And that name, like magic, binds meCloser, closer to thy side.

Estate, per Charles, in un modo o nell'altro, è sempre stato il porto di Monaco. L'ombra della città vecchia che incombe sul mare, maestosa ed elegante, come una roccaforte. Le spiagge strette e sassose, la vegetazione brulla, il turchese intenso delle acque del Mediterraneo. Le barche, il vino, il lusso sfrenato. Le terrazze panoramiche da cui scrutare il cielo, alla ricerca di stelle fortunate. Il profilo immortale della Costa Azzurra, l'invisibile confine fra chi è diventato e chi poteva essere.

Da quando si è trasferito, disegnando distanze sempre maggiori fra sé e il Principato, vivendo il momento e sognando e afferrando quante più opportunità possibili, ha sempre messo in conto che, ovunque si fosse trovato ed indipendentemente da quanto fosse stato impegnato, avrebbe sempre avuto un luogo fisico ed un momento specifico da chiamare casa.

Qualcosa di assolutamente impareggiabile, che non avrebbe barattato per tutto l'oro del mondo.

Ed è stato così. Per ventiquattro anni della sua vita, le estati a Monaco sono state il suo rifugio, la sua unica certezza. Questo prima di scoprire che anche una persona, ovunque essa si trovi, può essere la tua casa.


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Se c'è una cosa più triste dell'essere soli, è non saper restare soli con sé stessi, e Charles Leclerc sta scoprendo a sue spese che lui non ha la minima idea di come si faccia.

È una farfalla sociale, estroverso e curioso. Lavora bene in gruppo, fa sempre una buona impressione su tutti e tende a circondarsi di persone altrettanto allegre, spontanee ed espansive. È popolare, brillante e carismatico. Ha un'intelligenza vivace che lo ha sempre fatto spiccare in mezzo alla massa e che gli ha aperto tutte le porte che desiderava. Quando c'è una nuova sfida, lui ci si butta con passione, da principiante, e ne emerge sempre vittorioso.

Non gli costa alcuno sforzo, è semplicemente come Charles è sempre stato fatto.

E le persone amano Charles.

Non possono fare a meno di gravitargli attorno, come se fosse l'unica fonte di luce nel cuore della notte più nera.

Da quando si è trasferito oltreoceano con il suo migliore amico per frequentare un Master in una delle Università più prestigiose al mondo, Charles non ha mai avuto l'occasione di restare solo con i suoi pensieri per più di qualche ora, e a dire il vero non l'aveva mai considerata una cosa propriamente positiva.

Ricorda ancora i primi mesi alla Harvard Business School come un incubo ad occhi aperti.

La paura di fallire e perdere lo status, il suo bisogno di essere perfetto e il timore di perdersi gli anni migliori della sua vita, si erano nutriti di lui e mescolati in un cocktail estremamente pericoloso, spingendolo a destreggiarsi fra nottate di ripasso col suo gruppo di studio, allenamenti sportivi settimanali e tentativi più o meno riusciti di partecipare alla vita sociale universitaria –feste in casa di amici di amici, serate nebbiose in locali luridi di Cambridge, happy hour e barbecue improvvisati nel loro back yard.

Anche se gli piaceva fingere di avere tutto sotto controllo, i ritmi erano insostenibili e la competizione brutale. La mattina si trascinava a lezione con i postumi della sbornia e occhiaie violacee a decorargli il viso, vestito di tutto punto e con la mano sempre alzata per intervenire. La sera arrivava a casa talmente stanco che si addormentava spesso fuori dalle coperte, prima ancora di avere il tempo di spogliarsi. C'erano dei periodi in cui dimenticava di fare la spesa e perfino di mangiare. Momenti in cui avrebbe solo voluto abbandonarsi alla disperazione e mandare tutto al diavolo –non poteva valerne la pena, giusto? Era troppo, fin troppo, perfino per la promessa di una vita agiata e più soldi di quanti potesse sognare.

L'unica certezza che aveva era che nei momenti peggiori, quando era sicuro che non ce l'avrebbe fatta e che sarebbe stato costretto a fare i bagagli e a tornare a casa, Pierre c'era sempre stato.

Certo, era rumoroso. Invitava costantemente i suoi amici da loro, anche quando erano sotto esame e Charles avrebbe voluto disperatamente riuscire a concentrarsi sui libri. Odiava pulire. Lasciava una scia di disordine e distruzione ovunque passasse, non aveva alcuna concezione degli spazi personali ed era fondamentalmente impossibile interrompere i suoi flussi di coscienza a voce alta quando aveva qualcosa da raccontare, ma ogni singola volta che Charles aveva avuto bisogno di lui, per un consiglio, una parola di incoraggiamento o un breve momento di distrazione, Pierre c'era stato, indipendentemente da quanto fosse stanco o impegnato.

E di questo, gli è profondamente grato.

È il motivo per cui, quando l'amico lo ha informato che sarebbe tornato in Francia, quell'estate, Charles non ha minimamente obiettato. Ha accarezzato per qualche settimana l'idea di seguirlo, come ha sempre fatto, ritornare a casa prima del previsto e sorprendere sua madre, ma il piano si è rivelato incompatibile con le ultime scadenze da rispettare per il suo internato e si è visto costretto a rinunciare.

Un paio di mesi a Boston, da solo, non gli erano sembrati poi chissà che dramma, ora che il peggio sembrava essere passato e che il caldo iniziava a farsi sentire.

Anzi, si è detto che gli avrebbe fatto bene starsene un po' per conto suo. Avere un po' di tempo per riposarsi, rallentare i ritmi e cercare di capire davvero cosa avrebbe fatto con in tasca un Master in Business and Administration ad Harvard. Dove sarebbe andato, che lavoro avrebbe fatto, quando, quanto-

Gli sono bastati pochi giorni per rendersi conto che la vita monotona e solitaria, che tanto aveva bramato nei mesi precedenti, prima della laurea, quando stava letteralmente annegando nelle scadenze e negli impegni, non faceva affatto per lui.

Rientrare a casa tardi e trovarla vuota, pulita ed ordinata, non è stato rilassante come aveva immaginato, ma piuttosto deprimente per dire la verità. Si è stancato presto del silenzio e si è ritrovato perfino a rimpiangere il sottofondo costante di musica rap francese che proveniva a qualsiasi ora da sotto la porta della stanza di Pierre.

Alla fine della settimana ha iniziato a parlare da solo, e dopo dieci giorni era pronto a mettere la mano sul fuoco che entro la fine dell'estate assieme alla pergamena di laurea gli avrebbero consigliato un ricovero in un centro di riabilitazione psichiatrica.

L'ultima settimana di giugno tutti i suoi amici e colleghi di lavoro erano tornati a casa dalle loro famiglie per festeggiare il quattro luglio e Charles si è ritrovato a bighellonare da solo per la città deserta, affogata dall'afa e arrostita dal sole rovente.

Si è avventurato ad est di Cambridge, seguendo il corso del fiume Charles, con il computer sotto braccio e la bandana ad allontanargli i capelli dal viso, inquieto e tormentato, senza un posto dove andare.

Ed è lì, che lo ha visto la prima volta.


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Max Verstappen è disgustosamente bravo in una montagna di cose, dallo sport ai giochi da tavola, ai lavori manuali, ai calcoli complessi, ma fa davvero schifo con i nuovi inizi.

È una creatura schiva, silenziosa ed abitudinaria. Sguazza nella sua comfort zone e raramente si arrischia a provare cose in cui non è certo di poter eccellere. Detesta la confusione, le feste in cui non conosce nessuno e le persone che non smettono mai di parlare. Quando è concentrato su un problema piuttosto complesso, si chiude nella sua bolla e possono passare intere ore senza che alzi gli occhi dallo schermo. Interi giorni senza che parli con qualcuno.

E non gli pesa, è semplicemente come Max è sempre stato fatto.

Gli basta sapere che, quando riemergerà dallo studio, i suoi due o tre amici fidati ci saranno, con un paio di birre, un videogioco, un momento da dedicargli.

Quando ha scoperto di essere stato ammesso al programma di dottorato in Ingegneria meccanica del MIT era così felice che per un attimo ha creduto che avrebbe pianto. Per la prima volta dopo tanto tempo gli sembrava di aver raggiunto un risultato di cui la sua famiglia avrebbe potuto andare orgogliosa, qualcosa che potesse quantomeno rimediare a quello che aveva già perso.

Subito dopo, però, è stato colpito dritto in faccia da tutte le implicazioni che la lettera di accettazione comportava. Prima tra tutte, un trasferimento dall'altra parte del mondo.

Sradicarsi e colonizzare posti nuovi non è una cosa che ha mai fatto molto volentieri.

Lo aveva fatto anni prima, quando aveva lasciato l'Olanda e si era trasferito nel Regno Unito per l'Università. Ci aveva messo tre settimane a rivolgere la parola al ragazzo che sedeva accanto a lui, per chiedergli una penna. Più di un mese a contattare una sua vecchia conoscenza, che viveva nei paraggi. Non che gli piacesse, essere così isolato –così solo-, ma si sarebbe sparato in un piede piuttosto che chiedere una mano a qualcuno, inserirsi a forza laddove non c'era un tappeto spianato ad aspettarlo.

Lando gli diceva sempre che se solo Max avesse avuto un po' di spirito di iniziativa, assieme al talento e alla fiducia in sé stesso, quando correva con i kart, adesso sarebbe in Formula Uno e sarebbe campione del mondo.

Ma Max non si arrischiava a soffermarsi troppo, su quel pensiero.

