𝐈. 𝐀𝐫𝐠𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐞 𝐛𝐢𝐚𝐧𝐜𝐨𝐬𝐩𝐢𝐧𝐨
*Nota Importante*
Nel capitolo verrà trattata la questione dell'aborto in maniera più approfondita, perciò, se alcuni sono sensibili a certi temi e argomenti, consiglio di saltare la lettura dello specifico paragrafo in cui viene affrontato. È abbastanza riconoscibile il punto del capitolo in cui si parla della questione e basterà saltarlo e proseguire oltre.
Grazie per l'attenzione!
Erano le dieci di sera passate quando in un hotel a due stelle piuttosto malconcio e vecchio dalle mura scrostate e lampadine che gettavano sull'ambiente una sgradevole luce giallognola, fece il suo ingresso qualcuno che il portinaio scambiò a una prima occhiata per una giovane donna. Doveva avere al massimo venticinque anni e il suo viso color avorio era incorniciato da una fluente cascata di capelli biondo cenere un po' scarmigliati; il soprabito nero, di almeno due taglie più grande del dovuto, era aperto e rivelava un fisico asciutto, tonico e pur tuttavia mingherlino avvolto in abiti casual e neri come il cappotto. Sulla maglietta era possibile scorgere il logo di un gruppo metal e i pantaloni, invece, presentavano strappi in più punti che, in qualche modo, non sembravano affatto esserci sempre stati. Era come se avessero subito un gran pessimo trattamento.
C'era, però, un dettaglio che mise in all'erta l'uomo che si trovava alla portineria: era sangue quel che vedeva sulle pallide mani della ragazza e poi, ancora, qui e là sul viso e sui vestiti sotto forma di macchie che rendevano il colore nero ancora più nero?
Il vecchio e grasso portinaio guardò con aria tesa la ragazza avvicinarsi alla reception e abbandonare a terra una borsa scura. «C-Cosa posso fare per lei, s-signorina?» chiese, già pronto a reagire nel caso quella tizia si fosse rivelata pericolosa per lui. Era ovvio che le fosse successo qualcosa, prima di approdare in quell'hotel, e non era del tutto sicuro se lei avesse interpretato il ruolo di vittima o di carnefice. In ogni caso, era talmente mingherlina da non essere credibile nei panni di una malintenzionata molto violenta. Gli schizzi di sangue, però, fugavano ogni dubbio.
Un'altra cosa che il portinaio notò fu che la strana giovane avesse gli occhi da cerbiatta di un colore molto particolare e strano: viola, ricordavano i fiori di lillà. Erano strani e, tra l'altro, non così espressivi. Non lasciavano trasparire assolutamente nulla, a parte una fredda calma.
Recuperò un fazzoletto dal taschino dei consunti pantaloni e si tamponò la fronte e i lati del grasso e taurino collo.
L'ospite appena giunto nell'hotel di terz'ordine lo squadrò come a voler studiarlo bene, poi, lentamente, si accese una sigaretta e rifilò al portinaio un'altro sguardo vigile e calcolatore. Pareva voler testare ogni sua singola reazione. «Sono un maschio, a dire la verità» replicò mentre espirava un contorto rivolo di fumo attraverso le labbra piene simili a petali di rosa. «Sto cercando un posto dove trascorrere qualche giorno, per favore» aggiunse, la voce un po' più calma e accomodante. Frugò nella tasca del soprabito e piazzò sul bancone diverse banconote. «Pago in anticipo e in cambio gradirei che lei evitasse di fare domande. È stata una brutta serata, sa com'è.»
L'uomo guardò ora quello che aveva dichiarato di essere un ragazzo in faccia, ora la specie di tatuaggio che recava sul collo, di preciso nei pressi della giugulare, e prese a spurgare sudore da ogni poro come un ghiacciolo intento a squagliarsi sotto il sole estivo di una giornata particolarmente afosa.
Non esattamente un bello spettacolo, pensò Crystal senza celare una leggera smorfia di disgusto.
«C-Capisco.»
Il giovane lo scrutò in silenzio e si sfiorò il simbolo sul collo. «Ti piace?» chiese, sempre con raggelante calma. Appoggiò un gomito sul bancone e sorrise di sbieco. «Sai... mi sembra di aver sentito dire, mentre venivo qui, che in questa parte della città sono accadute cose... diciamo un po' strane e inquietanti. Orribili, anzi: omicidi bestiali in cui diverse persone sono state letteralmente macellate. Alcuni organi mancavano, così come il sangue. Erano state prosciugate fino al midollo. Tu ne sai niente?» Fece un altro tiro di sigaretta ed espirò il fumo dritto in faccia al portinaio che non reagì a tale azione e, piuttosto, si fece ancor più inquieto di prima. Le sue mani tozze e grandi erano ben serrate sul bordo della piccola scrivania alla quale sedeva.
Il lieve sorrisetto di Crystal si estese e i suoi occhi scintillarono di fronte alla reazione del portinaio che aveva l'aria di un animale in trappola che ormai era stato spinto in un angolo. I tratti del viso dell'uomo, però, stavano via via assumendo connotati animaleschi e bizzarri, disumani, malgrado lo stato di agitazione.
Il ragazzo socchiuse le palpebre e tamburellò le dita magre e affusolate sul davanzale della finestra che li separava. «Sei stato tu, non è vero? Certo che è così, altrimenti non staresti sudando freddo, adesso. Lì sulla parete, tra l'altro, c'è un cartello tutt'altro che piccolo che vieta di fumare qui dentro, eppure non hai battuto ciglio quando ho acceso la sigaretta. Sembravi quasi fregartene o essere tu stesso all'oscuro del divieto in questione, e questo... beh, mi fa pensare che tu non sappia fare questo lavoro come si deve.»
Non si trovava esattamente al Ritz, ma persino in posti come quello, ai giorni attuali, un portinaio ci teneva sempre a precisare che fumare in un luogo pubblico come l'ingresso di un hotel fosse vietato, eppure quel tipo non ci aveva fatto caso, troppo impegnato a non perder d'occhio lui e ogni suo minimo movimento.
Hai capito eccome chi e cosa sono. Lo hai capito dal primo momento in cui ho varcato la soglia dell'hotel. Non puoi fregarmi.
Scosse il capo, fece un ultimo tiro di sigaretta e infine la gettò a terra e la calpestò per spegnerla con l'anfibio nero e consunto. Si schiarì la voce, respirò profondamente e con gesti fluidi si privò del giaccone e lo gettò dietro di sé, proprio su una delle malmesse poltroncine color vomito a ridosso della parete all'interno del piccolo e stretto ingresso. Ciascun muscolo del suo corpo, in quel preciso momento, era teso e pronto a scattare al momento giusto. Intanto, servendosi della telecinesi – capacità basilare di qualsiasi strego del globo che si rispettasse - riuscì ad aprire il borsone, a estrarre la spada sigillata nel proprio fodero e ad impugnarla. Meglio essere previdenti e anticipare le mosse dell'avversario, come gli aveva ripetuto fino alla nausea il signor Barlow.
«Che cosa sei, dimmi? Non un vampiro: loro di solito non smembrano le vittime e non le divorano. No, no... sei qualcos'altro, ma non di certo un Wendigo. Non è il tuo habitat ideale e loro, comunque, hanno un modus operandi completamente differente.»
Sotto la pelle di quello che ormai era evidente non fosse affatto il vero portinaio dell'hotel, bensì una sua imitazione, una facciata che celava ben altro, era come se l'organismo stesse andando incontro a una palese ebollizione. Disgustoso a vedersi, ma assai comune fra i mostri che si sottoponevano a metamorfosi per camuffarsi fra gli esseri umani e agire indisturbati. Tremava, l'ignoto essere, e di sicuro non per il freddo.
«Va bene, non dirmi cosa sei. Lo scoprirò da solo. Dopotutto sono uno strego cacciatore e mi spiace dirti che il nostro incontro si conclude qui. Qualunque aborto delle tenebre tu sia, preparati a tornare da dove sei venuto» concluse Crystal minaccioso.
Il momento adatto stava per presentarsi. Lo sapeva, lo sentiva, lo avvertiva nell'aria come quando si percepisce l'elettricità prima di un violento temporale, e infatti...
Sotto il suo sguardo impassibile e vigile la bocca dell'essere si allargò fino a strapparsi nel vero senso della parola divenendo un orrido taglio netto che divideva a metà in orizzontale la faccia; davanti a Crystal, ora, v'era una cavità piena di denti acuminati e sottili come piccole lame oltre la quale fremeva una polposa, viscida e violacea lingua dalla quale colavano rivoli di densa, rancida bava di mostro. Gli occhi erano diventati completamente neri mentre le pupille si erano assottigliate come spilli e avevano assunto una tinta scarlatta; le sclere folli e fameliche erano iniettate di sangue e la pelle, già flaccida sin dal principio, presentava adesso un colorito biancastro e cianotico assai simile a quello dei morti per annegamento.
