tartufo, anzi entrambe le cose.»
«Sto per sbottare, Ethel, ti avverto.»
«Va bene, va bene, non ti scaldare. Qualche altro segno particolare? Qualcosa che sia veramente un tratto distintivo. Che io chieda in giro o meno ad altri streghi, mi servirà ben altro di una semplice descrizione fisica degna di un bambino delle elementari.»
Ragos rinunciò a mandarla a quel paese. «A parte la simpatia di un cobra? Non lo so, ecco...» Sbuffò sonoramente e si passò una mano sul viso mentre cercava di ricordare eventuali dettagli che sarebbero potuti saltare all'occhio di chiunque, specie di una mezzelfa attenta a ogni cosa come la Nithbane. «Aveva un... un segno sulla pelle, come...»
«Dove lo aveva?» lo interruppe Ethel, ora molto seria.
«Sul collo, per quel che ricordo. Perché?»
«Che aspetto aveva?»
Il giovane Elimar, benché perplesso, glielo descrisse senza troppi fronzoli come un simbolo che pareva esser stato impresso a fuoco nella pelle del ragazzo ed esser divenuto in seguito una cicatrice ben definita e dalla forma precisa: una civetta custodita da un cerchio formato da un fitto intrico di serpenti, gli uni che sembravano fuoriuscire dalle fauci dell'altro in un'estrema, molteplice versione dell'uroboro. Una caratteristica del genere non la si vedeva tutti i giorni e la Nithbane, a quel punto, pareva sapere perfettamente con chi e cosa avevano a che fare. «Ahi, ahi, piccolo lupo» commentò la mezzelfa con un velo di inquietudine. «Quello è il Marchio di Perseo.»
Ragos inarcò un sopracciglio. «Il marchio di che?»
Lei sbuffò. «Oh, ma andiamo! È mai possibile che tu non ne sia a conoscenza? Persino gli Alphaga, di solito, sanno che cosa porta con sé quel marchio!»
«Ah, davvero? Io non lo so e ti sto chiedendo spiegazioni, perciò falla corta e parla!»
Ethel respirò profondamente dal naso. «Beh, gioia, in poche parole è un miracolo che quel marmocchio non ti abbia riconosciuto per ciò che sei e trattato come tanti streghi cacciatori sono soliti trattare le creature, compresi quelli come te, che li importunano o potrebbero rappresentare per loro una possibile minaccia. Lo sai chi era Perseo, vero?»
«Uhm... forse. Non lo so.»
«Nel nome della costellazione di Sirio, dell'intera Cintura di Orione e delle dannate Pleiadi al completo, Ragos Elimar, rimettiti a studiare e fatti una cultura!» si lamentò Ethel. «Ma non sai proprio niente?!»
«Il nerd della famiglia è Vargos, stronza» borbottò il ragazzo contrariato. «Che ne so io di Perseo e compagnia cantante!»
La Nithbane si massaggiò le tempie. «Perseo», spiegò a denti stretti, «è nientemeno uno tra i più famosi uccisori di mostri della mitologia e a lui si ispirarono i primi streghi cacciatori. Lo fecero fino al punto che per distinguersi fra di loro ed essere riconosciuti dagli streghi normali o dai propri nemici stabilirono di recare un marchio sul collo impresso con delle fiamme magiche che mai sarebbe svanito. Si racconta che da allora uno strego o una strega che vengono istruiti e scelti da un cacciatore come loro erede nella missione di proteggere gli innocenti dai mostri, dopo aver mietuto la prima vittima ottengano il Marchio di Perseo che si origina da solo. È un tipo di magia antica, la chiamano ‟eredità del cacciatore" e pare proprio che il nostro fuggitivo l'abbia ricevuta da un mentore che lo ha preparato a regola d'arte a vedersela con ogni genere di creatura, compreso un Alfa rintronato come te.»
Ragos roteò gli occhi e ostentatamente celò uno sbadiglio. «Affascinante. Quindi?»
Ethel gli scoccò un'occhiata torva e gli menò un indice in faccia. «Quindi, tesoro della mamma, se solo lo volesse potrebbe farti le chiappe a strisce e pois senza neppure muovere un dito o quasi. A mio parere, in quel locale, eravate tu e gli altri tuoi simili in serio pericolo di passare una nottataccia, non di certo il biondino.»
Elimar agitò una mano come a voler scacciare una mosca. «Cosa? Quell'Indigo di neanche uno e sessanta e tutt'occhi? Me lo metto in tasca come un portachiavi, uno del genere!»