Non voleva nemmeno pensare se ed in che modo questo potesse essere vero, in qualche universo parallelo.

Nelle settimane che hanno preceduto la sua partenza, mentre infilava i suoi pochi averi in degli scatoloni e beveva Red Bull calde e sgasate direttamente dalla lattina, ha riflettuto lungamente sui pro ed i contro del trasferimento a Boston, ma non è riuscito a trovare valide ragioni per restare.

Così, fresco di laurea, si è messo su un aereo ed è partito.

È arrivato a Cambridge in una rovente giornata di fine giugno, con lo stretto indispensabile in due valige e una sensazione spaventosa alla bocca dello stomaco, come dopo un giro su una montagna russa.

Si è trasferito in questo studio azzurro nella mansarda di un appartamento a due piani, minuscolo e ridicolmente costoso. Ha rinunciato alla cucina e all'aria condizionata, pur di potersi permettere di vivere da solo, perché la sola idea di avere dei coinquilini e condividere il suo spazio vitale con altre persone lo innervosiva.

Inizierà a lavorare solo all'inizio di settembre, ma ha bisogno di tempo per abituarsi alla sua nuova vita. Tempo per crearsi la sua nuova nicchia, sentirsi meno fuori posto, per quanto possibile.

Non che avesse un posto in cui tornare, comunque.

I primi due giorni ha esplorato il suo quartiere, calcolato la distanza dei supermercati, delle farmacie e delle fermate di metro e autobus. Poi ha allargato il suo raggio d'azione, e si è spinto fino al MIT, appena più avanti, sul fiume Charles.

Passeggiare nell'erba, osservando il volo dell'aquila fra un palazzo e l'altro, lo calma più di ogni altra cosa. E poi è lì che lo ha visto per la prima volta.

Be', rivisto, tecnicamente.


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"Sai chi ho incontrato a Cambridge stamattina, Pear?"

La risposta è un grugnito seccato, piuttosto gutturale, che frenerebbe l'entusiasmo di chiunque, ma non quello di Charles. Dopo un piovosissimo e gelido quattro luglio, che lo ha costretto in casa e portato all'esasperazione con la sola compagnia di birre in lattina, il sole è tornato ad investire la città, permettendogli di allungare di un quarto d'ora le sue passeggiate e ripassare dalle parti del Massachussetts Institute of Technology, nella speranza di replicare l'incontro fortuito della settimana precedente.

Ha dovuto forzare un po' la mano al destino ed aspettare due ore, prima di vedere l'oggetto dei suoi desideri uscire da una libreria, con una borsa di tela appesa al braccio e i capelli arruffati sparati in tutte le direzioni dal vento. Anche in quel momento non è riuscito a decidersi ad avvicinarsi, però, e lo ha studiato a distanza, seduto su una panchina, col caffè in equilibrio su un ginocchio e il cellulare sull'altro.

Non avrebbe saputo dire con esattezza cosa, ma c'era innegabilmente qualcosa nel portamento del ragazzo che lo affascinava terribilmente. Un piglio composto, vagamente severo, una calma genuina e quasi irreale. Per non parlare dei suoi occhi. Oh, i suoi occhi.

Lo hanno fatto tornare lì ogni giorno, quella settimana, solo nella speranza di incrociarli ancora.

"Fammi indovinare" sbotta Pierre, esasperato. "Il biondino autoritario minimalista?"

Charles storce il naso, punto nel vivo dal modo in cui l'amico pronuncia quelle parole.

"Ti ho chiesto di smettere di chiamarlo così, dai."

"Calamar...onestamente, smetterò di farlo quando la pianterai di fare lo stalker e ti deciderai a chiedergli come si chiama, almeno."

Charles non è nuovo a condividere tutte le sue scappatelle e numerosissime infatuazioni col suo migliore amico. Prova i sentimenti in modo puro, semplice, fulmineo, ma non è in grado di trattenerli. Finché erano ancora in Europa erano state solo ragazze, ma negli ultimi due anni c'erano stati anche diversi ragazzi fra le sue conquiste. Era stata una scoperta inattesa, ma Charles l'aveva abbracciata con naturalezza, così com'era venuta.

Non aveva la minima intenzione di sentirsi in colpa per il semplice fatto di amare qualcuno.

La prima volta che lo aveva visto con un uomo Pierre non aveva battuto ciglio, ma ha iniziato a dimostrarsi insofferente e restio nei confronti di questo specifico ragazzo. Sono settimane che non parlano d'altro.

Adesso è il turno di Charles di sbuffare.

Pierre potrebbe o non potrebbe avere ragione, ma la verità è che non ha la più pallida idea di come approcciare il ragazzo. Dall'aspetto, dovrebbe avere grosso modo la sua età. Può essere uno studente, o un ricercatore universitario. Si è sempre tenuto a debita distanza, quindi non ha modo di esserne sicuro, ma non gli è sembrato americano.

Charles è imbarazzato da quanto vorrebbe conoscerlo.

Pierre interpreta il suo silenzio come una vittoria, e gongola, ridacchiando nella cornetta.

"Lo sai che ho ragione, frero."

La sua voce pacata accarezza l'orecchio di Charles, dolcemente, e per un attimo hanno di nuovo dieci anni e sono in campeggio insieme, nei loro sacchi a pelo, a guardare le stelle.

"Sì, come dici tu." Risponde lui, curiosamente impaziente di concludere la telefonata. "Adesso devo andare, Calamar"

"Ti voglio bene, Charlie"

"Anche io"


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Il fatto è che è davvero ridicolo.

Charles dovrebbe darsi una mossa e compilare gli ultimi report, ma tutto quello che fa è bighellonare nei pressi dell'Università, appostato come un cecchino, cercando disperatamente di incrociare il ragazzo che ha visto quel giorno –capelli lunghi, biondo scuro, accenno di barba- nel tentativo di carpire informazioni sul biondino autoritario minimalista e di farsi venire un'idea geniale con cui avvicinarlo.

E questa, di per sé, è una cosa assolutamente nuova per lui. Negli approcci Charles è sempre stato piuttosto sicuro di sé: sa di essere attraente ed è solito usare questa consapevolezza a suo vantaggio: generalmente non gli mancano né le idee né la faccia tosta per realizzarle.

Questa volta, però, è diverso. Qualcosa lo frena.

Forse, si dice, è la solitudine.

Il fatto che il suo migliore amico non sia lì per raccattare i pezzi, in caso di rifiuto. Un'eventualità a cui, di per sé, non è minimamente preparato.

Forse, magari, è il fatto che il ragazzo in questione sembra a dir poco inavvicinabile.

Lo ha osservato a lungo, anche se sempre di sfuggita, mentre usciva da un supermercato, comprava un biglietto della metro o trovava riparo da un temporale estivo sotto la tettoia di un palazzo. Ha iniziato a fare caso ai suoi orari ed ha imparato a notare delle abitudini, dei gesti che in qualche modo assurdo gli risultano quasi familiari, come se fossero suoi.

Basterebbe così poco, per rompere il ghiaccio.

Per esempio: gli piace lo sport? Potrebbe offrirsi di accompagnarlo ad una partita dei Celtics, o dei Red Sox. Dei Penguins, se è un tipo da Hockey. Potrebbero risalire insieme il fiume Charles in canoa. Fare una crociera nell'oceano per vedere le balene.

L'estate è un buon momento per vedere le balene.

Charles si sente –no, è- patetico.

Anche perché è mercoledì, e sono due interi giorni che il biondino non si fa vedere.

Due giorni vuoti ed infernali, ovviamente.

Charles chiude l'agenda di scatto, con uno schiocco secco. Dopo aver riposto il pennarello nella tasca della polo, scuote il bicchiere di plastica vuoto che tiene in mano, e i residui di ghiaccio quasi sciolto tintinnano al suo interno. È il suono della sua solitudine.

Senza questa piccola distrazione –l'attesa, gli appostamenti, le telefonate di aggiornamento col suo migliore amico-, la sua vita è ripiombata nel loop deprimente a cui la partenza di Pierre ha dato inizio e, come se non bastasse, l'afa è insopportabile, gli appiccica la camicia a maniche corte sul petto e gli fa girare la testa. La scorsa notte si è svegliato in un bagno di sudore e non è più riuscito ad addormentarsi. Ha decisamente bisogno di un altro caffè.

Lo Starbucks in Harvard Square è piuttosto piccolo e affollato, ma il personale è cordiale e ormai tutti lo conoscono e lo chiamano per nome, quando lo vedono arrivare. È il loro principale azionista, praticamente.

Il tizio che gli serve il caffè, Rodd, ci prova con lui da diversi mesi e sono anche andati a letto insieme, una volta o due, ma non lo ha mai richiamato, dopo. Non c'è un vero motivo, in realtà, è solo che non è il suo genere e Charles non ha intenzione di forzarsi a provare cose che non prova, specie quando sa che tutte le volte che incontra qualcuno che gli interessa davvero, diventa così ossessionato che non c'è modo, semplicemente, di dimenticarsi di richiamare.

Per lui innamorarsi è così facile che quando non succede è di per sé un segnale molto forte.

"Charles! È bello vederti" gli dice il ragazzo, con voce melliflua, girandosi il berretto a rovescio sulla testa. "Il solito?"

Lui gli rivolge un sorriso appena accennato, ma è sincero e gli illumina il viso stanco.

Quando fa per porgergli la carta, Rodd picchietta con due dita sul cartello vicino alla cassa.

Solo contanti.