Un urlo penetrante e animalesco, agghiacciante, provenne dalle mostruose fauci che esalavano un fetore nauseante, il mefitico olezzo di tanti, troppi corpi i cui brandelli erano rimasti a marcire nello stomaco dell'essere per giorni e giorni.
Una visione da incubo, certo, ma non per Crystal che ormai ne aveva viste di cotte e di crude dopo cinque anni trascorsi a fare a fette creature parimenti disgustose e spregiudicate.
Con destrezza e precisione, infatti, il ragazzo sfilò dal fodero la spada, la fece roteare brevemente e tese il palmo della mano libera davanti a sé; un attimo dopo nell'atmosfera si sprigionò una circoscritta e intensa onda d'urto che fece esplodere in mille frammenti il vetro della finestra.
Approfittando del fatto che il mostro, lanciando grida disumane, stava provando a estrarre dalla spalla una grossa scheggia che lo aveva colpito, Crystal si introdusse agilmente e in rapida sequenza nella finestrella, passò sopra la scrivania e infine balzò a terra proprio alle spalle del mostro.
«Se hai così tanta fame, allora mangiati questo! Offre la casa!» sibilò, fendendo l'aria con la lama talmente in modo veloce che il suo avversario ebbe appena il tempo di voltarsi e ruggirgli contro un'ultima volta prima che la spada lo decapitasse di netto in un sol colpo. L'orrenda testa, dopo ciò, impiegò qualche secondo prima di staccarsi, con un suono vischioso e appiccicoso, dal busto che stillava ovunque sangue scuro simile a catrame. Un altro secondo e il capo dell'essere ormai morto cadde sul lercio pavimento a scacchi, producendo un sordo tonfo che si dissolse nel rinnovato silenzio della portineria.
«E anche questo è sistemato» sospirò fra sé Crystal prima di ripulire la lama della spada con un lembo della maglietta e, una volta fatto questo, rinfoderarla con un secco e metallico schiocco. Si accigliò e reticente annusò l'aria prima di accorgersi che era satura di un odore che conosceva a memoria ed era parte integrante della sua vita quotidiana: puzza di morte e putrefazione della peggior qualità.
Non si trattava solamente del sangue del mostro che spandeva ovunque un fetido e rancido olezzo.
Non gli andava di farlo, ma doveva sapere da dove provenisse con esattezza quella tremenda puzza.
Procedette verso la porta dall'altra parte del piccolo ufficio, la aprì ed entrò nell'appartamentino adiacente con una sana dose di cautela. La spada nuovamente sguainata nel caso ad attenderlo avesse trovato un altro essere come quello che aveva ucciso minuti prima.
Cercò l'interruttore, lo trovò e lo spinse: una luce fredda, quasi da obitorio, inondò fiocamente ogni cosa, compreso il segreto custodito là dentro da, a giudicare dall'odore, almeno un paio di settimane. A parte il caos degno di nota che regnava incontrastato, qui e là erano sparsi resti umani putrescenti assaliti dai saprofagi e dalle mosche che golosamente banchettavano su di essi. Era difficile risalire all'identità dei proprietari dei rimasugli in questione, ma a giudicare dai logori brandelli di vestiti poteva azzardare che si trattasse, in due casi, di individui qualsiasi di sesso maschile e femminile. Probabilmente un paio di sprovveduti che si erano presentati a fare check-in convinti di aver a che fare con un portinaio qualsiasi.
Crystal, facendo di tutto pur di trattenere il più a lungo possibile il fiato e non inspirare l'aria satura di quel tremendo odore, avanzò cauto fra i resti umani e si chinò per osservare meglio uno dei pochi effetti personali sporchi di sangue irrancidito che finì per riconoscere in mezzo a tutto quel guazzabuglio infernale: un distintivo della polizia e, poco distante da lì, una mano umana, probabilmente appartenente a un uomo, che ancora serrava fra le dita butterate una pistola che, poco ma sicuro, non aveva fatto in tempo a usare. Forse, pensò lo strego cacciatore, il poliziotto era stato sorpreso dal mostro nelle sue vere sembianze e, colto da un istinto primordiale, aveva invano provato a sparargli per respingere l'aggressione. La creatura, tuttavia, era stata più rapida. Tanto lesta da dilaniarlo in pochi istanti e lasciare come unica testimonianza di una lotta impari la mano armata di pistola.
Rinvenne, ancora più oltre, un secondo distintivo disseminato di graffi. Con quello il numero delle vittime mietute solo nell'hotel saliva a quattro. Quel figlio di buona donna aveva fatto secchi ben due piedipiatti.
L'ultima e quinta vittima, invece, si rivelò essere ovviamente il vero portinaio il cui cadavere era messo peggio degli altri e risultava esser stato sventrato e privato di gran parte degli organi interni. Per il resto era quasi intatto, se si escludeva la pennellata inconfondibile del processo di putrefazione, e non era un semplice caso né era stato una sorta di perverso atto di rispetto nei riguardi della salma: i Divoratori, perché di uno di loro si era trattato, quando sceglievano un luogo abitato da qualcuno come prossimo nido, erano soliti ucciderne il vero proprietario tramite un metodo preciso, ovvero divorandone soltanto gli organi principali senza badare a quel che li racchiudeva. Era così che, pur di passare inosservati e prosperare senza problemi, assumevano l'aspetto della vittima in questione. Una balorda e ignobile tecnica di sopravvivenza.
Gli altri disgraziati, invece, erano stati spolpati fino all'osso, sgranocchiati con famelica cura, e di loro restavano soltanto pochi frammenti putrefatti.
Ciò che tuttavia era davvero grave, era che quello fosse il secondo mostro nel quale Crystal era incappato in una sola notte e in zone non molto distanti l'una dall'altra.
L'altra creatura che aveva giustiziato solo due ore addietro? Una strige rintanatasi in una casa fatiscente e abbandonata dalla quale, secondo le persone nei dintorni interrogate dallo strego, si erano uditi provenire in più occasioni strepiti sinistri e urla agghiaccianti. Oltre a ciò, pareva fossero spariti dalla circolazione diversi animali domestici e, per ultimi, un ragazzino di soli nove anni insieme alla sorella di quattordici.
Venuto a sapere che da un pezzo circolasse voce fra i membri della Gilda di una consistente taglia sulla testa della strige in questione, lui aveva colto al volo l'opportunità per sfogarsi, dopo aver tagliato la corda dall'ospedale, e anche per ottenere finalmente un po' di soldi.
Quel che al momento lo disturbava, ad ogni modo, era sapere che non appena avesse fatto presente alla Gilda la presenza di un Divoratore, ovvero un demone mangia-uomini, a Shreveport, non avrebbe ottenuto alcuna ricompensa dato che fino ad allora nessuno si era preso la briga di indagare più a fondo sulle recenti sparizioni delle vittime rinvenute là dentro quella sera. Dovevano essere completamente rintronati per non aver iniziato a nutrire dei sospetti quando a svanire nel nulla erano stati due poliziotti inviati a fare un sopralluogo proprio lì nell'hotel a seguito della denuncia di scomparsa avanzata dalla sorella di una delle vittime.
Pazienza. C'era ben poco da piangere sul latte versato, ma forse sarebbe stato più opportuno parlare di sangue.
Estrasse dalla tasca quello che sembrava uno specchietto con il coperchio, prese una chiave dalla bacheca all'interno della reception e sfondò la porta per uscire. Appena si ritrovò fuori da lì ed ebbe ripreso la borsa si diresse spedito verso le scale. Quel posto gli faceva venire il voltastomaco, ma non aveva voglia di cercare chissà dove un hotel in cui passare la notte e non voleva spendere subito i soldi guadagnati con l'uccisione della strige.
Aprì lo specchietto, fece un gesto con la mano le cui dita si illuminarono per brevi istanti di una fioca luce violetta, infine nel piccolo specchio comparve il serio viso di una donna dai capelli rossi legati in un sobrio chignon. Sembrava annoiata.
«Crystal, che altro hai combinato?» esordì lei immediatamente, ma la voce risuonò solo nella testa del ragazzo che a sua volta rispose tramite la mente: «Sono in un hotel fatiscente e indovina cos'ho beccato? Un Divoratore. L'ho ammazzato poco fa e sarebbe meglio se qualcuno venisse a dare un'occhiata e a ripulire il casino. Per stanotte penso di aver fatto abbastanza».
La donna socchiuse lo sguardo. «Va bene, ho capito. Sicuro di stare bene? Hai una pessima cera e... aspetta, cos'è quel livido sul viso? Chi te l'ha fatto?»
Crystal si incupì. Tendeva a guarire in fretta dalle ferite, ma qualche segno dell'incidente recente se lo portava ancora dietro e il livido in questione apparteneva a suddetta categoria. Considerando che era stato beccato in pieno da un'auto in corsa, comunque, non poteva lamentarsi. «Uhm... una scazzottata in un bar, niente di che. Sono solo stanco. Sono giorni che cerco un posto dove sistemarmi e di guadagnare qualcosa per non finire a dormire sotto un ponte. Allora, Becca, fai venire qualcuno, sì o no?»