«Portachiavi, eh?» lo canzonò Ethel. «Al suo posto ti avrei strapazzato ben bene.»
«Il punto è che non appare così minaccioso.»
«L'apparenza inganna e quel tipo, fidati, ne è la prova. La tua fortuna sfacciata ha voluto che fosse appena uscito dal coma e avesse ancora qualche osso rotto, perché altrimenti... beh! Ora saresti tu ad avere tutte le ossa ridotte in polvere, sempre che di te rimarrebbe qualcosa dopo un incantesimo d'attacco come Dio comanda.»
«Sai una cosa?» brontolò Ragos. «Quando lo vedi, stringici amicizia e fate un bel pigiama party assieme!»
«Non ci tengo ad avvicinarmi troppo a uno strego cacciatore, francamente. Tendono a essere mordaci.»
«Quindi ti tiri indietro?»
«Certo che no, sciocco. Verrò pagata per il disturbo, no? E comunque non è con me che il biondino ce l'ha a morte. Se accetterà di parlare civilmente con la sottoscritta, sarà divertente vederlo alle prese con la voglia malsana di metterti le mani al collo. Ti sei proprio fatto un nuovo amico!»
«Fottiti, Orecchie a Punta.»
«Altrettanto. Così almeno la finiresti di scocciare e ti rilasseresti un po'.» Ethel si morse troppo tardi la lingua. Ormai quel che era detto era detto e l'occhiata cupa, nonché velatamente ferita e risentita, che Ragos le scoccò, servì e avanzò a farle capire di tenere più a freno la lingua su certi argomenti. Scherzo o non scherzo. «Va bene, va bene... io non...» mormorò la mezzelfa, sentendosi davvero in colpa. «Non volevo, lupetto. Scusa.»
«Fanculo, Ethel.»
«D'accordo, stavolta me lo meritavo» disse fra sé la Nightbane. «Sì, me lo meritavo.»
Rigido come un manico di scopa, Elimar schiarì piano la voce. «Beh, comunque... appena riesci a scoprire qualcosa o a trovare quel tizio, fammi uno squillo.»
«Potrebbe volerci un po'. Insomma...»
«Non ho tutta questa fretta di tornare a Mythfield, tranquilla.» Ragos si accese un altro cigarillo. Memore del fastidio che procurava alla mezzelfa, si alzò e aprì la portafinestra presente nel soggiorno dell'appartamento in cui si trovavano. Tornò a guardarla e provò ad abbozzare un sorriso che, tuttavia, non giunse fino ai suoi occhi. «Sei fra i migliori segugi che esistano, no? Ce la farai in tempi brevi, secondo me.»
«Okay... troviamo questo Indigo.» Ethel si alzò dal divano di pelle scura, finì in un solo sorso la birra e terminò la bevuta con un singhiozzo sapientemente mascherato dietro alle dita affusolate.
Ragos la guardò da sotto in su. «Sarai pur bella come una fata, ma bevi come una spugna e reggi l'alcol che è una bellezza. Il sogno di qualsiasi marinaio, in breve.»
«Va' a quel paese, Elimar. Appena so qualcosa ti chiamo.» La mezzelfa fece per uscire dal piccolo soggiorno, ma all'ultimo si fermò e volse per guardare di nuovo il ragazzo che, invece, fumava in silenzio e fissava un punto imprecisato oltre il balcone, chissà dove di preciso nella città che aveva di fronte. Ethel, che stupida non era e conosceva ormai abbastanza bene il giovane Elimar, si morse il labbro inferiore, esitando. Non sapeva mai come affrontare certe questioni con quel benedetto ragazzo e il rischio di farlo chiudere a tripla mandata era sempre dietro l'angolo. Andava avanti in quel modo da ormai tanto, troppo tempo, e le conseguenze cominciavano a risultare visibili: era dimagrito dall'ultima volta che lei lo aveva visto e aveva l'aria di uno che non dormiva o lo faceva comunque di rado, poco e male; la barba non era così curata, se la si osservava bene, e gli occhi di Ragos, soprattutto, apparivano spenti.
«So che... so che non vuoi tornare a casa finché non avrai risolto la questione di quel tipo, però... magari dovresti dar retta a tuo fratello e prenderti una pausa dopo che avrò rintracciato quel Crystal o come si chiama. Insomma...»
Ragos riemerse da elucubrazioni tutt'altro che serene e la squadrò. «Hai origliato mentre io e Vargos parlavamo al telefono, vero?»
«Udito da elfo. Per metà lo sono e non posso impedire alle mie orecchie di fare il loro dovere.» Ethel si strinse nelle spalle. «Che ne dici, comunque?»