"È saltata la corrente due ore fa e il POS continua a riattivarsi." Spiega il ragazzo, mentre si sistema i capelli lunghi dietro l'orecchio. "Se non hai contanti, posso offrirti..."

Charles scuote la testa, tirando fuori una banconota spiegazzata dal portafoglio. L'altro la prende mal volentieri, mentre sul viso gli si dipinge una smorfia contrita e palesemente delusa.

"Scusa ancora, e grazie."

La mano di Rodd indugia più del dovuto, contro la sua, mentre gli porge il bicchiere, e Charles si odia per il bisogno che ha di essere costantemente rassicurato e per il modo in cui usa i sentimenti di questo ragazzo per sentirsi meglio con sé stesso.

È sbagliato, e si fa un po' pena.

Ma è un sentimento che prova sempre più spesso verso sé stesso, quindi non lo sconvolge più di tanto.

È talmente distratto, che all'inizio non si rende conto di quello che sta succedendo.

La prima cosa che registra è che Rodd sta ripetendo la stessa formula che ha a lui rivolto pochi attimi prima, ma senza la stessa gentilezza e soprattutto senza offrirsi di pagare per questo specifico cliente, evidentemente di ritorno da una corsetta, con niente in mano se non una carta di credito rettangolare, e il suo cellulare, che scuote a destra e sinistra a mo' di scusa.

Mentre Charles sta per uscire, sovrappensiero, il ragazzo in questione –pantaloncini corti, maglietta, capelli lunghi appiccicati dal sudore- gira impercettibilmente la testa verso di lui, e –oh.

Il cuore gli sprofonda nel petto.

"Amico, mi dispiace." Prosegue il cassiere, cordiale ma in modo fin troppo costruito. "Senti, più avanti, sulla Broadway, c'è un altro Starbucks. Prova lì, probabilmente il loro sistema funziona."

Le mani di Charles tremano, come tutti i suoi organi interni, e le sue ossa, perfino, ma lui spera che la sua voce non lo faccia.

"Faccio io" si sente dire, come se si guardasse dall'esterno, mentre ritorna sui suoi passi e si rivolge direttamente a Rodd, che gli rivolge uno sguardo attonito. "Quanto ti devo?"

Gli occhi del biondino sono spalancati per la sorpresa, e splendono intensamente nell'atmosfera soffusa della caffetteria, catturando ogni goccia di luce e riflettendola tutt'attorno. Anche al chiuso, lontano dalla diretta luce del sole, può vedere che sono di una meravigliosa sfumatura di azzurro, accesa e vibrante, che gli manda scariche di elettricità pura lungo la schiena.

Rodd fa per porgere il caffè al ragazzo ma Charles lo intercetta, e stappa rapidamente il pennarello con i denti per scrivere qualcosa sul bicchiere. L'altro lo guarda perplesso, aggrottando le sopracciglia per poi distenderle all'improvviso quando nota l'appunto che gli ha lasciato.

"Grazie."

Charles gli tiene la porta, quando escono, e semplicemente non può credere a quello che è appena successo, a quello che ha appena fatto. Ha il cuore che pompa così forte che teme che se anche l'altro dicesse qualcosa, non riuscirebbe a sentirlo.

Le loro braccia si sfiorano all'altezza dei gomiti, mentre si spostano dall'uscita, poco più avanti, sul marciapiede. E la pelle gli si ricopre di brividi.

"Non dovevi, davvero." Sono le prime parole che il ragazzo gli riserva. La sua voce suona piuttosto aspra e rauca- ha un accento europeo che non riesce ad identificare- ma il tono sembra pacato, come il suo proprietario.

Ora che lo ha di fronte, a pochi passi di distanza, finalmente Charles può vederlo davvero, in tutta la sua interezza. È alto come lui, ma più muscoloso, e ha i tratti del viso molto duri, disegnati con lo scalpello. Le ciglia bionde e lunghissime, la bocca carnosa, un piccolo neo appena sopra il labbro superiore. Lo trova bello in un modo che non riesce a spiegarsi.

Non vuole dire cose stupide, né sembrare spocchioso, così fa il solito Charles. Carismatico, spigliato, ironico in modo velato.

"Oh, sì che dovevo." Gli risponde, strofinandosi la spalla con la mano libera, cercando di simulare disinvoltura. "Di solito non mi piace saltare le presentazioni, prima di offrire un caffè, ma spero mi perdonerai viste le circostanze. Sono Charles, comunque."

Il ragazzo gli riserva un'occhiata a dir poco stranita, con le sopracciglia folte che si incontrano al centro della fronte, in un'espressione attonita. Lui si morde il labbro inferiore e cerca di passare in rassegna tutto quello che ha detto, alla ricerca della gaffe imperdonabile che gli è valsa quello sguardo.

Spera vivamente che non abbia interpretato male il fatto che si sia offerto di pagare per lui, ed è sul punto di chiarire la sua posizione, quando il ragazzo risponde e le parole gli muoiono in gola.

"Davvero non ti ricordi di me?"


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"Ehi, Calamar!"

Quando avvicina il telefono all'orecchio la voce di Pierre lo raggiunge calda e familiare, come una carezza, ma non riesce a migliorare il suo umore.

Niente potrebbe, letteralmente.

Se ne sta steso sul letto sfatto della sua stanza a fissare il soffitto più o meno da quando è tornato a casa, e quando il telefono ha iniziato a squillare per un attimo è stato colto da un'ondata di nausea.

Che fosse...? Possibile? No, ovviamente, era solo Pierre.

Ed è difficile frenare la delusione che gli sboccia nel petto quando se ne rende conto.

Charles si strofina le sopracciglia con i polpastrelli, avanti e indietro, e cerca di cavarsi di bocca qualche parola per non fare insospettire il suo amico.

"Ciao Pear."

"Come mai questa voce da funerale?" indaga l'amico, immediatamente impensierito dal suo tono abbattuto.

C'è una piccola pausa, carica di tensione, in cui Charles si rosicchia le unghie della mano sinistra, indeciso se mantenere intatta la sua dignità o se sputare il rospo e rendere Pierre partecipe della più grande disfatta della storia.

"Ho parlato con lui." Ammette, alla fine, con lo sguardo fisso sul pavimento. Ci sono una manciata di secondi di silenzio, in cui anche l'altro sembra soppesare le sue parole con cura, cercando di non ferirlo troppo.

"Ed è andata male?"

"Peggio" risponde Charles, con un grugnito, mentre si copre il viso con una mano. "è Max Verstappen."


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Max non sa davvero se dovrebbe sentirsi lusingato o profondamente offeso.

Certo, è positivo che qualcuno abbia cercato di abbordarlo per settimane con così tanto impegno e dedizione, ma è abbastanza svilente pensare di essere talmente irrilevante da essere del tutto cancellato dalla memoria di qualcuno, come se non fosse mai nemmeno esistito.

Eppure pensava di aver fatto ogni cosa in suo potere per rendersi sufficientemente memorabile, negli anni della loro adolescenza. Sicuramente Charles per lui lo era stato.

Ma, probabilmente, si dice, è perché lui lo ha sempre saputo.

Aveva conosciuto Charles Leclerc quando avevano entrambi a malapena undici anni, nell'unico modo in cui un ragazzino olandese con le guance tonde e arrossate ed uno monegasco con una zazzera di lunghi capelli castani potevano incontrarsi. In Italia, a bordo di una pista di kart, in occasione di una di quelle gare infernali a cui suo padre non vedeva l'ora di trascinarlo.

All'epoca l'aveva odiato. Visceralmente e con cieca ostinazione, senza riserve e senza nemmeno capirne il motivo. Ne aveva detestato i modi, l'approccio e lo stile di guida. Gli occhi verdi, il sorriso bucato e il corpo asciutto e mingherlino nella tuta ignifuga. Ne aveva odiato i parenti e i sostenitori, numerosi e chiassosi, sempre pronti a festeggiarlo, anche quando commetteva errori stupidi da principiante. Ma, più di tutto, aveva detestato quanto fosse bravo e quanto gli stesse rendendo difficile vincere come aveva sempre fatto. Non essere il migliore era una di quelle cose a cui Max non si sarebbe mai davvero abituato.

Lui e Charles, come c'era da aspettarsi, non erano mai stati amici ma erano riusciti in qualche strano modo a non perdersi mai di vista, e negli anni si erano incontrati spesso, in giro per l'Europa, inseguendo un sogno che era infine sfumato per entrambi ed inseguendosi l'un l'altro, diventando i rivali più fieri che le competizioni di kart avessero mai visto. C'erano state spinte ed incidenti e sorpassi al millimetro, ed ogni volta che scendevano in pista sembrava lo facessero per battere l'altro, più che per vincere.

Charles aveva provato a parlargli in diverse occasioni, ma Max lo aveva sempre respinto con stizza, come se la sola vista del ragazzo gli desse la nausea.

Ci aveva messo degli anni, a capire perché.

Inconsapevolmente, Charles era stato per lui la realizzazione di molte verità sulla sua vita che il Max di allora non era pronto ad accettare.

Prima tra tutte, il fatto che l'ossessione di suo padre per il mondo delle corse non fosse sana. E che fosse possibile, in ultima analisi, per un genitore, amare il proprio figlio a prescindere dai suoi risultati sportivi, senza incolparlo dei fallimenti e senza farlo sentire in trappola in un futuro che non sentiva suo.