Lei sospirò e si massaggiò stancamente la fronte. «Per l'amor del cielo, Crystal! Non riesci proprio a non a farti sempre dei nuovi amici, vero? E va bene, va bene... manderò qualcuno a ripulire tutto. Però, secondo me, dovresti deciderti a entrare ufficialmente nella Gilda. Se non altro non dovresti rivolgerti sempre a me per...»
«Le cose devono restare così, Rebecca. La Gilda ha troppe regole, troppi protocolli e limitazioni. Non fa per me. Preferisco lavorare per conto mio anziché diventare un'ape operaia come tante altre.»
«Crystal, di questo passo ti metterai solamente nei guai. Non chiuderanno per sempre un occhio e tu agisci senza regole. A volte hai corso il rischio di essere scoperto, ricordi? Prima o poi succederà qualcosa e allora dovrai per forza scegliere. In caso contrario... beh, l'Arcimago della prossima Gilda che metterai in difficoltà provvederà di conseguenza e fidati, non ti piacerebbe. Non puoi continuare così, perciò... pensaci, va bene? La Gilda della Louisiana ti accoglierebbe a braccia aperte, credimi. Io stessa garantirei per te.»
Il ragazzo fece una brutta smorfia con le labbra. «Scusa se te lo dico, Becca, ma pare quasi che tu voglia convincermi ad ogni costo a scegliere proprio la vostra Gilda. Se sono così ambito, allora mi domando come mai un qualsiasi Arcimago si prenderebbe il disturbo di farmi arrestare e privarmi per sempre dei poteri. Perché insisti così, si può sapere? Lo fai da quando ci siamo conosciuti!»
Rebecca, conosciuta anche come semplicemente Becca, non fu abbastanza veloce da celare la sorpresa di fronte a quella domanda inattesa. «Non... non è che io voglia che tu scelga per forza la Gilda di cui faccio parte io stessa, Crystal, è solo che... nel caso ti servisse una mano per qualsiasi cosa, potresti contare sul mio aiuto. Tutto qui, credimi. Sei uno strego eccezionale e sarebbe terribile perdere un membro della comunità così capace. Quelli come te non sono mai abbastanza e i mostri sono sempre più agguerriti e affamati. Qualcuno che protegga gli innocenti là fuori è necessario e tu non puoi rinunciare a tutto solo perché non approvi fino in fondo i metodi delle Gilde.»
Crystal sbuffò tra sé. «Non ho bisogno dell'aiuto di nessuno» si limitò a replicare, il tono inflessibile e diretto di chi non voleva sentir ragioni. «Quel che dovevo dire te l'ho detto. Saluti, Becca.» Chiuse lo specchietto e lo mise via. Intanto era arrivato di fronte alla stanza abbinata al numero scritto sulla consunta etichetta incollata alla chiave: centododici.
Aprì la porta dopo tre rugginose mandate e se la richiuse alle spalle; abbandonò la borsa sull'orrenda moquette grigia e si prese solo la briga di andare a lavarsi la faccia nel bagno che avrebbe fatto rizzare i capelli in testa persino all'umano più sporco e indifferente presente sul pianeta, ben attento a non incrociare lo sguardo del proprio riflesso nello specchio rovinato sopra il lavabo. Sperava solo che il livido sulla faccia scomparisse in fretta e in quanto ai rimanenti danni che aveva riportato dopo l'incidente, gran parte di essi si erano risolti da soli durante la breve degenza di alcuni giorni in ospedale.
Era vero che gli streghi e le streghe guarivano più velocemente rispetto agli umani comuni grazie all'aiuto del nucleo magico che sin dalla nascita recavano dentro di sé e fungeva non solo da fonte di energia per incantesimi e sortilegi, ma anche come una specie di deposito di forza vitale al quale il corpo di uno strego in fin di vita o ferito attingeva pressoché automaticamente per sopravvivere.
Non era dunque strano che in così poco tempo fosse riuscito a tornare più o meno come nuovo, eppure... era accaduto in fretta. Troppo in fretta, lo sapeva. Non era la prima volta che si riduceva male per questo o quest'altro motivo, ma non appena aveva ripreso coscienza gli avevano spiegato che, giunto al pronto soccorso d'urgenza, il suo corpo si era presentato sull'orlo del collasso: ossa rotte in abbondanza, commozione cerebrale e rilevanti danni agli organi interni laddove era avvenuto l'impatto fra lui e la macchina in corsa. Una prognosi del genere avrebbe decretato per chiunque, forse persino uno strego come lui, la morte o comunque una lunga, dolorosa degenza, eppure così non era stato. Eccolo lì, in piedi e con le ossa di nuovo al loro posto, il cranio integro e gli organi che funzionavano al pieno delle potenzialità. Come se mai fosse stato investito...
Sei un cazzo di fenomeno da circo, Crystal Hawthorn, si disse, scuotendo la testa e facendo ritorno nella camera da letto. Arricciò il naso nel momento in cui i suoi occhi attenti ai dettagli individuarono ovunque sulle pareti un incipiente infestazione da muffa che stava via via prendendo sempre più piede. Che diamine, avrebbero dovuto rendere inaccessibili camere in uno stato così pietoso e, tra l'altro, pericoloso per la salute altrui. Con la muffa c'era poco da scherzare, specialmente quella nera.
Per fortuna aveva intenzione di trattenersi solo fino al mattino. Un po' di ore di sonno e poi sarebbe stato fuori da lì.
Provando a non badare all'odore di chiuso, di umidità e muffa che ristagnava sulle coperte scolorite del letto, si gettò sopra di esso e si ripeté di immaginare di trovarsi altrove. Dovunque tranne che in quell'hotel dell'orrore, ma non fu così semplice. Non si era quasi mai imbattuto in ambienti salubri e decenti nei quali dimorare o dormire, eccezion fatta per l'appartamento a schiera di Barlow. L'uomo, una volta, gli aveva detto che alla propria morte gli avrebbe lasciato in eredità quella casa, tuttavia se n'era andato un bel po' prima del previsto e non aveva mai avuto il tempo materiale per intestare a lui la dimora. Era stato allora che aveva scoperto dell'esistenza di Julian Barlow, figlio del fratello a sua volta passato a miglior vita di Lance e, dunque, nipote di quest'ultimo e unico erede dei tanti averi dello zio in quanto parente stretto ancora in vita.
Non era stato bello per Crystal, una settimana dopo il funerale di Lance, andare ad aprire la porta e ritrovarsi ad aver a che fare con un venticinquenne spocchioso e dall'accento britannico che, dopo aver brevemente spiegato la situazione con insopportabile boria e squadrandolo dall'alto in basso come se lui fosse stato uno scarafaggio repellente, gli aveva sventolato sotto il naso l'atto di proprietà del locale e i documenti che lo autorizzavano a prendere in custodia la casa del defunto zio del quale mai aveva conosciuto la reale occupazione e sempre era stato ritenuto da Julian un parente eccentrico e manchevole di diverse rotelle.
Crystal, di solito spigliato e sfrontato, non aveva potuto fare granché per rimandare l'inevitabile o rispondere a tono a quel borioso di Julian che gli aveva solamente dato il tempo di raccattare quel poco che possedeva e andarsene per sempre da quella che, per un po', era stata anche casa sua, non solo del povero Lance. Non aveva risposto quando il giovane Barlow, sempre guardandolo dall'alto del proprio piedistallo, gli aveva domandato quale fosse stato il suo ruolo nella vita dello zio. C'erano tante cose che Crystal avrebbe potuto dire, ma si era limitato a replicare che per lui Lance fosse stato un benefattore, un uomo gentile che lo aveva aiutato quando il resto del mondo si era solamente limitato a scansarlo come un animale randagio. Si era fatto sfuggire con Julian un'unica richiesta, anzi un'autentica supplica: di aver cura della casa di Lance.
Attualmente non sapeva cosa ne fosse stato di essa, ma qualcosa gli diceva che Julian avesse dimenticato ben presto le sue parole. In ogni caso, non avrebbe avuto la forza né la possibilità di tornare in quell'appartamento newyorkese sospeso nel tempo per accertarsi che fosse stato trattato con ogni riguardo.
E comunque... era solamente un appartamento. Era solo una casa, un agglomerato di pareti e pavimenti ormai svuotato del suo vero e unico cuore. Non gli importava né gli era mai importato di quel posto. L'unica cosa che davvero avrebbe desiderato, era di esser stato lì quando Lance aveva avuto bisogno di lui, anziché altrove. Quando era rincasato era ormai troppo tardi: lui era lì, a terra e in un bagno di sangue.