«Dico che se non occupo il tempo in qualche maniera, Ethel, allora non ho molto altro da fare. Se non ho niente da fare, sto ancora peggio. Devo continuare?»
«Dunque vuoi caricarti di lavoracci uno dopo l'altro finché... cosa, esattamente? Fino a quando non ti farai ammazzare a furia di rompere le scatole a gente pericolosa? Perché è così che andrà a finire, Ragos.» La Nightbane era molto seria. «Pensi sul serio che io e Vargos non parliamo, ogni tanto? Lui sa cosa stai facendo a te stesso, Ragos, e non ti biasima né è arrabbiato, ma solo preoccupato. Ti comporti come se...»
«Cosa?» incalzò gelido lui. Reagiva sempre a quella maniera quando qualcuno si arrischiava a varcare quello specifico confine con lui. Reagiva al dolore e alla volontà altrui di aiutarlo chiudendosi a tripla mandata. «Come se fossi morto? Credimi, Ethel, niente mi farebbe più felice che esserlo sul serio.»
La mezzelfa strinse le labbra. «Sta' zitto» lo apostrofò con durezza. «Sta' zitto o vengo lì e ti prendo a ceffoni.» Si era tuttavia già avvicinata e lo fissava come se davvero di lì a poco lo avrebbe schiaffeggiato. «E ora stammi a sentire: le persone smetteranno di giustificarti, un giorno, e probabilmente molte di loro già hanno iniziato a farlo. L'unico che ancora continua imperterrito a ricordare che stai soffrendo è tuo fratello, Ragos, lo stesso fratello del quale sembra non importarti un bel niente.»
«Non importarmi...»
«Lasciami finire!» Ethel si fermò. Era ormai a pochi centimetri dal ragazzo che la occhieggiava con aria fosca e risentita. «Non solo quel poveretto deve pensare ai casini degli altri, di un bel po' di gente che è sotto la sua responsabilità, ma deve pensare anche a te. Hai idea di quanto sia difficile, dimmi? Lo sai quanto sta soffrendo lui nel vederti così? No, certo che no. Ti importa solo del tuo dolore e al diavolo il resto. Al diavolo tuo fratello che a sedici anni ha dovuto farti anche da padre e rinunciare a tutto quello che tu, invece, hai avuto alla sua stessa età, dico bene? Chi se ne frega se si è fatto in quattro per prendere il diploma, badare a te e prepararsi a prendere il posto di vostro padre, tutto in una sola volta! Uno di voi doveva crescere per forza ed è ovviamente toccato a lui, com'era giusto che fosse, ma questo non conta nulla per te.»
Ne aveva abbastanza di quella faccenda. Il passato era ciò che era e nessuno l'aveva mai cancellato a furia di piangerci sopra.
«Nessuno ti sta dicendo che dovresti fare i salti di gioia o non essere distrutto anche a distanza di anni. Stai male e ne hai il diritto, ma non hai il diritto, invece, di fare di tutto per crepare. È sputare in faccia a cos'è successo quella sera, Ragos Elimar. È sputare in faccia alla tua famiglia, a Vargos che ha rinunciato a se stesso per tirarti su nel migliore dei modi nonostante tutto. Non ne hai il diritto, chiaro? Come non hai il diritto di rifiutare, di tenere a distanza l'ultima persona ancora in vita della tua famiglia. Ti resta solo tuo fratello e con la vita che fa, con le persone pericolose che sta infastidendo, potresti perderlo da un momento all'altro.»
Ragos, a quelle ultime parole, sussultò lievemente e la sua maschera di risentimento parve vacillare e creparsi.
Ethel sorrise appena e in modo forzato. «Da parte di certi stronzi riceve minacce sì e no di continuo e poi gli tocca pure sentire suo fratello parlare di suicidio, di voler farla finita. Lui pensa a te costantemente, ma chi pensa a Vargos, visto che te ne infischi se lui sta bene o male? Tu hai lui, ma lui non ha nessuno, Ragos. A furia di pensare solo al tuo dolore lo hai lasciato da solo e potrebbero arrivare tempi difficili, da quel che mi ha detto di recente. Rifletti su questo, almeno. Pensa se anche l'ultima persona che ancora ti difende, ti giustifica e crede in te, un giorno venisse a mancare. Forse, a quel punto, finalmente capiresti come da anni si sente Vargos ogni singolo, maledetto giorno.»
Non aggiunse una parola in più e se ne andò sul serio dall'appartamento sbattendosi la porta alle spalle.
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