Tutto l'astio che provava verso Hervé, verso Jules e tutti i Bianchi, l'insofferenza nei confronti dei festeggiamenti esagerati e dell'ottimismo stomachevole, era una forma sottile e inconfessabile d'invidia, di cui si vergognava e che provava a mascherare in ogni modo. Perché gli sembrava ingiusto che dopo una gara andata male a lui spettassero rimproveri, e al principino monegasco abbracci e carezze di conforto.

E poi c'era l'altra faccenda.

Be', quella era stata difficile da mandare giù.

La prima volta che Max aveva pensato a Charles in quel senso avrebbe voluto prendersi a pugni.

Era iniziato in modo involontario ed innocente, in uno dei suoi ultimi anni nel mondo dei kart, una volta che aveva dimenticato i calzettoni di scorta e il monegasco era stato l'unico ad offrirsi di prestargli i suoi. Per quanto si fosse scervellato, Max non era riuscito a capire cosa spingesse quel ragazzino esasperante ad essere così gentile nei suoi confronti nonostante lui lo trattasse male e respingesse in ogni modo.

Si erano incontrati appena dietro al tendone, in territorio neutrale. Lui glieli aveva messi in mano ripiegati con cura, con un sorriso sghembo a decorargli il viso, e la punta delle sue dita gli aveva sfiorato il palmo. La pelle di Max si era ricoperta di brividi e lui si era sentito avvampare, come se tutto il calore del mondo si fosse sprigionato da quel piccolo contatto innocente. E se mi sporgessi appena? Aveva pensato. Se gli prendessi il viso fra le mani e lo baciassi? Se-

Lo aveva liquidato in fretta, per paura che l'altro si accorgesse del suo comportamento bizzarro, con il cuore che gli galoppava nel petto.

Aveva vinto, quella domenica. E non aveva mai restituito i calzettoni.

La versione ufficiale era che gli portavano fortuna, ma in realtà era nervoso all'idea di separarsi dall'unica cosa dell'altro che poteva tenere sempre vicino a sé- sotto al cuscino, per la precisione- ovunque andasse.

Scoprire di provare qualcosa per Charles Leclerc era stato rincuorante, in un certo senso. Max aveva passato anni a chiedersi cosa ci fosse di sbagliato in lui e perché non riuscisse a provare interesse per nessun'altra persona al mondo. Sentire il cuore accelerare ogni volta che incrociava quello sguardo vivace a decine di metri di distanza gli ricordava che era vivo, che era una persona vera. Una persona in grado di amare.

Però, ovviamente, non poteva essere semplice. Doveva essere un ragazzo. Un ragazzo con cui suo padre non gli permetteva nemmeno di essere amico, figurarsi altro.

Un ragazzo che non sembrava essere interessato a lui in nessun modo. Normale, perfetto, libero da ogni vincolo e giudizio: uno che anche se avesse potuto permettersi il lusso di amare altri ragazzi, non avrebbe mai potuto amare uno come Max.

E questa consapevolezza, più di ogni altra cosa, gli aveva spezzato il cuore.

Allontanarsi dai kart era stato doloroso, per certi versi, ma per lo meno significava troncare qualsiasi tipo di rapporto con Charles, smettere di struggersi per qualcosa che non sarebbe mai successo.

O almeno questo è quello che ha sempre pensato, per quasi dieci anni, fino a quel mercoledì di inizio luglio.

Aveva notato il monegasco settimane prima, seduto in mezzo al prato dell'Università, con il pc sulle gambe e una tazza spropositata di caffè appena accanto, completamente immerso nella lettura. Gli era sembrata una circostanza insolita, incontrare un fantasma del suo passato dall'altro lato del mondo, specie perché d'improvviso gli sembrava di vederlo ovunque –da Trader Joe's, in biblioteca, sull'autobus, lungo il fiume, perfino in coda da J.P. Licks.

All'inizio aveva creduto di essere diventato pazzo, ma gli incontri fortuiti avevano iniziato a farsi sempre più improbabili e frequenti, dunque si era convinto senza ombra di dubbio non solo che quello fosse Charles Leclerc, ma che volesse assolutamente parlare con lui e non sapesse come farlo.

Max, essendo Max, non aveva la minima intenzione di forzare le cose, per quanto quella consapevolezza lo stesse corrodendo vivo.

Ha atteso la sua mossa pazientemente, ma non aveva previsto niente di quello che è successo.

Così se ne sta lì, nel suo appartamento minuscolo, a fissare un bicchiere di plastica vuoto e appiccicaticcio con un numero di telefono scarabocchiato su, incapace di decidere se sia o meno il caso di riaprire questa vecchia ferita. Ci aveva sperato così tanto, da ragazzino, che gli sembra ancora più ingiusto pensare di avere questa possibilità di scelta adesso che sono passati dieci anni. Adesso che è andato avanti, che si è lasciato alle spalle il mondo dei kart, e le pressioni insostenibili e le fantasie irrealizzabili.

Chi si crede di essere? Cosa pensa di ottenere facendo così?

La prima emozione che prova, nel profondo del suo cuore, è la rabbia. Cieca ed inestinguibile.

"Fanculo."

Prova a centrare il cestino della spazzatura con il bicchiere, ma finisce per terra.

E lì lo lascia.

La notte del mercoledì, Max sogna un falso ricordo. Sono lui e Charles sulla spiaggia di Zandvoort, che si rincorrono fra le onde in una giornata nebbiosa e grigia, come le estati olandesi. Nel sogno, hanno per sempre quindici anni, e le loro risate risuonano nel vento come scacciapensieri fatti di osso e conchiglia. Gli occhi di Charles sono fluidi, mutevoli come il tempo, ma le sue mani sono sempre calde quando stringono le sue, sporche di sabbia, e lo trascinano verso il mare.

Passa l'intera giornata di giovedì a torturarsi con mille scenari diversi, proiettando immagini dalla sua memoria e costruendone di nuove coi piccoli pezzetti di Charles che ha visto in questi giorni. Si chiede cosa gli farebbe più male, se vederlo di nuovo o non vederlo mai più.

Alle quattro di notte si trascina fuori dal letto e zoppica al buio per recuperare il bicchiere incrostato dal pavimento ed il giorno dopo, Max lo chiama.

"?"

Charles risponde al primo squillo. Ha ancora un accento molto buffo, cantilenante, che gli solletica l'orecchio e gli fa sfarfallare il cuore.

"Ehi." Mormora Max, tamburellando col piede sotto al tavolo. Ha soppesato così a lungo i pro e i contro di richiamarlo, che si rende conto solo adesso di non avere la minima idea di cosa dirgli. "Sono Max."

C'è una breve pausa. Devono essere a malapena cinque secondi ma a lui sembra una vita.

"Oh- ehi. Ciao, Max."

Lui infila due dita nel colletto della maglietta, cercando di allargarlo un po', perché si sente soffocare.

Charles sembra genuinamente sorpreso, quasi insicuro, come se non si aspettasse di essere richiamato, e non perde tempo per mettere in chiaro le sue intenzioni.

"Mi dispiace per l'altro giorno." Lo sente dire. "Sono un coglione."

"Non negherò." Risponde Max, a bruciapelo. Ha un groppo in gola che gli ostruisce completamente le vie respiratorie, e quando parla ancora la frase che dice ha un suono brusco e strozzato. "Però puoi farti perdonare."

"Come?" chiede Charles, troppo in fretta.

"Offrimi da bere."


**


"Hai un appuntamento" ripete Pierre, scandendo le parole, come per assicurarsi di aver capito bene. "con Max Verstappen" aggiunge, calcando la mano per far trasparire il suo scetticismo.

"Esatto" risponde Charles con un lamento, afferrandosi un ciuffo di capelli per allontanarselo dagli occhi mentre passeggia avanti e indietro di fronte al suo guardaroba, che sembra essere esploso in mezzo alla stanza. Si è già cambiato cinque o sei volte ma non riesce a decidere quale sia l'abbigliamento più adatto per un appuntamento con il suo peggiore rivale di un tempo, ricomparso dal nulla all'improvviso e molto più attraente di come lo ricordava.

"Non riesco a crederci."

Nemmeno lui, onestamente.

Charles ha passato gli ultimi due giorni murato in casa a leccarsi le ferite, per evitare di cadere in tentazione e ripercorrere le solite strade, pur di non incrociare l'olandese. L'imbarazzo, la confusione e la più profonda costernazione lo hanno tenuto a bada, ma hanno gonfiato la sua solitudine. Ha anche dormito in camera di Pierre, una volta o due. Aveva ancora il suo odore.

"Ero convinto che volesse ucciderti, dieci anni fa" va avanti l'amico.

L'ultima volta che era stato faccia a faccia con Max, prima di vederlo di nuovo a Cambridge, le circostanze non erano state delle migliori. Anzi, Charles stesso si era convinto che l'altro lo volesse morto sul serio, con tutto quello che era successo in quella gara, con gli sponsor furibondi e la formula tre che sfumava per sempre, per entrambi.

"Anche io" fa eco Charles, greve, mentre infila la prima cosa che aveva provato, una maglietta nera a maniche corte, senza alcun segno distintivo. "Fidati, anche io."


**


L'autobus si ferma in una strada desolata del tutto simile a quella di casa sua, appena dall'altro lato del fiume, circondata da pacifiche villette a schiera dai colori pastello e buche delle lettere decorate con pattern geometrici.

È pur sempre vero che è stato lui a dargli carta bianca, ma non si aspettava che Charles lo avrebbe portato a bere in qualche bettola dimenticata dal signore nelle periferie di Boston.