Era stato allora che Crystal era incorso in un'orribile e tuttavia obbiettiva riflessione: tutti quelli che lo circondavano e ai quali lui finiva per affezionarsi, alla fine, andavano incontro a qualche disgrazia e se ne andavano per sempre. Sua madre che non era vissuta abbastanza da poter stringerlo in braccio; suo padre che per dieci anni si era preso cura di lui malgrado le difficoltà economiche e il dolore per la perdita della compagna di cui Crystal mai aveva conosciuto il nome, non avendo avuto mai il coraggio di chiedere a suo padre altre informazioni sul conto della donna. E poi era successo di nuovo: l'ultimo membro della sua famiglia se n'era andato e nessuno di coloro che lo avevano preso e mollato al sistema di affidamento si era preso la briga di spiegargli come avesse potuto un uomo di soli trentotto anni e pressoché in buona salute morire all'improvviso. Un assistente sociale, alla fine, gli aveva brevemente detto, una volta, e in modo edulcorato, che si era trattato di un brutto incidente, di una fatalità, ma Crystal lo aveva guardato negli occhi e aveva capito di aver a che fare con una semplice menzogna. Aveva perso suo padre e doveva farsene una ragione, ecco quale messaggio fra le righe aveva recepito, ma lui non aveva mai smesso di cercare di scoprire la verità, di capire perché anche suo padre gli fosse stato sottratto da un giorno all'altro. Mai avrebbe smesso di fare domande, di chiedere perché.
E poi, dopo anni trascorsi a non fidarsi più di nessuno e a sentirsi abbandonato a se stesso in un mondo che gli appariva troppo grande, ottuso e famelico per uno come lui, ecco che era arrivato Lance a restituirgli un brandello di speranza, di fiducia nel futuro. Come tutte le cose belle e le persone migliori, però, Lance era svanito all'orizzonte proprio come accadeva ai miraggi nel deserto. Crystal avrebbe voluto tanto ricordarlo in molti modi, rievocando momenti che gli avevano fatto conoscere il calore di una famiglia, per quanto piccola e unica nel suo genere, ma tutto ciò che la sua mente riusciva a estrarre dal pozzo delle rimembranze era solamente la terribile, dolorosa immagine del signor Barlow che giaceva immerso nel proprio sangue con gli occhi ormai vitrei e spenti.
A volte si ritrovava a rivivere quegli attimi negli incubi e, quando accadeva, lui invano provava a soccorrere Lance finendo solo per peggiorare la situazione e ucciderlo con le sue stesse mani.
Una coincidenza che Barlow avesse fatto quella brutta fine proprio dopo aver incrociato lui e secondo l'esperienza di Crystal le coincidenze raramente si rivelavano esser davvero tali.
No, non si era trattato di una coincidenza. Né nel caso di Lance né in quello di suo padre, Dion.
Forse, pensò mentre invano si rigirava nel letto, c'era qualcosa in lui che semplicemente attirava certi avvenimenti terribili. Magari era nato con la tragedia scritta nel sangue e c'era ben poco da fare, a parte tenere a distanza il prossimo per far sì che nessun altro perdesse la vita inutilmente.
Sbuffando sonoramente il ragazzo si tirò su, scivolò giù dal letto e recuperò dalla tasca del soprabito appeso al vecchio attaccapanni vicino alla porta d'ingresso le sigarette e il consunto zippo che aveva sgraffignato a un tizio mentre quest'ultimo si rivestiva dopo una sveltina nell'auto in cui avevano consumato il rapporto. Col senno di poi aveva fatto bene a rubarglielo da sotto il naso visto che l'idiota lo aveva pagato meno del previsto.
Si accese una sigaretta e tornò a sedersi sul materasso. Benché fosse stanco morto dopo essersela filata da un ospedale e aver setacciato la città per tutto il giorno e quasi tutta la notte per fare quattrini e, infine, aver dovuto sistemare un disgustoso Divoratore, non era stupito nel realizzare di non avere quasi affatto sonno.
I pensieri correvano e si aggregavano, si affastellavano e fornivano ulteriore carburante al suo cervello che, di conseguenza, non voleva saperne di mettersi a riposo.
Non volendo tornare a rimuginare su Lance o su suo padre, si concentrò piuttosto sul tizio strambo che aveva incrociato all'Haven Loung e Bar; lo stesso imbecille che a furia di seguirlo lo aveva fatto distrarre e finire sotto un'auto.
Non era finita lì, però: non appena si era risvegliato in ospedale, infatti, lo aveva visto al proprio capezzale. Una vera fortuna che in quel momento Crystal fosse stato talmente debole da non riuscire quasi a muoversi, perché diamine se altrimenti non sarebbe volentieri scattato in avanti per mettere le mani al collo di quel tizio che si era infine presentato con lo stupido e insensato nome di Ragos Elimar.
Dio, quanto avrebbe voluto strangolarlo fino a fargli schizzare via dalla testa i bulbi oculari, specialmente quando quel palestrato da strapazzo aveva iniziato a porgli un bel po' di domande alle quali lui, che scemo non era né mai era stato, prontamente non aveva risposto o, se lo aveva fatto, aveva semplicemente deciso di rifilargli delle panzane inventate sul momento.
Perché diavolo avrebbe dovuto dirgli la verità, dopotutto? Nessuno era talmente idiota da confidarsi con un perfetto sconosciuto, specie quando suddetto individuo aveva causato un gran bel guazzabuglio coi controfiocchi. Senza contare la stramba conversazione avvenuta fra di loro in quel locale di Shreveport, poi!
Una cosa era sicura: quello lì era un tipo strano, forse persino losco, e Crystal era felice di averlo seminato. Pur di toglierselo dalle scatole almeno per qualche minuto aveva dovuto riferirgli il proprio cognome, ma non aveva importanza. Era stato sufficiente esitare qualche secondo e chiedere a Elimar di andare a prendergli un sorso d'acqua per farlo allontanare e approfittare dell'attimo per svignarsela di corsa dall'ospedale.
Quella sottospecie di motociclista non sarebbe mai riuscito a rintracciarlo perché Crystal Hawthorn era bravo nel seminare chi lo importunava e a sparire dalla circolazione, se lo desiderava. Lo faceva sin da ragazzino e si reputava un autentico maestro dell'arte in questione.
Aveva una vera faccia da stronzo, tra l'altro, pensò il giovane Hawthorn mentre spegneva la sigaretta a terra. Il pavimento era già sozzo di suo e di certo un mozzicone spento non avrebbe fatto granché differenza.
Ma sì, ormai me lo sono tolto di mezzo. Non riuscirà a rintracciarmi.
Tornò a stendersi sullo scomodo letto che protestava con gemiti metallici al minimo movimento. Doveva trovarsi un posto fisso dove abitare, uno dove magari non ci fossero scarafaggi e ragni a zampettare qui e là. Riusciva a percepire vagamente quegli schifosi bacarozzi aggirarsi per il pavimento, negli angoli e nelle intercapedini, e non era una bella sensazione essere consapevoli di avere tra i piedi inquilini abusivi di quel tipo.
Come faceva a captare quei disgustosi esserini? I suoi sensi erano più precisi rispetto alla norma e aveva sempre giustificato tale particolarità con le doti magiche che possedeva. Questo, almeno, era ciò che Lance gli aveva detto una volta.
Celò uno sbadiglio, si rannicchiò e seppellì sotto il giaccone che aveva scelto di usare come coperta improvvisata e finalmente si addormentò, stufo di rimuginare.
La fioca luce del sole che filtrava dalle tapparelle socchiuse svegliò Crystal quando erano all'incirca le sette del mattino. Il ragazzo mugolò tra sé e si stiracchiò. Che la colpa fosse del sonno in sé per sé o dello scomodo giaciglio doveva aveva scelto di dormire, dire che si sentisse intorpidito e rattrappito sarebbe stato fin troppo riduttivo.
Gli sarebbe piaciuto farsi una bella doccia e riempirsi la pancia con qualcosa da mangiare, ma in quel posto non v'era un bagno decente né tantomeno materia commestibile, a meno che non volesse incappare nella salmonellosi o cibarsi di insetti.
Scivolò giù dal letto e si ravviò e scompigliò i lunghi capelli chiari. Ogni volta che era stato lì lì per tagliarseli, poi aveva sempre rinunciato perché si era ormai affezionato a quella lunghezza e si sentiva in un certo senso al sicuro dietro a una folta cortina biondo cenere che lo schermava, in un certo senso, dal resto del mondo. Quando faceva caldo, semplicemente, li legava. Volente o nolente aveva appreso mille tecniche diverse per sistemare la propria chioma, dato che aveva vissuto per alcuni anni costretto nei panni di una ragazza ai tempi in cui era stato nella famosa famiglia tanto affidataria quanto tossica e malsana. La cosa divertente era che appena usciva di casa, incrociata una siepe abbastanza alta e fitta vi si nascondeva dietro e si cambiava i vestiti, sostituendo le stupide gonne con jeans sformati; il reggiseno – tra l'altro inutile, che dava l'illusione di un seno in realtà inesistente – e i maglioncini pastello li aveva sempre rimpiazzati con magliette larghe ornate da orridi teschi e tutto ciò che la madre affidataria aveva sempre ritenuto orripilante e di cattivo gusto. Prima di far ritorno a casa, poi, nel bagno di scuola era stato solito cambiarsi di nuovo per non farsi scoprire da quei due squilibrati.
