Parte 2
Quel giorno, il solito scarsamente melodico motivetto, che seguiva i suoi movimenti meccanici mentre stendeva i panni al sole - un sole spento come la caldaia, come di rado accadeva in quelle zone - fu l'epilogo di un tragico susseguirsi di eventi che ebbe inizio al sorgere della luna.
Catania indossava una veste leggera, bianca come la superficie del satellite che, timidamente, faceva capolino dalle porte della notte, lasciando fuori la stella più calda che quel giorno non aveva mai dato il meglio di sé.
Era agosto, ma questo non era bastato.
Il tessuto della sottana era leggero, poiché le estati erano torbide, solitamente, sin da quando era nata e più passavano gli anni, più diventavano appiccicose.
Come le attenzioni del suo vicino di casa, Orazio il parcheggiatore abusivo, che tutte le volte che la vedeva uscire per stendere la biancheria, usciva anche lui solo per guardarla.
Catania era talmente bella, anche con indosso la veste da casa, che guardarla gli faceva bene e gli procurava piacere, sia fisico che interiore.
Orazio sentiva di poterla attraversare a piedi, una sera di fine estate, con l'odore di salsedine nelle nasche, quando la vedeva vestita di bianco in quel modo; i capezzoli erano prorompenti, non c'era seta delicata e pudore celato che potessero contenerli, gli ricordavano le estati sulla Riviera dei Ciclopi da bambino, mangiando mauru.
Mentre le camminava dentro, solo ammirandole il corpo perfetto, Orazio si sentiva come Ulisse di ritorno a Itaca: un naufrago disperso che amava viaggiare su navi per mari che conosceva, ma mai troppo bene.
Era paradossale, ma era ciò che provava.
Catania suscitava queste emozioni contrastanti.
E, d'altro canto, non poteva essere altrimenti: la moglie gli avrebbe fatto cadere i denti se, al posto di farsi legare all'albero maestro dall'equipaggio con le orecchie tappate, Orazio si fosse lasciato persuadere dal canto delle sirene.
E così, si limitava a fissarla dalla finestra, tutte le sere.
Tranne quella.
Quella sera, mentre Catania stendeva i costumi da bagno coi quali aveva solcato gli oceani del suo sconfinato animo e il mar Ionio, quel mattino di sole spento, ordinandoli uno ad uno in base al colore del suo umore, udì delle urla che distrassero persino Orazio dai suoi capezzoli turgidi: c'erano due gruppi di ragazzi di strada con dei conti in sospeso da risolvere.
Conti di droga, Catania lo sapeva bene.
All'inizio non ci fece granché caso, perché c'era abituata: il suo quartiere, come la sua vita, erano rumorosi.
Da sempre.
Al posto della ninna nanna, Catania dormiva con le urla disperate dei suoi concittadini, la sera, da bambina.
Adesso, al contrario, quelle urla le toglievano il sonno la notte.
E la serenità.
Quando sentì lo stridere acuto e fastidioso dei copertoni sull'asfalto di veicoli in corsa, accorsi sul posto per la questione irrisolta delle due fazioni in conflitto, Catania dovette affacciarsi dal balcone per vedere la scena dall'alto poiché sapeva bene che non era mai un bene quando arrivavano i rinforzi.
Era proprio l'abitudine a suggerirglielo.
Con in mano uno slip giallo come il colore dell'estate in Sicilia, Catania rimase concentrata sugli eventi, come a Orazio e come tanti altri che, nel frattempo, si erano affacciati pure, attratti dai rumori come le falene dalla luce fulminate dei neon intermittenti.
Catania non distingueva bene i volti da lassù, né le parole, ma poteva vedere le mani in alto che gesticolavano, le gambe pronte a scattare, avvolte dai jeans strappati, e, anche se solo nella sua testa, per via della lunga distanza tra lei e loro, i loro occhi sbarrati, pieni di rabbia.
E di paura.
E di sete di vendetta.
Perché i figli della strada avevano sempre un motivo per vendicarsi.
Esisteva, da qualche parte, e sempre, qualcosa che gli era stata tolta.
Con la violenza.
O dalla vita, che non era meno violenta degli abitanti di quel quartiere meschino.
Anzi.
I figli di quella città bellissima, piena di linee curve e di chiaroscuri creati dalla pietra lavica, di rondini e di gabbiani, conoscevano bene anche le linee rette delle traiettorie dei proiettili, erano ratti e cani randagi.
Ai quali avevano sottratto l'osso.
O che l'osso non l'avevano mai avuto.
Per questo le urla nei quartieri.
Un'altra parte di quella città urlava ai semafori se quello prima di loro non partiva in prima quando scattava il verde, per il gol della loro squadra preferita, a letto, mentre scopava; a quella parte della città non importava niente di ciò che accadeva dall'altro lato.
Erano i genitori severi dei figli che a scuola andavano male e per questo li mettevano in punizione.
Perennemente.
Ma i figli della strada, che a scuola andavano male, e che avevano sete di vendetta, urlavano per altri motivi.
E in punizione non imparavano niente.
A loro servivano genitori attenti, interessati, affettuosi.
Di tanto in tanto, urlavano anche per il gol della loro squadra preferita, certo, o per un orgasmo, ma di solito si urlava per fame e per denaro.
O perché straziati dalla morte.
Come accadde quella sera che la luna era già entrata in scena, mentre Catania stringeva ancora tra le mani il costume giallo estate e, come soleva fare spesso, guardava la scena dall'alto immaginando l'altra parte della città a mollo a mare o a bestemmiare ai semafori dopo una giornata di lavoro.