L'aria della sera è rovente, anche se il sole è calato da un pezzo, e lo sbalzo termico dal bus all'aria aperta gli dà le vertigini. Sente già la mancanza delle estati londinesi, fresche e pungenti, passate a bere birre nel giardino di Lando coi grilli in sottofondo ed un asciugamano sulle spalle a ripararli entrambi dalla brezza leggera.

La cosa peggiore dei nuovi inizi, si dice, è che comportano lasciarsi indietro i vecchi capitoli. Anche quelli che ci sono piaciuti particolarmente e che non siamo pronti fino in fondo a lasciare andare.

Mentre cerca di allontanare questi pensieri malinconici, Max tira fuori il cellulare dalla tasca per controllare che luogo ed orario dell'incontro siano corretti e con la mano prova a sistemarsi i capelli ancora umidi dopo la doccia. È in anticipo di qualche minuto e Charles non si vede da nessuna parte.

Che intenda dargli buca? Non osa nemmeno immaginarlo.

Lo stomaco gli si stringe in una morsa d'acciaio, e prova a ricacciare indietro la sensazione di impazienza e disagio che gli si diffonde nel petto e si fa più opprimente ogni istante che passa.

Gli appuntamenti lo rendono sempre nervoso, principalmente perché Max non è bravo a fare buona impressione sugli altri. Non riesce a fingersi affascinante né interessante ed a primo acchito sembra sempre troppo riservato o troppo brusco, troppo silenzioso o troppo diretto. In questo caso, poi, non ha modo di uscirne in piedi. Charles lo conosce –o almeno conosce il Max che è stato prima- e questo non gioca certo a suo favore.

Un leggero sottofondo musicale proviene da poco più avanti, e si spande nelle vicinanze insieme al vento. La melodia lo riporta indietro nel tempo, a certe serate ovattate, vagamente sbiadite dal trascorrere del tempo –ai vicoli stretti, all'alcol sulla punta della lingua, ai baci rubati, ad un'altra vita.

Dopo Charles.

Prima di Charles.

"Max?"

Socchiude le palpebre, sbattendole lievemente, catturato dal suono di una voce. Gira appena il capo sulla sinistra, oltre la sua spalla, con le sopracciglia aggrottate e l'espressione concentrata, e lascia che i suoi occhi abbraccino interamente la figura del ragazzo che gli sta venendo in contro, vestito completamente di nero, impeccabile e bellissimo ed irresistibile.

Charles Leclerc taglia il marciapiede a grandi falcate ed attraversa la strada senza guardare, allegro e dinoccolato, con un sorriso bianchissimo che gli illumina il viso sotto la luce dei lampioni e gli disegna due fossette adorabili ai lati della bocca morbida. Quando se lo trova di fronte, Max è costretto a fare un passo indietro, inebriato dal profumo dell'altro. E più lo guarda più si chiede cosa in lui sia riuscito a colpirlo, perché non potrebbero essere più diversi.

"Dove si va?" chiede, mordendosi l'interno del labbro e spostando il peso da un piede all'altro, improvvisamente impacciato. Troppo massiccio, troppo pallido, troppo normale.

Se possibile, il sorriso di Charles si allarga ancora di più.

Con un gesto lento del mento, gli indica un punto imprecisato poco più avanti, lungo il vialetto che costeggia il parco, da cui la musica sembra provenire.

"Ti piacerà." Dice, sicuro, e Max non riesce a formulare nessuna delle battute taglienti che gli si arrotolano sulla punta della lingua. Gli viene solo un sorriso deficiente sul viso che lo fa arrossire fino alla punta delle orecchie. Se Charles lo nota, non ne fa alcun cenno.

Camminano sul marciapiede, uno affianco all'altro, con le spalle che si sfiorano impercettibilmente. Il silenzio è piuttosto teso, pieno di cose sottintese e di domande troppo ingombranti per essere tirate fuori adesso, quando sono nove anni che non si parlano e le cose fra loro sono così... ingarbugliate.

Quando Charles è così bello e Max è soltanto l'ombra del pilota ch'è stato da ragazzino, quando fiero e vittorioso sfrecciava sul suo kart nuovo di pacca sbaragliando la concorrenza. E se Charles ha dimenticato quella versione di lui, quella trionfante e determinata, che speranza ha di restargli impresso ora? Ora che è solo uno qualunque, uno che sta dietro, in attesa, che si è accontentato di un sogno meno ambizioso?

Max è talmente immerso nei suoi pensieri che non si accorge che Charles si è fermato davanti ad una casupola di cemento dipinta a rombi rosa e violetti, all'ingresso di un piccolo giardino recintato.

Gli finisce letteralmente addosso, facendogli perdere l'equilibrio, e costringendolo ad aggrapparsi al suo braccio disteso, per non cadere.

"Cazzo" mormora, concitato, con le parole che gli sfuggono dalle labbra troppo in fretta per fermarle. "Cazzo, cazzo, cazzo, scusami"

Charles non molla la presa, ma lo scruta con gli occhi vagamente socchiusi, luccicanti come due gemme.

"Verstappen, devi smetterla di finirmi addosso così, i tempi dei kart sono finiti. O sbaglio?"

E in quel momento Max lo capisce, è fregato.

Prega con tutto sé stesso che il suo viso non sia arrossato come crede.

"L'ultima volta che ho controllato" ribatte. "Eri tu quello che non riusciva a fare a meno di buttarmi fuori."

Si scambiano un'occhiata lunga e decisiva, prima di entrare.

Il locale si rivela essere piuttosto carino, ad essere onesti. È una birreria indipendente con qualche decina di tavoli sparsi in uno spiazzo circondato da lucine e un palchetto su cui un gruppo musicale mal vestito strimpella pezzi indie folk, ma l'atmosfera sembra particolarmente accogliente e rilassata.

Ordinano da bere al bancone, e poi si accomodano su due panchette un po' defilate, uno di fronte all'altro e si scolano la prima birra senza che nessuno dei due dica una sola parola.

Max è ipnotizzato dal modo in cui i muscoli di Charles si tendono sotto la maglietta, da come tiene le mani intrecciate attorno al bicchiere e lo sguardo basso, incerto sul da farsi. Vorrebbe poter dire di conoscere Charles –che questo comportamento schivo non gli appartiene- ma probabilmente non è vero. Charles come lo conosce lui –o come aveva sempre creduto di conoscerlo, si dice- non esiste più da molto tempo.

All'improvviso un pensiero fa capolino nel suo cervello, ed una volta che prende forma non c'è verso di ignorarlo. Ha una brutta sensazione alla bocca dello stomaco che gli fa venir voglia di vomitare. Forse, si dice, è stata una pessima idea in fin dei conti.

Probabilmente Charles sembra in imbarazzo perché non vuole essere lì. Gli aveva lasciato il suo numero prima di rendersi conto che si trattasse di lui. Charles non aveva la minima intenzione di uscire con lui.

Più ci pensa, più se ne convince. E si sente un idiota.

Non ha intenzione di restare lì nemmeno un secondo di più.

L'espressione sul suo viso deve essere meno neutra di quanto creda, perché il ragazzo che gli sta di fronte aggrotta le sopracciglia preoccupato, spostandosi lievemente in avanti, accorciando le distanze fra loro.

"Max, va tutto bene?" chiede, piano.

"Sì" risponde lui, brusco, alzandosi in piedi sotto lo sguardo perplesso dell'altro. Le parole poi si aggrovigliano, la voce si spezza dove non avrebbe mai voluto, peggiorando la situazione. "È stato uno sbaglio. Io- mi dispiace."

Quando fa per andarsene, Charles lo trattiene, allungando la mano affusolata per stringergli il polso in una stretta sorprendentemente salda. Con lo sguardo Max segue la traiettoria del movimento. I braccialetti di metallo, l'anello sul mignolo, le unghie cortissime.

Il contatto fra le loro mani gli provoca le stesse sensazioni della prima volta, irradiandosi come un bagliore su ogni centimetro di pelle, marchiandolo a fuoco.

Mio.

"Per favore" dice, e suona quasi come una preghiera. "Resta."

E Max si riscopre debole, a quella richiesta. Così ricaccia indietro le paranoie, e si siede.

"Sono felice che tu mi abbia chiamato." Prosegue l'altro, abbozzando un sorriso, come se riuscisse a leggergli nel pensiero. Con l'anellino batte sul vetro del bicchiere. "Non pensavo che lo avresti fatto, dopo l'imperdonabile figura che ho fatto."

Max fa spallucce, tirando un piccolo sorso.

"Non immaginavo che potessi dimenticarti così della mia esistenza."

"Ho cercato di rimuovere il quanto più possibile di quel periodo della mia vita. Sono rimasto in contatto solo con Pierre." Ribatte lui, e il suo sguardo si incupisce. Per un attimo è come se gli guardasse attraverso. "Anche lui è qui a Boston, per studiare, dico. Be', non al momento. È in Francia per le vacanze."

Qualcosa sembra tormentarlo, e Max ha la netta impressione che non sia saggio indagare oltre, ma curiosità ha la meglio sul buonsenso.

"Quando hai smesso?"

Charles china la testa, distogliendo lo sguardo, e Max percepisce una strana sensazione dietro lo sterno, di mancanza mista a tensione mista a qualcos'altro che non riesce ad identificare ma che lo spinge a stringere i pugni sotto al tavolo. Spera di non aver superato la linea invisibile che tiene il suo antico rivale arpionato all'altro capo del tavolo e di non dover assistere alla scena straziante di lui che lo pianta lì, da solo, davanti al secondo bicchiere di birra durante una pessima cover di Landslide.

Ma Charles non va via.