Al momento, comunque, indossava ancora i vestiti risalenti alla sera dell'incidente, ovvero una maglietta con il logo degli Iron Maiden e jeans strappati in più punti per via della collisione con l'auto che gli era andata addosso. Recuperò le Marlboro dal comodino dove le aveva abbandonate la sera prima e si accese un'altra sigaretta. Non era una bella abitudine farlo di prima mattina o fumare in sé per sé, ma poco gliene importava, e comunque aveva fame e doveva far qualcosa per evitare di pensarci, benché oramai fosse assuefatto alla nicotina.
Si alzò in piedi, un po' barcollante, si caricò la borsa in spalla e decise finalmente di abbandonare quella topaia. Il corridoio era deserto, sembrava il set per un film dell'orrore a tema, e l'ascensore era ovviamente fuori uso. Tirò dritto verso le scale e quando la sigaretta finì, la gettò su uno scalino e la spense con lo stivale.
Giunto a piano terra vide che la reception era stata già ripulita: il macello della notte precedente era sparito, così come il Divoratore, e probabilmente quelli della Gilda – che avevano contatti con le forze dell'ordine umane – avevano provveduto ad allertare la polizia della presenza dei cadaveri, compresi quelli di due loro colleghi. Quanto sarebbe accaduto in seguito non era un affare di sua competenza. Lui ammazzava solo i mostri e a ripulire il casino ci pensavano gli altri.
Prima di uscire si fermò di fronte all'entrata del fatiscente hotel e controllò ancora una volta quanti soldi aveva: circa duecento dollari.
«Non pagano più come una volta per liberare il mondo da certe sozzure» borbottò incupito, spintonando con la spalla la porta e uscendo. C'era già un po' di gente in giro e qualche macchina bazzicava la strada. Si avviò lungo il marciapiede rigirandosi fra le dita il biglietto che aveva trovato sul bancone della reception prima di andare via. Riconobbe subito la grafia di Rebecca. «'Dato che ormai so come sei fatto, ho pensato di darti un aiutino. Visto che sei alla ricerca di un posto dove stare, ho pensato di darti una mano almeno in questo: conosco una persona che potrebbe essere un buon coinquilino per te e che è proprio alla ricerca di qualcuno con cui condividere le spese d'affitto. Lo so, sei un lupo solitario, ma non credo tu abbia molte alternative. Un abbraccio, Rebecca. P.S. Per favore, Crsystal, sii prudente. Shreveport è una città pericolosa e la Louisiana, in generale, pullula di creature che potrebbero non essere felici della tua presenza qui. Tieni gli occhi aperti e, per favore, mantieni un basso profilo. Buona fortuna'» lesse a bassa voce.
Gonfiò le guance e sbuffò sonoramente, ficcandosi il biglietto in tasca. Crystal era una persona molto orgogliosa, a volte fin troppo, e non gradiva esser aiutato, ma poteva dare una possibilità alla proposta di Rebecca. In fin dei conti quella donna era affidabile e conosceva persone affidabili, perciò tanto valeva concederle il beneficio del dubbio.
Tenendo bene a mente l'indirizzo che Becca aveva trascritto sul biglietto, vide passare un taxi e decise di fermarlo al volo e di salire a bordo. Riferì l'indirizzo al tassista e quest'ultimo partì. La corsa terminò quando la macchina si arrestò in un quartiere abbastanza tranquillo e dall'aria assolutamente normale. Uno degli edifici consisteva in un complesso di appartamenti che, almeno da fuori, non si presentava affatto male.
Pagò il tassista e lo fece a malincuore quando scoprì che la corsa gli era venuta a costare non poco. Borbottando aspre critiche verso i tassisti che parevano sempre più agguerriti e decisi a spolpare la gente alla prima buona occasione, rilesse l'indirizzo e si avvicinò al complesso. A destra vide che c'era una scala di ferro che portava agli appartamenti più alti. Si fece forza e salì i gradini, fermandosi poi di fronte a una porta verde chiaro. Respirò profondamente e suonò il campanello.
Dopo qualche istante venne ad aprire un giovane uomo di colore e Crystal, malgrado ultimamente fosse ben poco dell'umore per certe cose, non poté far a meno di notare che fosse davvero carino. Forse, però, aveva la faccia un po' troppo da bravo ragazzo della porta accanto.
Si diede un tono e schiarì la voce. «Uhm, salve, io sono Crystal Hawthorn e...»
«Ah, sì! Certo! Sei il ragazzo di cui mi ha parlato la signora Dawson ieri sera!» esclamò l'altro, battendosi una mano sulla fronte. «Ha detto che stavi cercando un posto dove stare e un coinquilino!»
Crystal per poco non iniziò ad avere un tic all'occhio sinistro. Appena metto le mani addosso a Rebecca, giuro che le calo di piatto la spada sul sedere!
Immaginava, comunque, che Rebecca fosse entrata in contatto con quel ragazzo perché, oltre a essere colei che gestiva gran parte degli affari e delle questioni interne della Gilda della Louisiana, ovviamente con il beneplacito e l'approvazione dell'Arcimago Dupont, capo supremo della congrega in questione, era anche una delle professoresse più rinomate dell'Istituto di Arti Magiche e Scienze Alchemiche Silver Meadow di Baton Rouge. Lei e il professor Pothier, altro membro rispettato all'interno della Gilda della Louisiana, andavano famosi per aver fornito importanti contributi accademici alla Gilda cui appartenevano.
Era ovvio, dunque, che quel ragazzo frequentasse l'istituto privato nel quale Rebecca Dawson stessa insegnava; la Silver Meadow, in effetti, ospitava anche una facoltà universitaria, non solo una scuola per ragazzini e adolescenti. Era abbastanza grande e famosa nel settore per poter permettersi di ospitare una fauna di giovani streghi e streghe così variopinta.
Hawthorn tossicchiò. «Sì, beh, più o meno» borbottò. «Tu sei...?»
«Grayson Jennings, ma chiamami pure Gray!» rispose il giovane tendendogli una mano. Crys fece un lieve cenno e si scambiò una breve stretta di mano con Jennings. «Frequenti il corso della Dawson, immagino» tirò a indovinare.
«Oh, sì» confermò Grayson, un po' in imbarazzo. «Di recente avevo sparso in giro la voce che ero alla ricerca di un coinquilino nuovo e... beh, ieri sera, dopo la lezione, la professoressa Dawson mi ha fermato e detto di aver forse trovato qualcuno che potesse fare al caso mio. Solo... non pensavo parlasse di una persona esterna alla facoltà. N.Non che voglia insinuare qualcosa, Crystal, ma... non mi pare di averti mai visto alla Silver Meadow, tutto qui.»
«No, in effetti non faccio parte del club» ironizzò Crystal con una stretta di spalle. «Ho ricevuto un'istruzione... diciamo privata, ecco.» Non se la sentiva di parlare di Lance Barlow per ovvie ragioni.
Grayson lo squadrò stupito. «Privata? Vieni da una famiglia ricca?»
«Uhm... non esattamente. Io... ecco... vedila così: uno strego mi ha scoperto per puro caso mentre bazzicavo le strade come un gatto randagio e... beh, ha deciso di insegnarmi un paio di cose su come catalizzare nel modo giusto i miei poteri. Lunga storia e... francamente non mi va di parlarne, scusa. Niente famiglia ricca, temo.»
Jennings deglutì e si massaggiò la nuca con evidente disagio dopo quella clamorosa gaffe. «Oh, s-scusa. N-Non pensavo che... davvero, mi dispiace. A volte parlo troppo, mia madre me lo ripete spesso» biascicò. «Non dev'esser stato semplice accettare... beh, di avere dei poteri e tutto il resto, immagino.»
«Mi sono adeguato in fretta e ho avuto per fortuna un mentore paziente. Era una brava persona e gli devo tutto ciò che oggi so sulla magia.» Crys schiarì la voce e si ficcò le mani in tasca senza aggiungere altro. Il silenzio imbarazzante che seguì spinse Gray ad armarsi di spirito d'iniziativa e indicare l'ingresso dell'appartamento alle proprie spalle. «Vuoi... vuoi entrare per dare un'occhiata, Crystal?»
«Okay» concesse Hawthorn, seguendolo dentro.
L'immobile era abbastanza spazioso e recava la chiara firma della presenza di un giovane uomo che viveva da solo: c'era un po' di disordine ovunque e dalla cucina proveniva un lieve aroma di caffè appena fatto. Oltre al leggero caos da studente con la testa altrove, però, v'erano anche oggetti che si potevano trovare normalmente in qualsiasi luogo che fosse abitato da uno strego: varie ampolle, alcune con all'interno liquidi dai colori sgargianti, volumi di ogni dimensione sulla magia, qualche monile e tanto altro ancora. Un guazzabuglio, certo, ma nel suo esser caotico celava un suo preciso ordine, quello stabilito dal proprietario dell'appartamento.