Di lavoro vero.
Accadde che qualcuno, in mezzo ai cani randagi, aprisse il fuoco, infrangendo i motivi curvilinei del Barocco, disegnando una linea retta che partiva dalla pistola che estrasse abilmente dal cilindro magico, ma che non finiva mai.
Era una linea senza fine.
Non finiva mai.
Quella linea retta che uccise un uomo, quella sera di agosto, non finì mai, rimase per sempre intrappolata negli occhi sbarrati di Catania che, quando udì lo sparo, soffocò un urlo con entrambe le mani, lasciando cadere a terra lo slip giallo.
Questo sì impregnò di sabbia dell'Etna e di polvere del cielo, polvere da sparo, che in realtà era la polvere dei cantieri, diventando sozzo, sporco, nero.
Il sole era diventato nero, quella sera.
Non splendeva più.
Nemmeno i sogni di Catania riuscirono a splendere: quello di andare a vivere al mare o di diventare una scrittrice si infransero, come l'onda violenta sullo scoglio nato dalla lava, come la giovane donna distrutta dalla morte, morendo insieme al giovane cane randagio.
Dopo lo sparo, alcuni si dileguarono, altri soccorsero l'uomo morto, altri ancora fecero a pugni.
Quello che aveva sparato, che Catania non aveva visto, sembrava essere sparito nel nulla, al punto che Catania pensò di averlo addirittura immaginato.
Ma è esistito davvero? si chiese.
Ho udito davvero uno sparo infrangere la quiete rumorosa della mia città e la vita di un essere umano disgraziato?
Ho visto davvero un caduto di guerra morire sotto ai miei occhi?
Pensò di no, che non fosse possibile che qualcuno potesse morirle davanti senza che lei fosse in grado di far nulla per fermarlo.
Quale razza di essere umano può restare inerte dinanzi alla morte di un uomo?
Un codardo?
Un altro morto?
Poi, si convinse che, in fondo, lei non avrebbe potuto fare niente da lassù.
Che se i suoi uomini morivano ammazzati dai suoi stessi uomini, lei non poteva fare niente per fermarli, che mica poteva farsi carico di tutti i morti ammazzati del quartiere o della città intera!
In fondo, Catania era solo una giovane donna in cerca della sua identità.
Quella del suo quartiere o quella dell'altra parte della città.
Si accorse che tutto intorno c'era trambusto: qualcuno urlava, qualcun altro piangeva, qualcuno non faceva nulla, assolutamente nulla, e allora si capacitò che fosse accaduto tutto veramente.
Orazio se ne stava fermo immobile... Era tornato a fissarla.
Il parcheggiatore abusivo annoiato la guardava di nuovo, adesso, come si guarda un bambino spaventato dai tuoni di un temporale: con tenerezza.
Quella ridicola che fa sentire stupidi.
Catania non aveva ancora smesso di tapparsi la bocca per soffocare la sua confusione e la vergogna di trovarsi spaventata di fronte al suo vicino impertinente, quando arrivarono le sirene.
Le volanti e l'ambulanza, quella sera, diressero un'orchestra tetra - più del solito.
Era il canto funebre di un pomeriggio di agosto di lutto.
Catania apprese che non conosceva personalmente il soldato caduto in quella guerra quella sera, ma rimase ugualmente in religioso silenzio per molti giorni, dopo quell'accadimento.
Un uomo del suo quartiere aveva perso la vita, in che modo non importava.
Le bastava la consapevolezza che fosse morto per vivere quel sentimento che, se avesse dovuto scriverlo con le parole, lo avrebbe scritto con una penna nera, su un foglio di carta usato più e più volte, usando le parole "caduto" e "lutto".
Aveva un ossequioso rispetto nei confronti del Tristo Mietitore.
E nei confronti dei figli della strada morti ammazzati.
Perché quella loro era una guerra non meglio riconosciuta che durava da più anni di tutte.
Catania lo sapeva bene.
Lei era nata e cresciuta in mezzo a quella immondizia, tra i ratti e i cani randagi, tra le urla e gli spari, tra la rabbia e la vendetta.
Combatteva con la miseria, l'analfabetismo e l'emarginazione sociale.
Da tanti anni.
Combatteva contro l'altra parte di quella città che in quei giorni avrebbe detto: "Se la sono cercata" o forse, addirittura, "se la sono meritata".
La morte.
Chi meritava di morire?
Il delinquente? Quello che impugna la pistola? Chi spara?
Chi, come Catania, rimaneva a guardare immobile e in sofferenza o chi, come l'altra parte, nemmeno guardava, ma giudicava?
Come se quell'angolo di paradiso che somigliava all'inferno non appartenesse anche a loro, come se quella guerra non fosse combattuta nel loro territorio, come se la storia di quel posto, di Catania, non fosse anche nel loro sangue, nel loro DNA, nelle loro origini.
Come se fossero invisibili.
Dimenticati.
Catania rimase in lutto cittadino anche se la città non dichiarò nessun lutto cittadino.
Perché quell'uomo perso era una bocca in meno da sfamare, un'indagine in meno da iniziare, un banco di scuola in meno da contare nella lista delle cose da cui derivava il degrado sociale indotto.
Un caso disperato, l'ultima ruota del carro, un peso in meno.
La strada aveva perso un figlio, Catania sentiva di averlo perso: su quell'asfalto, in mezzo al suo stesso sangue, col piombo nelle budella, poteva esserci suo figlio, un giorno, se lei non avesse cambiato il suo destino.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top