"Una vita fa, nel 2014." Dice, invece. "Dopo Jules non sono mai più riuscito a salire in macchina."

Non c'è bisogno di ulteriori spiegazioni. Ricorda bene quell'incidente. Il peggiore degli ultimi dieci anni.

"Mi dispiace." Bisbiglia Max e si rende conto che quelle parole –sincere, nell'intenzione- suonano estranee una volta pronunciate dalla sua voce, specie considerando a chi sono dirette.

Charles gioca con una pellicina sul pollice. Non fa cenno di voler aggiungere altro, ma piuttosto sposta l'attenzione su di lui, per cercare di ristabilire gli equilibri.

"Tu quando hai smesso?"

E Max non parla volentieri di queste cose perché –che cazzo- sono decisioni che ancora lo tormentano, pensieri che non gli danno pace da anni e di cui nessuno, neppure Lando, è pienamente al corrente. Eppure qualcosa in quel momento gli dice che è il caso di fidarsi. Che Charles, coi suoi occhi luminosissimi e le labbra sottili e le mani intrecciate in mezzo a loro, in attesa, -Charles che lo ha inseguito per settimane, gli ha lasciato il numero su una tazza di caffè e gli ha aperto il suo cuore davanti ad una birra- è la persona di cui fidarsi.

Che male può fare?

"Poco prima." Si ritrova a rispondere. Mentre le parole gli si formano sulla lingua, sa già che non potrà dire tutto e che quello che verrà fuori sarà una versione striminzita ed edulcorata, ma si dice che è più di quanto abbia concesso a chiunque altro, che è meglio di niente. "Mio padre stava affrontano una causa contro la sua ex compagna, mi sono ritrovato da solo a dover gestire tutto. Direi che non ci ho creduto abbastanza, ad un certo punto non sapevo nemmeno più per chi lo stessi facendo. Fforse semplicemente non era mai stata davvero la mia strada."

Gli occhi di Charles sono impossibilmente luminosi, quando incontrano i suoi.

"Eri veloce, quasi quanto me."

Te lo ricordi. Pensa.

"Ti piacerebbe" dice.

Non c'è più traccia di risentimento, astio, rivalità. Non c'è competizione fra due vinti, fra due ragazzi che hanno cercato di dare un senso ad avvenimenti troppo dolorosi, troppo importanti. È evaporato anche il timore di non essere accettati, la paura di sentirsi diversi.

Charles è come Max e Max è come Charles.

Qualsiasi cosa questo voglia dire.

Il silenzio che segue, dopo, è piacevole. Sotto un manto di stelle di un bianco sfolgorante, con un vento leggerissimo che si alza di là dal fiume, Max racconta della sua passione per il modo in cui tutte le cose funzionano e Charles di come abbia stravolto la sua vita e trovato un nuovo sfogo al suo bisogno di eccellere in qualcosa.

I bicchieri vuoti si accumulano sul tavolo, uno dopo l'altro, fino ad impilarsi.

E anche loro, involontariamente, si avvicinano l'uno all'altro in un gioco di tocchi leggeri e casuali alle estremità, che accelerano all'inverosimile i battiti cardiaci di entrambi. Un immobile muto bilanciarsi nell'aria. Charles il suo. Max il suo, seguendo.

Mentre l'altro gli racconta un aneddoto sulla vita universitaria ad Harvard, Max si ritrova a pensare ai calzettoni di spugna abbandonati in qualche cassetto della sua casa in Olanda, e lascia la sua mente distrarsi. Si domanda se non abbia da sempre frainteso il desiderio di Charles di essergli amico, perfino il gesto stesso di offrirgli qualcosa di suo, di aiutarlo anche se questo avesse significato favorirlo. E sa che non è una domanda da fare ma deve –deve- saperlo.

Dopo sei birre ha perso ogni filtro, ogni contegno.

"Leclerc?" lo interrompe.

"Sì?"

Ha il singhiozzo.

"Non l'avevo mai capito, sai?"

Per un momento un lampo di confusione attraversa gli occhi di Charles, ma basta una leggera alzata di spalle e un gesto rapido del braccio ad indicarli entrambi a chiarire ogni dubbio.

L'altro gli sorride, ridacchiando mentre scuote la testa lievemente facendo ondeggiare i capelli castani. Tiene il pollice poggiato sul dorso della sua mano e la accarezza, leggero.

"Non lo avevo capito nemmeno io, fino a non troppo tempo fa."

Oh. Oh-

Fa segno al cameriere per un altro giro.

"È successo quando sono arrivato qui, per la prima volta." Spiega, incapace di trattenere un sorriso criptico. "È stato molto naturale. Credo... credo semplicemente di non averci mai pensato. Sono sempre andato con un mucchio di ragazze e mi andava bene così. Non mi ero mai fatto domande. Direi che non me ne sono accorto finché non è successo."

Max non è in grado di frenare la domanda che viene dopo, mentre il suo cuore inizia a battere talmente forte da mandarlo in affanno. Ed è patetico il modo in cui dopo tutti questi anni spera ancora di avere qualche possibilità con lui.

"Cosa?"

"Ho perso la testa per l'assistente di un mio professore." Ammette, candidamente, mentre un sorriso timido gli si disegna sul viso. "Ci ho messo un po' a capire cosa stesse succedendo. Accettarlo è stato più semplice, in realtà."

Max sente un'ondata di calore risalirgli dal petto mentre guarda questo ragazzo, lo stesso ragazzo che lo ha spinto a farsi domande su sé stesso, parlare di sé con questa naturalezza, senza vincoli e senza etichette, illuminato dalle luci soffuse del gazebo e dalla luna imponente nel cielo plumbeo della città.

Charles non gli chiede niente, non lo costringe a parlare di sé. Non sente il bisogno di tastare i suoi limiti, di tracciare una linea marcata fra le cose che sono e quelle che dovrebbero essere. Resta in silenzio, in ascolto, in attesa di qualsiasi cosa Max abbia voglia di condividere.

E se non fosse così ubriaco, probabilmente non direbbe mai una cosa del genere.

"Avevo una cotta devastante per te, quando eravamo piccoli."

Charles per poco non cade dalla sedia.

"Cosa?"

Max gli risponde con un ghigno sbilenco, mentre si inumidisce le labbra con la lingua e prende un lungo sorso dal bicchiere che il cameriere gli ha appena allungato, prima di proseguire.

"Hai sentito bene, Charles, non fare il finto tonto. Era così evidente."

Il monegasco ha gli occhi sbarrati, incredulo.

"Pensavo volessi farmi fuori"

"Sì, esatto." Conferma. "E di solito quello significa che qualcuno mi piace davvero molto."

Dopo pochi istanti la band saluta tutti gli astanti –Grazie a tutti, è stato un piacere suonare per voi, Aeronaut Allston! Ci vediamo il prossimo venerdì- e qualcuno alza il volume di una vecchia playlist spotify. -Finalmente è finita quella lagna!

"Ti va di ballare?"

Max restituisce a Charles un'espressione interrogativa, e si gira per osservare alle sue spalle alcuni ragazzi avventurarsi nello spiazzo vicino alle casse per dondolarsi al ritmo della nuova hit estiva del momento.

E Max sta per dire di no, perché Max odia la pressione sociale e tutte le situazioni in cui non sente di avere il pieno controllo, ma Charles...Charles gli sta tendendo la mano, aperta, e lo guarda con un'espressione talmente speranzosa che il no gli muore in gola, e tutto quello che può fare è abbandonarsi al contatto delle sue dita contro il suo palmo e seguirlo, imbambolato, ovunque lui voglia.

Lo strappo con cui lo trascina è la scintilla che accende la miccia.

Nel buio della notte, acceso solo da decine di milioni di stelle, gli occhi di Charles sono l'unica luce che cerca.

Max Verstappen, che non ha mai ceduto il controllo a nessuno, nella sua vita, si lascia condurre alla cieca da un ragazzo di cui non sa praticamente nulla, attraverso corpi che si strofinano a ritmo di tamburi. Allaccia le dita con quelle di lui, lo segue come si segue un faro, impaziente, affamato di contatto.

Quasi fosse in grado di condividere i suoi pensieri, l'altro lo gira fra le sue braccia e se lo imprime addosso senza esitazione, spezzandogli il fiato.

Con le ombre che gli si vanno tratteggiando sul viso, Charles è di una bellezza cupa e sinistra, e il sorriso che gli si apre sul viso somiglia ad una voragine pronta a risucchiarlo. Max è ipnotizzato dal modo in cui le labbra piene di lui si muovono seguendo le parole della canzone, dalla pressione della sua mano sulla parte bassa della sua schiena. È completamente abbandonato al contatto, avvinghiato all'altro finché non si toccano in ogni centimetro di pelle scoperta possibile.

Sente le ginocchia così molli, per l'adrenalina, la sbronza e l'eccitazione, che ha paura che cadrà di peso per terra all'improvviso, stramazzando al suolo.

Quando le labbra di Charles gli sfiorano l'orecchio Max deglutisce, annaspando alla ricerca di aria.

Lui interpreta il suo gesto come un segnale, ed un bagliore fulmineo gli attraversa gli occhi. Allunga una mano fino ad accarezzargli la guancia, e lo guida verso di sé, finché le loro fronti non si toccano.

Max pensa che potrebbe morire, seduta stante.

Non riesce a sentirlo, ma le labbra di Charles si lambiscono e si separano in una domanda inequivocabile: posso baciarti?