«Non ti ho buttato giù dal letto, vero?» chiese Crystal mentre continuava a guardarsi in giro con un po' di crescente interesse. Quel posto non era male, tutto sommato, e fino ad allora Grayson si era comportato bene.
Il giovane strego scosse la testa. «Nah! Stavo studiando, in realtà! Ho un esame importante fra qualche giorno e mi stavo facendo almeno la centesima tazza di caffè, quando hai suonato.»
«Che tipo di esame devi dare?»
«Quello per la qualifica di Strego Avanzato» spiegò Grayson. «Fatto questo, entrerò ufficialmente a far parte della Gilda e a quel punto potrò concentrami sugli studi di specializzazione.»
Crys si fermò di scatto e osservò con maggior attenzione la scopa posata a ridosso della parete in salotto. Non era come quelle moderne, piatte e squadrate, ma come quelle che ormai si vedevano raramente dotate di ramoscelli tutti riuniti attorno al bastone e sparati verso l'esterno. Un'autentica scopa di saggina incantata. «Non ci posso credere! E io che pensavo che ormai solo in Europa e quelli più tradizionalisti le usassero ancora!» esclamò, indicando la scopa.
Gray sghignazzò. «E invece no! Quella era di mia madre ed è appartenuta ancor prima a mia nonna! Ho la patente, ovviamente, però spesso preferisco usare la scopa.»
«Ma come fai? Voglio dire... se qualcuno ti vedesse?»
«Non c'è pericolo! È stregata, no? Quando la uso sia lei che io spariamo così da evitare che venga un colpo a qualcuno!»
Crys tornò a guardare il manico di scopa e non poté non sorridere con un po' di nostalgia. L'ultima volta che ne aveva vista una autentica era stato quando ancora abitava con il suo mentore. Lui, proprio come Grayson, era sempre stato uno strego legato alle vecchie tradizioni della loro specie come, ad esempio, quella di usare una scopa come mezzo di spostamento invece di arrendersi alla modernità delle automobili. «Sono passati anni dall'ultima volta in cui sono salito su una scopa. Volavo da schifo.» Lance ci aveva provato in ogni maniera a insegnargli a cavalcarne una, ma sempre con scarsi risultati e quando il ragazzo si era quasi rotto l'osso del collo durante uno dei tanti disastrosi voli Barlow si era arreso per la paura che rischiasse di farsi seriamente del male. Crystal si era a malincuore ritrovato a concordare con lui.
«Io sono abituato a volare sin da quando ero bambino» disse Gray. «Ricordo che mia madre a volte doveva usare la magia per farmi tornare a terra quando era l'ora di cena e io non volevo saperne di scendere.»
Crystal, capendo che stavano sfociando nel discorso sui genitori, ovvero un argomento che ben poco gradiva, cambiò subito rotta: «Potrei avere un caffè? Ne ho davvero bisogno!»
Grayson sorrise e gli fece cenno di seguirlo in cucina. «Rebecca ha detto che sei uno strego cacciatore, uno di quelli che uccide i mostri» disse mentre svitava il barattolo di caffè solubile e ne versava un paio di cucchiai ciascuno in due tazze. Nel frattempo il bollitore iniziava ad emettere vapore. «In pratica quelli come te somigliano a coloro che secoli fa venivano chiamati Benandanti, solo che loro davano la caccia agli streghi e alle streghe.»
Crys, il quale era a conoscenza della storia della comunità magica, sbuffò una risata. «Più o meno, sì. Vado in giro per le città e ammazzo i mostri per vivere. La gente, però, non vede di buon occhio quelli come me.»
Grayson sospirò, mentre versava l'acqua calda nelle tazze. «Questo è vero, in effetti. Dicono che uccidete creature che dovrebbero invece essere tutelate perché a rischio di estinzione.»
«Peccato che i mostri non siano esattamente come i panda» fece Crystal, sarcastico. «Non è colpa mia o dei miei colleghi se quegli esseri schifosi non hanno mai imparato a convivere con la razza umana.» Si sedé al piccolo tavolo rotondo. «I lupi mannari non sono esattamente cagnolini coccolosi da regalare ai nipotini per Natale con tanto di fiocco rosa al collo. Non so se mi spiego.»
Jennings gli passò la tazza di caffè e prese posto di fronte a lui. «Però una cosa non puoi negarla: un giorno i mostri finiranno, di questo passo, e a quel punto quelli come te non avranno più uno scopo» disse esitante. «Voglio dire: se un domani tu ti svegliassi con la consapevolezza di non aver più neppure un mostro da abbattere, cosa faresti?»
Crystal cacciò cinque zollette nel caffè e girò il tutto con il cucchiaino che Gray gli aveva consegnato. «Boh. Farei qualcos'altro, suppongo. Potrei trasferirmi in Australia e allevare canguri.»
Gray quasi si strozzò col caffè. Tossì e ridacchiò allo stesso tempo. «Tu cosa?» chiese, senza smettere di sghignazzare.
Crys fece spallucce e lo guardò dall'alto in basso con fare solenne. Ovviamente gli stava reggendo il gioco. «Non ti sembra un'occupazione rispettabile?»
«Non ti ci vedo granché bene, a essere franco» ammise scherzoso Jennings.
«Allora spara, su» lo sfidò Crystal, anche lui di umore leggero, adesso.
«Mmm...» Grayson finse di pensarci un po' su. «Sei più un tipo da koala.»
«Fottiti» ghignò Hawthorn, sorseggiando il caffè. «A proposito di animali: tu ce l'hai un famiglio?»
Gray annuì, ma sembrava rattristato. «Lo avevo, ma...» Deglutì. «Era un cane lupo, si chiamava Xypher.»
Crys si fece dispiaciuto, captando subito che si trattava di un argomento delicato. «Che gli è successo?»
«Era abbastanza vecchio, a esser onesti. Era in famiglia da prima che nascessi. Quando sono arrivato io si è fin da subito comportato come se fossi un cucciolo che doveva proteggere a ogni costo. Abbiamo stretto un forte legame e questo lo ha reso il mio famiglio. Se n'è andato un paio di anni fa e non ho mai avuto il coraggio di prendere con me un altro animale e comunque... non è mai scattata quella tipica scintilla che di solito ti fa capire di aver trovato un compagno d'avventure unico nel suo genere.»
Hawthorn sospirò. «Mi dispiace, dico davvero.»
«E tu?» rilanciò la palla Gray, forzando un sorriso. Era chiaro che parlare del suo cane gli facesse ancora male.
«In teoria avrei per famiglio un serpente, ma quel vagabondo se ne va sempre in giro» rispose Crystal con un sorriso storto. «Sempre a caccia di ratti o uccelli, però poi mi trova sempre, anche se sono un bel po' distante da dove si trova lui. Un giorno il mio mentore è tornato a casa e aveva con sé un uovo di serpente che era prossimo alla schiusa e infatti, giorni dopo, ecco che è nato un serpentello bianco come il latte. Invece di averne paura... beh, ho capito subito che mi aveva rubato il cuore. È come se mi capisse al volo.»
«Un famiglio a regola d'arte» intervenne Grayson. «Come l'hai chiamato?»
«Non ho mai capito se sia maschio o femmina, perciò ho chiamato il serpente Biancospino.»
Jennings sbuffò una risata. «Quanta fantasia*!»
«Almeno si capisce subito che è di famiglia» lo rimbeccò Crystal mostrandogli il dito medio. «Comunque, come ho detto, di tanto in tanto se ne va in giro, ma poi torna sempre. Penso che prima o poi capiterà qui e potrai conoscerlo.»
«Quindi resti?»
«Sì, resto. Non sei male, Gray, e mi sembri uno a posto.»
Grayson parve felice della sua decisione. Non doveva avere molta gente con cui parlare e forse viveva molto lontano dalla sua famiglia, cosa che probabilmente lo faceva sentire solo. «C'è una stanza libera. Prima avevo un altro coinquilino, ma poi si è dovuto trasferire in Ohio per un apprendistato ed è da allora che ne cerco uno nuovo» disse alzandosi. «Hai solo quella borsa con te?»
«Sì, ho solo questa» replicò Crystal. «Viaggiando sempre evito di portarmi dietro troppe cose.» Preferiva non ammettere di non avere in realtà chissà quanti possedimenti neppure altrove.
Tornarono insieme all'ingresso e Hawthorn recuperò la borsa, poi seguì Grayson che lo condusse fino a una porta che si trovava di fronte a quella di un'altra camera da letto nella quale regnava il disordine proprio come nel resto dell'appartamento. L'ambiente che gli si presentò non appena Gray aprì la porta, invece, gli parve ordinato e in netto contrasto con il resto dell'immobile, ma anche freddo. Il freddo dell'assenza. Il coinquilino precedente doveva esser andato via diverso tempo addietro.