E Max...Max non ha mai desiderato così intensamente di baciare qualcuno, di sentirlo vicino in ogni modo possibile. È annebbiato, stregato, ubriaco di Charles.

Gli è bastato così poco, per cadere ai suoi piedi.

"Andiamo via di qui" gli dice, con il cuore che batte all'impazzata contro la cassa toracica.

Charles non se lo fa ripetere due volte. La sua mano si intreccia nuovamente con quella di Max, mentre scivolano fuori dal locale, urtando altri uomini, incespicando, provando a restare incollati l'uno all'altro quasi temessero di perdersi nella ressa. Dapprima camminano, poi alzano il passo, finché lui non gli stringe il palmo fino a farsi sbiancare le nocche, come per avvisarlo di un imminente cambiamento.

Quando il semaforo diventa rosso, Charles scatta in avanti, trascinandolo con sé in una corsa a perdifiato per le strade deserte, facendo slalom fra le aiuole e saltando i marciapiedi con grandi falcate, senza smettere di tenersi le mani. E Max ha le vertigini, mentre il paesaggio scorre velocissimo tutt'attorno, e lui non ha punti di riferimento se non la nuca scura dell'altro, due passi avanti a lui.

Deviano dal percorso principale, allungano, forse si perdono, ma non si fermano finché non sono in riva al fiume Charles, dove crollano esausti, con le gambe che tremano e il cuore che batte all'impazzata.

Il silenzio è perfetto, rotto solo dai loro respiri affannati che si mescolano fino a diventare indistinguibili. Sincronizzati, vicini.

Dopo quelli che sembrano pochi minuti Max alza la testa dal suolo erboso, e si concentra sul profilo in controluce di Charles. Sulle ciglia lunghissime, la barba di qualche giorno, il naso dritto e la piega del collo, definita e dolcissima. Il posto perfetto per le sue labbra.

La luna si riflette sul pelo immobile dell'acqua emanando bagliori sinistri e smuovendo le acque verde bottiglia, come gli occhi selvaggi del ragazzo che gli sta di fronte. L'impulso di allungarsi, prendergli il viso fra le mani e premere le sue labbra contro le sue è quasi impossibile da tenere a bada.

Pensa guardami, guardami, guardami.

E come se Charles gli leggesse nella mente, lo guarda davvero, coi suoi occhi screziati, gialli come quelli di un gatto, nella notte afosa e stellata dell'estate del duemilaventuno.

Tutto gli sembra possibile, in questo momento.

"Cosa c'è?" lo interroga, sollevando un sopracciglio e aprendosi in un risolino basso.

"Sei molto bello."

Max ha paura di fare e dire una montagna di cose, ma non la verità.


**


Avvolto nel lenzuolo, nel buio della sua stanza, Charles ascolta il suono delle gocce di pioggia contro la finestra, e lascia la mente vagare.

Tutti i suoi appuntamenti –che si tratti di ragazze o ragazzi, sconosciuti o vecchie fiamme- finiscono nel suo appartamento, o in quello di qualcun altro, in base alle circostanze. Non questa volta, però.

Ha salutato Max davanti al portico, con le mani nelle tasche e gli occhi spalancati e inquieti che vagavano fra le crepe nell'asfalto senza soffermarsi su nulla. Lui aveva le guance arrossate dall'ebbrezza e un'espressione indecifrabile sul viso. Sembrava un principe della notte, bianco e bellissimo in contrasto col fondo scuro della via, coi lampioni spenti e silenziosi e le ombre che si allungavano alle sue spalle.

Anche se dopo la breve sosta sul fiume non si erano scambiati più di qualche parola, nessuno dei due sembrava aver particolarmente voglia di tornare a casa.

Con un piede sul gradino e il busto girato verso il ragazzo, Charles avrebbe voluto dire molte cose -ringraziarlo per la serata, offrirsi di accompagnarlo a piedi, fare ancora due passi, invitarlo ad entrare. A fermarsi- ma non sapeva come.

I pensieri di Max sono difficili da interpretare, ha scoperto. Questo non è cambiato.

Hanno salito due o tre gradini, con le mani intrecciate, e si sono fermati davanti alla porta chiusa senza smettere di toccarsi. Adrenalina e desiderio e bisogno.

È stato sul punto di giocarsi tutte le sue carte, di fare la figura del disperato, di pregarlo in ginocchio di rimanere con lui per la notte, ma anche Max sembrava voler dire qualcosa e si sono parlati addosso e ne hanno riso, quando i loro sguardi si sono incrociati.

E Charles ha pensato: non voglio che questa notte finisca.

E Max ha detto: è stato bello e grazie per la serata, ma adesso devo andare, con un tono così dolce da rendergli impossibile anche solo pensare che non fosse sincero.

Ha cercato di reprimere la delusione, quel senso di vuoto allo stomaco che lo ha colpito quando l'altro gli ha accarezzato la guancia con il pollice e gli ha lasciato un piccolo bacio sulle labbra –il primo-, per salutarlo. Sembrava un addio.

"Buonanotte Charles"

"Buonanotte Max." ha detto, anche se sentiva il petto dilaniato e l'unica cosa che avrebbe voluto fare era strattonarlo in casa e tenerselo stretto, vicino al cuore. Invece è rimasto per dieci minuti buoni fermo immobile ad aspettare di vedere il ragazzo sparire lungo il vialetto, le mani nelle tasche, il capo chino.

Non si è girato nemmeno una volta.

Quando il telefono squilla, questa volta, Charles sa che è Pierre.

"Quindi adesso scopi con Max Verstappen? State insieme?" gli chiede.

Non c'è traccia di giudizio nella voce di Pierre, anche se l'amico sta cercando evidentemente di stuzzicarlo.

"Nessuna delle due." Risponde Charles, scostando il lenzuolo. "Avevi ragione tu, Pear. È stata un'altra di quelle volte."

Un'altra di quelle volte in cui è andato troppo in fretta, ha bruciato le tappe e ha spaventato l'altro.

Charles sa che Max non richiamerà.

"Mi manchi molto."

"Perché non torni a casa?"

La prima cosa che fa dopo aver chiuso la chiamata, è prenotare un volo di sola andata per Parigi.


**


Dopo la serata all'Aeronaut, Max e Charles non si scrivono e non si vedono per una lunga e interminabile settimana, in cui perfino il cielo decide che l'estate non ha senso di esistere e piove tutti i giorni, copiosamente, allagando le strade e diluendo l'estate in un autunno infinito.

Max non riesce a smettere di pensare a Charles dal momento esatto in cui gli ha voltato le spalle ed ogni volta che chiude gli occhi tutto quello che vede è la sua espressione carica di aspettative, la bocca semi aperta, le labbra socchiuse, protese in attesa del bacio. Si sente impazzire.

Di tutte le volte e di tutti i modi in cui ha sognato di baciare Charles Leclerc, nessuna si è mai nemmeno avvicinata a quello che è successo davvero. Al senso di tensione nel petto, di schiacciamento degli organi interni, così simile a quello durante l'accelerazione di una macchina da corsa.

A quindici anni non era nemmeno in grado di immaginarlo, un momento così.

E sì, ha avuto paura. Paura perché andare a letto con Charles avrebbe reso tutto reale. Paura perché non sapeva se fosse pronto a rischiare di rovinare quest'idea perfetta che aveva sempre avuto di lui e che lo aveva mandato avanti tutte le volte in cui suo padre gli aveva detto che era disgustoso e che gli faceva schifo. Paura perché, diamine, Max non è uno che si lega facilmente alle persone. Preferisce sfogare i suoi impulsi senza legami, abbandonandosi al contatto freddo e asettico di estranei che non possono giudicarlo e che non rivedrà mai più. Ha avuto pochissime storie serie e lo hanno lasciato tutte devastato.

Dio solo sa come lo ridurrebbe un rifiuto di Charles.

È arrivato così vicino ad avere la cosa che per anni ha desiderato e temuto di più in assoluto che è entrato nel panico, ha preso una decisione impulsiva e gli ha voltato le spalle prima che quel ragazzo determinato e brillante e bellissimo potesse allontanarlo. Gli è mancato il coraggio, ancora una volta.

La cosa in cui Max sembra più bravo in assoluto, negli ultimi anni, è precludersi tutte le possibilità di essere felice.

Passa le sue giornate stravaccato sul letto sfatto, nutrendosi solo di cereali e cibo pronto a domicilio, lasciando scorrere il catalogo Netflix senza soffermarsi mai su niente e fissando la chat con Charles, i messaggi che ha lasciato senza risposta e la sua foto del profilo. È del giorno della sua laurea, con la toga e il cappellino e il diploma incorniciato fra le mani.

Si risolve di cancellare il suo numero dalla rubrica, ma ormai conosce la strada di casa sua.

Un martedì di fine luglio, bussa alla sua porta nel cuore della notte.

Non sa nemmeno con quale forza è riuscito a tirarsi fuori dal letto e a trascinarsi giù per due rampe di scale e poi fino all'appartamento, a tirare su il pugno e battere piano, contro il legno scorticato. Sperando ed aspettando. Non sa nemmeno lui cosa.

Tutto tace, nella notte che si avvicina all'alba, a parte i movimenti concitati che provengono dall'interno e il sussulto che viene fuori dalle labbra di Charles, quando lo vede.

Max lo coglie mezzo addormentato nello specchio della porta, a petto nudo, con solo un pantaloncino della tuta e i capelli scompigliati dal sonno. La curva della spalla è netta e sinuosa, e segue una geometria perfetta scivolando lungo la schiena ed i fianchi, fino a sparire oltre il bordo dell'elastico.

La spontaneità della sua bellezza, perfino in queste circostanze, è ingiusta e crudele.

E sono passati quasi dieci giorni dal loro appuntamento. Dieci giorni di silenzio, di chiusura e di muro. Dieci giorni in cui Charles avrà pensato che Max non è cambiato per niente, che è sempre il solito ragazzino immaturo e viziato, che non vale la pena provarci con uno come lui.

Ne avrebbe ogni diritto, in fondo è tutta colpa di Max.

Gli occhi di lui sono spalancati per la sorpresa, ancora appannati dalla stanchezza, e la sua fronte è attraversata da rughe di espressione piuttosto pronunciate, che gli disegnano preoccupazione e timore con pennellate vive su ogni parte del viso illuminata dalla luce del porticato.

"Max, stai bene?" chiede. La sua voce è a malapena un sussurro. "È successo qualcosa?"

Deve sembrargli completamente folle, a presentarsi lì alle quattro del mattino, dopo essersene andato così l'ultima volta, senza una parola.

"Non dormo da giorni" è la risposta che gli dà, troppo sincera per la luce del mattino. Se gli saltasse addosso, adesso, non lo fermerebbe. Se gli voltasse le spalle, lo capirebbe. Restando lì in piedi, Max gli sta servendo sé stesso su un piatto d'argento ed è così miserabile che accetterebbe qualsiasi proposta e condizione imposta da Charles.

Le cose non vanno come aveva immaginato, però.

"Aspetta un attimo, torno subito."

Un'ondata di tristezza si abbatte su Max, come una tempesta. Sente le lacrime inumidirgli gli occhi e le guance, ma cerca di asciugarle rapidamente con la manica della felpa.

La porta si riapre dopo pochi minuti, e Charles ne fa capolino completamente vestito e con in mano le chiavi di casa. Non accenna minimamente agli occhi rossi dell'altro, né prova a fare conversazione.

Gli offre la mano, però, con il palmo rivolto verso l'alto, e Max la afferra, stringendola appena. Camminano in silenzio per un bel pezzo, attraverso Cambridge e fino a Charlestown, lungo il fiume e dritti verso il North End, mentre Boston si sveglia lentamente, al loro passaggio.

Il peso leggero delle loro mani strette, che dondolano lentamente ad ogni loro passo contro il suo fianco, lo tranquillizza. Gli impedisce di prendere il volo e disintegrarsi nell'atmosfera.

Charles non dice niente nemmeno quando arrivano alla stazione dei treni e compra due biglietti per la Commuter Rail.

Sono le uniche due persone al binario dieci, senza contare il barbone rannicchiato su una pila di cartoni ammonticchiati e il guardiano notturno che sta per smontare.

"Ti va di parlarne?"

Max trasalisce, al suono della voce di Charles, calma e ovattata. Sono le prime parole che si scambiano da quasi due ore.

Scuote la testa, in risposta. Non saprebbe cosa dire. Non sa nemmeno dove stanno andando.

Il ragazzo al suo fianco annuisce piano e gli rivolge un sorriso piccolo ed incoraggiante.

Appoggia la testa sulla sua spalla, e chiude gli occhi, come per dormire.

Max quella notte impara che non sempre la pace si ottiene al caro prezzo della solitudine.



**


La stazione di Manchester-by-the-Sea non è più di un gabbiotto di legno con il tetto a punta e due binari sgangherati che percorrono la costa, placidamente, fino al confine con il Maine. Piantato nel terreno poco più in là c'è un grosso cartellone pubblicitario con una mappa approssimativa della zona ed un pallino rosso che dichiara voi siete qui.

La testa di Max è pesante sulla sua spalla ed il suo respiro lento e regolare. La pelle liscia e pallida è tesa sugli zigomi e si arriccia in mille pieghette agli angoli degli occhi. Dorme come un bambino, e sembrava averne davvero molto bisogno, tanto che Charles si sente quasi in colpa, a doverlo svegliare.

"Max, siamo arrivati." Gli mormora all'orecchio.

L'altro ci mette qualche secondo a rimettere insieme i pezzi e a ricostruire gli avvenimenti delle ultime ore.

Si strofina gli occhi arrossati con i palmi delle mani, si raddrizza sul sedile e guarda curioso oltre il vetro opaco del finestrino, prima di rivolgergli un'occhiata interrogativa.

"Che posto è questo?"

Charles è il primo a scendere dal treno, e a fargli strada.

È una camminata breve e silenziosa, lungo un sentiero che si snoda fra il porto e le residenze estive di famiglie borghesi che dormono ancora nei loro letti freschi, in attesa che il nuovo giorno inizi.

Il sole è sorto da pochi minuti ed il cielo ha ancora i colori dell'alba, quando arrivano in spiaggia. È poco più che una mezza luna sabbiosa che abbraccia l'oceano come un sorriso, da parte a parte, sormontata da stormi da gabbiani che volano a pelo sull'acqua calma.

Charles ci era venuto spesso, nei suoi primi anni ad Harvard, soprattutto in primavera, quando era poco frequentata e sufficientemente silenziosa da permettergli di sedersi indisturbato a contemplare il lento sciabordio delle onde.

Era una delle cose che lo calmava di più in assoluto, forse perché gli ricordava casa.

Su consiglio di Pierre, aveva deciso di chiudere per sempre il capitolo Max Verstappen –conscio che ne avrebbe sofferto, ma che gli sarebbe passata. Eppure quando lui si era presentato alla sua porta, esausto e visibilmente tormentato, ogni piano e buon proposito era evaporato seduta stante, sostituito dal bisogno inevitabile di fare qualsiasi cosa in suo potere per aiutarlo.

Pensa che non imparerà mai.

Si slaccia le scarpe da ginnastica bianche e affonda i piedi nudi nella sabbia pallida e vagamente rosacea, accogliendo la sensazione con nostalgia, ed incoraggia l'altro ad imitarlo.

Max è ancora immobile, un paio di passi dietro di lui, con un'espressione indecifrabile sul viso, a metà fra lo stupore e la paura.

"Sai, la chiamano Singing Beach perché la sabbia canta, quando ci cammini su." lo informa, cercando di suonare allegro.

L'altro solleva un sopracciglio.

"Te lo sei appena inventato."

E Charles ne ride, piano, scuotendo la testa.

"No! Giuro, croce sul cuore." Dice, e muove un paio di passi come per provare la sua teoria.

"Secondo me è una stronzata"

"Se non ti piace il mio posto tranquillo, puoi sempre tornare a casa."

Un lampo di preoccupazione attraversa gli occhi cristallini di Max ed il cuore di Charles non può fare a meno di accelerare.

Dio, come si è ridotto.

Si siedono appena accanto ad un gruppo di surfisti che si riposano dopo aver cavalcato le onde del primo mattino, e Charles si abbassa la bandana sul collo per lasciare i capelli liberi di muoversi assieme al vento. Per un bel pezzo c'è solo il rumore del mare a cullarli e a riempire il silenzio.

"Grazie."

Quando sposta i suoi occhi alla sua sinistra, dove Max è seduto con le ginocchia strette al petto, vede che ha lo sguardo incollato alla riga dell'orizzonte, composto e severo. Triste, probabilmente, in modo profondo.

"Sono un tale casino, Charles. Non so come farò a sopravvivere qui." Bisbiglia, riparandosi con il cappuccio della felpa. "Volevo chiamare. Io- volevo, davvero"

"A fine mese torno a Monaco."

Non sa perché lo dice, eppure è sufficiente perché Max smetta di tormentarsi l'elastico della felpa e gli rivolga tutta la sua attenzione.

E quando vede il riflesso dell'oceano negli occhi più azzurri che abbia mai visto, Charles non può fare a meno di chiedersi se sia vero, che lui ha finito con Boston e che Boston ha finito con lui.

"Per le vacanze o...?"

Charles si stringe nelle spalle. Nonostante tutto il tempo libero che ha avuto nell'ultimo mese, non ci ha davvero pensato.

"Non lo so." Risponde, sinceramente, mordicchiandosi il labro inferiore. "C'è ancora qualcosa che mi tiene legato qui, in qualche modo."

I capelli di Max si confondono nello sfondo della spiaggia, a perdita d'occhio, ed i suoi occhi contengono il riflesso del cielo e del mare allo stesso tempo, quando gli parla di nuovo.

"Sai, per quello che vale, penso tu sia la persona più libera che io abbia mai incontrato."


**

Estate, per Charles, è diventata un concetto, piuttosto che un luogo fisico. È la sensazione di aver incontrato una persona che ti cambierà la vita, in un modo o nell'altro. Sono le passeggiate notturne, le birre gelate nei locali all'aperto, i baci rubati alla luce della luna, specchiati sul fiume Charles. I piani per il futuro, una pausa dalle responsabilità con vista sull'oceano Atlantico. L'invisibile confine fra chi è destinato a diventare e chi vorrebbe essere.

Da quando Max è entrato a far parte stabilmente della sua vita, Charles si è spostato in lungo e in largo per gli Stati Uniti e non ha mai più trascorso una singola estate a Monaco. Non è l'unica cosa ad essere cambiata, però. C'è qualcuno che lo aspetta, questa volta.

Per lavoro raramente resta più di qualche giorno nella stessa città e passa lunghi periodi in alberghi fuori mano in giro per il paese, senza conoscere le destinazioni successive, semplicemente andando, muovendosi col vento.

Ad essere sinceri, non gli interessa.

Non importa dove si trovi, è Max la sua casa, il suo posto al sud.



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