«Andrà benissimo» sentenziò Crystal che non aveva chissà quali pretese. Gli bastava avere un letto dove dormire che non fosse infestato dagli scarafaggi e dalle tarme. «Per l'affitto... uhm... dammi all'incirca un paio di settimane e racimolerò denaro a sufficienza per pagare la prossima quota mensile.»
«Non preoccuparti. Prenditi il tempo che ti serve. Non è facile guadagnare di questi tempi, lo so bene.»
«Tu come ti mantieni?» domandò Crys per pura curiosità.
«Ho una vera specialità per i medicamenti e gli elisir» rispose Gray con una punta di sano orgoglio. «Chi sa chi sono e cosa faccio viene da me alla ricerca di un rimedio e io glielo procuro.»
Crystal, il quale aveva posato sul letto la borsa e l'aveva appena aperta, pose fine all'incantesimo di camuffamento sulle armi. Udendo la risposta dell'altro ragazzo, tuttavia, si bloccò e tornò a guardare Gray. «Quindi vuoi diventare un Guaritore?»
«Colpito e affondato. Terminati tutti gli studi avrò l'attestato e potrò iniziare a lavorare a tempo pieno.»
Hawthorn esitò. Non aveva mai approfondito quali conoscenze potesse o dovesse possedere un guaritore. «Per caso i Guaritori si occupano... uhm... anche di difetti genetici e fisici gravi o comunque radicali?» Dal suo tono di voce era evidente che fosse speranzoso.
Grayson si accigliò. «Perché me lo chiedi?»
«Riguarda un difetto che ho sin dalla nascita e mi ha procurato solo guai a non finire» snocciolò Crys. «Tu saresti capace di rimediarvi?» Si domandava come avesse potuto Jennings non notare il suo aspetto fuorviante. Forse, ragionò, lo aveva notato, ma aveva scelto semplicemente di non sollevare l'argomento per educazione.
«Devi essere più specifico» spiegò Gray con delicatezza.
Il cacciatore sospirò. «Come... come avrai notato dal mio aspetto, io sono un transgender o qualcosa di simile» disse, gesticolando nervosamente. Accennò al proprio torso. «Da qui alla cintola sono un ragazzo, ma poi... per il resto sono una donna. Insomma, ho organi femminili funzionanti. Ecco. Quindi chiedo se non sarebbe possibile rimediare finalmente al pasticcio di Madre Natura e poter avere una vita normale come tutti gli altri.»
Grayson deglutì, in difficoltà. Non sembrava impressionato nel senso negativo del termine, ma era comunque scosso. «Non saprei» ammise. «Voglio dire... è più facile agire sulle ferite inferte dalla magia, su difetti sorti dopo una maledizione o simili. Quando, tuttavia, si parla di problemi presenti sin dalla nascita e non dovuti a un sortilegio, le cose si complicano, Crystal. Diventa pericoloso agire, capisci? Molto pericoloso.»
«Quindi non c'è rimedio? Dovrò restare come sono per tutta la vita?» incalzò Crystal, sconsolato. «Se solo avessi i soldi mi rivolgerei a un chirurgo, insomma a un medico umano, ma non li ho e non riuscirò mai ad averne a sufficienza per operazioni così costose.»
Gray si lasciò cadere sul letto e gli fece cenno di sederglisi accanto. Crystal lo fece e prese quell'invito come un pessimo segnale. «Se anche si potesse rimediare alla tua condizione, sicuramente sarai a conoscenza di una delle regole basilari e più importanti della magia: non fa mai niente per niente e bisogna darle qualcosa in cambio. Se tu cercassi di rimediare a questa tua particolarità, potresti dover rinunciare a qualcos'altro e questo è un fatto. Madre Natura ti ha creato così e una delle cose che sin da subito mi sono state insegnate, è che Madre Natura non agisce mai per semplice caso, ha sempre uno scopo. Cambiare ciò che sei equivarrebbe ad andare contro il volere della Natura e ciò porterebbe a grosse conseguenze. Troppe volte pensiamo di volere una cosa e poi scopriamo che non era quello di cui avevamo però bisogno, Crystal. Noi streghi siamo i figli, i discepoli della Natura. Con lei abbiamo un rapporto stretto, anzi simbiotico, e dobbiamo rispettare le regole che ci ha imposto. Se scegliamo di infrangerle, però, lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Ci concede il libero arbitrio, certo, ma sta a noi scegliere quale uso farne.»
«Sì, ma...»
«Ti faccio un esempio concreto.» Gray schiarì la voce. «Io sono figlio unico, Crystal, e di certo non perché i miei genitori non desiderassero altri figli. Vedi... mia madre era sterile e io sono arrivato relativamente tardi. I miei avevano quarant'anni e passa quando nacqui. Ebbene, per raggiungere questo risultato che per loro era così sofferto si rivolsero a una Guaritrice: lei li avvertì, però, che il loro desiderio di avere un figlio avrebbe avuto delle conseguenze perché il volere della Natura, evidentemente, nel loro caso non prevedeva l'arrivo di un figlio. Accettarono comunque perché erano disperati. La morale di tutto è che mio padre morì in uno strano incidente proprio mentre io, nella casa in cui poi sono cresciuto, venivo alla luce. Una vita per una vita, capisci? Ciò che prendi poi lo devi restituire, non importa in quale forma o maniera. Il debito va sempre ripagato e più il desiderio di avere qualcosa è grande, intenso e impegnativo, più il prezzo da pagare sarà alto e talvolta spiacevole.»
Crystal deglutì a vuoto. «Mi... m-mi dispiace per tuo padre. Dico davvero, Grayson.» Nessuno meglio di lui poteva capire come ci si sentisse a perdere un genitore. Non sapeva se Jennings si sentisse responsabile o meno per quanto avvenuto al padre, ma lui, invece, intuiva di esser stato la causa della morte di sua madre che, pur di darlo alla luce, aveva rinunciato alla propria di vita. Sapeva bene come ci si sentiva a reputare se stessi la causa del male di persone care.
Grayson, però, scosse la testa. «Non ti ho detto tutto questo per rattristarti. Voglio che tu comprenda appieno il rischio. Chiediti se ne varrebbe la pena veramente, Crystal. Nel tuo caso potresti dover rinunciare a qualcosa che ami, che è importante per te o... non so, ad altre funzioni naturali del tuo corpo: potresti dover rinunciare alla capacità di vedere o di sentire, alla salute, alla facoltà di parlare o camminare. A quel punto saresti felice, dimmi? Cambierebbe qualcosa se rimanessi comunque incompleto, seppur in maniera differente?»
Crystal non seppe cosa rispondere. Certo, non era una bella prospettiva il diventare completamente un uomo e poi non poter più camminare o diventare cieco, sordo, muto o chissà cos'altro, ma... neppure la vita che conduceva attualmente offriva chissà quali incantevoli scenari. «Quali alternative ho, allora?»
«Accettare ciò che sei perché tutti quanti noi abbiamo dentro una ricchezza inestimabile. Persino una persona con un grave handicap cela in sé qualcosa di prezioso e unico. Ogni vita conta, anche quella condotta nel dolore e nella sofferenza perpetui. Se qualcuno non apprezza quel che siamo, allora non è la persona giusta con cui avere a che fare, Crystal.»
Per un attimo, uno soltanto, Crystal ripensò a quel fagottino di garze che aveva visto alcuni anni addietro. Ripensò a quell'esserino gelatinoso racchiuso in quella sottospecie di nido simile a un uccellino appena nato e ancora vivo, seppur diviso a metà dai ferri del medico che lo aveva sradicato dal suo corpo. La creatura, malgrado la mutilazione, si muoveva ancora quando lui aveva distolto lo sguardo e detto in un soffio al medico di farla sparire, di gettarla via, sapendo che non sarebbe comunque sopravvissuta che per pochi attimi ancora. Si era ripetuto spesso che quei movimenti, in realtà, altro non fossero stati che spasmi refrattari e involontari causati da un processo biologico di qualche tipo, non di una mente razionale capace di implorare un medico di darle o dargli una possibilità.
Ogni vita conta, diceva Gray. Contava anche quella che Crystal aveva fatto estirpare dal proprio corpo prima del tempo? Quell'abbozzo di essere umano che non era mai diventato tale?
Quella vita estirpata, se lui le avesse consentito di crescere, avrebbe avuto quel giorno cinque anni, ma dopo quasi tre soli mesi trascorsi nel suo ventre quel futuro era svanito per sempre. Tre mesi, già...
Ricordava ancora la faccia che aveva fatto il medico quando lui, dopo che era stato visitato con cura ed era stato decretato in dolce attesa di quasi tre mesi, subito aveva scelto di abortire, di non dare neppure un'occasione a quella vita che palpitava dentro di lui. Ad averlo influenzato era stato soprattutto il ricordare che la settimana successiva a quella della visita avrebbe dovuto compiere, all'epoca, diciassette anni. Venendo a sapere di aspettare un figlio si era domandato come mai avrebbe potuto un bambino metterne al mondo un altro e crescerlo nel migliore dei modi. Un bambino, tra l'altro, privo di una fissa dimora e in fuga da un passato di abusi, di speranze tradite; un ragazzino spiantato che per tirare a campare si era visto costretto a commettere furtarelli e poi, non appena si era reso conto di attirare l'attenzione altrui per via del proprio aspetto, mettere in vendita se stesso. Ecco come era incappato, infine, in una gravidanza indesiderata e inattesa. Prima o poi, gli aveva detto una prostituta che aveva conosciuto proprio sul marciapiede, a furia di non stare attento si sarebbe ritrovato in seri pasticci. La predizione si era rivelata esatta, purtroppo.
Cinque lunghi anni erano passati da quando, impulsivamente, ma con decisione, aveva detto al medico di esser disposto a rischiare la propria salute pur di non avere quel bambino e non condannarlo a una vita misera costellata di stenti o di famiglie affidatarie dove forse sarebbe incappato nella sua stessa sorte. Il medico, dunque, lo aveva avvertito di non provare a denunciarlo o a dire a qualcuno che era stato lui a operarlo nel caso le cose fossero andate male e Crystal aveva solamente annuito. Tre giorni più tardi si era ripresentato da quell'uomo, lo aveva seguito nella stanza adiacente allo studio che in teoria non sarebbe dovuto trovarsi lì e sopra quel lettino aveva atteso, con ansia, di venire sottoposto alla procedura. Gli era stato detto che non sarebbe stato doloroso né per lui né per la cosa, così avevano scelto di definire ciò che stavano per sradicare. L'anestesia era stata eseguita correttamente, eppure gli era parso di avvertire comunque del dolore. Il medico aveva ammesso che era stato più difficile del consueto operare, come se la membrana che proteggeva l'esserino avesse opposto una strenua e bizzarra resistenza. Un po' scherzando il dottore aveva aggiunto che la cosa proprio non avesse voluto saperne di separarsi da Crystal. Così tanto, si era detto il ragazzo, da costringere quell'uomo a estrarlo a pezzi.
Cinque anni, certo, e vissuti in che modo? Se anche avessi voluto proseguire la gestazione, come avrei fatto a diciassette anni a provvedere ai suoi bisogni?
L'immagine di se stesso, di un Crystal diverso e con in braccio un bambino di cinque anni senza volto né identità precisa, gli balenò nella mente. Un bambino che piangeva perché aveva fame e lui, confuso, impotente e sull'orlo del crollo nervoso, che non sapeva come sfamarlo; un bambino che lui, in uno scenario molto più probabile, avrebbe sin da subito consegnato a un orfanotrofio. Era vissuto in una di quelle strutture, sapeva come andavano le cose negli orfanotrofi e non augurava a nessuno di finirci. Se la scelta all'epoca era stata fra abortire e tenere il piccolo con il rischio di affidarlo a un orfanotrofio o crescerlo nel peggiore dei modi e condannarlo a una vita infelice, allora era molto meglio che le cose fossero andate com'erano andate.
Ti ho solo fatto un favore. Ti ho impedito di diventare un reietto come me.
Eppure mai avrebbe saputo come sarebbe potuta essere la sua vita con qualcuno da proteggere e accudire, qualcuno cui insegnare tutto quel che sapeva, al quale lasciare in eredità le sue conoscenze proprio come Lance aveva fatto con lui.
Non avrebbe mai saputo. Mai.
Avvertendo il bisogno di fare qualcosa si alzò, prese la borsa, andò alla scrivania che si trovava a ridosso della parete e di fronte al letto, e iniziò a disfare i pochi bagagli che aveva: estrasse la spada rinfoderata con cura, le due pistole d'argento scintillante con una piccola rosa intarsiata sulle due rispettive canne, poi ancora le munizioni e la buon vecchia bacchetta di biancospino. Era un ramoscello finemente lavorato e lucido dall'impugnatura bianca. In fondo al manico, come da regola, v'era una pietra rotonda e liscia, grande poco più di una biglia, chiara e opaca: Pietra di Luna.
Tutte le volte che usava quel catalizzatore di cui tutte le streghe e gli streghi disponevano, la pietra si illuminava. Voleva dire che era in atto una magia e la pietra serviva ad equilibrare il flusso magico, nonché a potenziarlo.
La rabdomanzia era un'arte che tutti i fattucchieri dovevano imparare come in chiesa andavano imparare le preghiere. Era fondamentale.
Prese in mano la bacchetta e se la rigirò fra le dita. Come sempre, quest'ultime furono attraversate da uno strano e piacevole solletico. Lance, dopo averlo osservato fare uso della magia tramite quel che aveva appreso, gliel'aveva regalata mettendolo tuttavia in guardia su una cosa: mai farla usare ad altri streghi. Era personale, parte di colui che la possedeva e creata a sua immagine e somiglianza; se un altro strego l'avesse mai impugnata, aveva affermato con estrema serietà Barlow, ciò avrebbe portato a una specie di corruzione, di inquinamento, della bacchetta. Ognuna di esse, appena veniva retta fra le dita per la prima volta, stringeva un saldo legame con lo strego destinato a perdurare per tutta la vita di quest'ultimo. Ciò significava, in poche parole, che la bacchetta magica fosse un'estensione dello stesso nucleo magico e vitale del suo possessore e se per qualche motivo a usarla fosse stato qualcun altro, ciò avrebbe condotto a un autentico danno di suddetto legame. Danno che, nei casi peggiori, specialmente quando una bacchetta usata per scopi benevoli poi, di colpo, veniva impiegata per far del male al prossimo o evocare l'Oscurità, avrebbe decretato la rovina sia dello strumento che del suo unico e solo padrone.
Avere una bacchetta magica non era uno scherzo né tantomeno un gioco. Era una questione, soprattutto, di responsabilità, di saper tracciare una linea di confine ben precisa riguardo alle azioni da non compiere attraverso di essa o meno. Ecco perché gli streghi erano notoriamente molto gelosi dei loro catalizzatori, specialmente le bacchette.
Crystal sospirò tra sé e delicatamente, in modo distratto, tamburellò l'estremità finale della bacchetta sul palmo della mano mentre si voltava per guardare Gray. «Non riuscirò mai ad abituarmi a ciò che sono» disse schietto. «Anche questo era nei piani di Madre Natura, quando ha deciso di giocare con la genetica e di affibbiare proprio a me questo corpo?» Nel parlare agitò lo strumento con gesti precisi e svolazzanti: la tenda della finestra si scostò e i vetri vennero spalancati dolcemente; il colore delle pareti, da azzurro, sfumò pian piano in un bianco pulito e perfetto; i mobili cambiarono a loro volta tinta e il legno di cui erano fatti da chiaro divenne scuro. Crystal fece cenno a Grayson di alzarsi e quest'ultimo lo fece appena in tempo prima che sul letto comparissero delle lenzuola color perla e un soffice cuscino a completare l'opera.
In men che non si dica, la stanza era pronta e risistemata. Per cose come quella, per fortuna, la magia non richiedeva uno scambio o qualcosa del genere. Bisognava solo aver ben chiaro in mente il risultato finale e un po' di sana fantasia. Il segreto risiedeva tutto nella mente, nella volontà di uno strego di far avverare una determinata cosa. Voleva far piovere pietre? Bastava immaginarlo e abbondare con i dettagli, e sarebbe avvenuto. Non stupiva di sicuro che gli umani, di fronte a eventi prodigiosi o catastrofici plausibilmente causati da determinate persone, nei secoli avessero sempre temuto gli streghi e quel che erano capaci di realizzare col potere della mente e, soprattutto, dell'immaginazione che tutto poteva o quasi.
Lui spesso si era sforzato di immaginare se stesso come un uomo in tutto e per tutto, come il ragazzo che dentro aveva sempre sentito di essere, eppure era ancora così come sua madre l'aveva messo al mondo: sospeso fra due poli opposti e pur tuttavia intrinsecamente legati fra di loro. Fra cielo e terra, come il defunto Dion, una volta, aveva poeticamente detto al figlio pur di abbellire la realtà tramite una metafora.
Grayson sospirò. «Non so quali piani abbia per te Madre Natura, ma prima o poi tutti noi riceviamo una risposta alle nostre domande.»
«Questo sì che mi fa sentire meglio» replicò Crystal, sarcastico. «Nel frattempo a Madre Natura non dispiacerà se torno a deprimermi un po' finché non riceverò queste fantomatiche risposte.»
*Gray fa questo commento per il semplice fatto che biancospino, in inglese, si dice "hawthorn". Ho deciso di giocare con i nomi e di usare il termine in italiano per distinguerlo dal cognome di Crystal.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top