Puruṣārtha
Una volta giunti a teatro Ermes seguita a tenermi per mano come ha fatto per tutto il tragitto, nei pochi isolati percorsi tra i caseggiati a mattoni rossi di Brooklyn. È la prima volta che mi porta con sé al lavoro da quando siamo arrivati. Nei primi giorni a New York ci ha portato in giro, facendoci fare i turisti, ma oggi vuole presentarmi le persone che fanno parte della sua quotidianità; me lo ha comunicato fin da principio con una naturalezza che mi ha spiazzata, mettendomi in soggezione, anche se ho dissimulato per non turbarlo.
Entriamo dalla stage door: un accesso laterale che dà direttamente ai corridoi dei camerini e al palco, dove subito ci imbattiamo nel brulicare degli addetti ai lavori. Sebbene sia ancora mattino presto tecnici, costumisti, truccatori e attori sono già operativi. Ermes saluta tutti non lasciando mai la mia mano, io mi limito ad annuire, sorridendo.
«Con calma te li presenterò uno a uno, ora devo sbrigarmi. Ciao, Tim!» Ermes viene interrotto dall'arrivo del suo hair stilyst che mi presenta lì per lì.
Entrati nel camerino recante la targhetta con il nome di Ermes, siedo su uno sgabello in un angolo, cercando quasi il modo di scomparire mentre lui, accomodato alla poltrona dinnanzi allo specchio, si sottopone alla sessione di trucco e parrucco a opera di Amy Komorowski e Tim Nolan - saprò più tardi, dopo altre presentazioni di rito - rinomati nel settore dei famosi. I tre chiacchierano complici, affiatati dalla conoscenza di lunga data. Poco dopo entra una donna bionda, di media altezza, sulla cinquantina, con degli abiti sottobraccio. «Meghan! Che piacere! È un po' che non ci si vede.» Ermes le va incontro, prendendole di mano gli abiti e, posandole una mano sulla spalla, la saluta con due baci sulle guance, poi inizia a spogliarsi e infila gli indumenti di scena che la costumista - deduco - gli ha appena portato. Lei, prese le misure, sistema ogni particolare nel modo in cui deve cadere indosso: lo fa voltare di fianco e di schiena più volte.
Mi sento completamente fuori luogo, ma chiunque incrocia i miei occhi, che sono attenta a tenere bassi o intenti su qualche arredo del camerino, mi rivolge un sorriso cordiale.
Oggi, parte delle prove sarà ripresa, dunque una seduta preparatoria in vista delle telecamere di alcune emittenti autorizzate è d'obbligo. Ermes mi fa accomodare appena dietro le quinte. «Fammi gli auguri!» mi sussurra, stringendomi le mani e strizzandomi l'occhio, mentre già calca il palcoscenico.
Siamo in un teatro piuttosto piccolo, lontano dai grandi fasti di Broadway, dove lo spettacolo si sposterà a Maggio. È molto antico, risale al Milleseicento, infatti le logge sono impraticabili. La platea è stata invece restaurata e, non credo di sbagliare nell'azzardare che, dalla disposizione a tre settori in pendenza, il piccolo teatro sia stato adibito a cinema. Non vi è nemmeno un sipario: gli attori accedono alla scena dal retro del palco, da dove il pubblico li vedrà immediatamente.
Lo spettacolo mi lascia senza fiato dalle prime battute. Ermes è uno stacanovista. In scena per quasi tutta la durata, è il protagonista indiscusso. Egocentrico e ruffiano al limite dell'irritante, incarna lo stereotipo del maschilismo degli anni Sessanta, mascherato in modo grossolano dallo spirito bohémien e fintamente riformista di chi abitava il Greenwich Village di quel periodo. Una commedia amara e realista. Un Ermes che si trasforma di continuo, un camaleonte che domina la scena con la sua voce possente, con il suo carisma, e poi balla, poi canta, poi rotola ubriaco sulle assi di legno. E piange e si dispera e... oh, Santiago, quanto avresti amato vederlo splendere così. Per la prima volta realizzo, forse, l'artista che racchiude nella pantomima l'iperbole della sua vita.
Alla fine del primo atto, appena può divincolarsi dai colleghi con i quali scambia impressioni su battute e intonazione, si dirige verso di me, che sono rimasta a sedere su uno scranno, mani conserte sulla gonna plissè, a osservarlo con occhi carichi di ammirazione.
Mi posa un bacio lieve sulle labbra nell'andirivieni delle quinte tra figuranti, registi, tecnici dell'audio e del suono. Ermes si muove con naturalezza per mettermi a mio agio. Mi porge la mano e inizia a presentarmi - lei è Mira - tre parole che sembrano le più naturali del mondo. Senza etichetta, semplicemente Mira; dovranno farsi bastare il mio nome senza chiedersi chi sia e a che titolo compaia al fianco di Ermes. Non sono una collega o una giornalista. Mira soltanto. Nessuno fa domande inopportune, anzi si mostrano affabili e, tutto sommato, persino non troppo interessati alla mia presenza. La meravigliosa frenesia della città che non dorme mai si riflette nella normalità della totale indifferenza riservata ciò che sta a un palmo dal tuo naso.
La giornata è quasi volata e, verso le cinque e mezza del pomeriggio sono andati via tutti. Mira dev'essere rimasta ad aspettarmi nei camerini, dietro il palco non c'è.
D'un tratto odo una voce scandire un canto e, seguendo le note, la scorgo lì, nel silenzio reverenziale del proscenio. Sfila le ballerine beige di vernice con la punta nera squadrata e avanza di qualche passo. A piedi scalzi cammina verso lo Steinway a coda nero, posto in un angolo. I riflettori illuminano ancora la scena e l'unico suono udibile è lo scricchiolio delle assi di legno sotto i suoi passi leggeri. Si accomoda al piano e solleva il runner di velluto rosso che copre la tastiera improvvisando qualche accordo di una ballata malinconica.
La sua voce echeggia poi a cappella nella sala, si lascia trasportare a occhi chiusi e, ogni tanto, le note del piano si uniscono alla melodia.
Quando termina, dal buio della platea deserta mi paleso estasiato. Mira sorride, arrossendo, e fissa lo sguardo sulle proprie mani appoggiate sui tasti. La affianco sul panchetto del piano «Che brava!» le sussurro, baciandole una guancia mentre la cingo per le spalle, avvicinandola a me. Fronte contro fronte le chiedo «quando pensavi di dirmi che hai una voce così bella e sai anche suonare?»
Sorride. «Non sono capace di suonare, a orecchio improvviso solo qualche fraseggio.»
«Però sai cantare» puntualizzo.
«Con i soldi guadagnati dai primi lavori mi sono pagata una scuola di canto, per tre anni, poi sono rimasta incinta e non ho continuato perché c'erano spese più urgenti.» Una nota di rammarico le vela la voce sull'ultima parte di quella frase. «Non sono mai riuscita a imparare a suonare il piano. Desideravo tanto farlo da piccola, ma mio padre diceva che era tempo sprecato.» Mira fa spallucce, guardandosi le punte dei piedi che giocherellano sui pedali.
La osservo: il capo chino e incassato nelle spalle esili, mi pare che sia diventata incredibilmente piccola. Le sfioro la mano fino a intrecciare le mie falangi con quelle di lei, nel tentativo di spazzare via l'amarezza che questa conversazione sta lasciando.
Non so molto del passato di Mira. Raramente parliamo dei nostri trascorsi, quasi vi sia un implicito patto, tra noi, di voler guardare solo avanti. Tuttavia, da mio padre, sono riuscito a sapere che l'ex di Mira, il verme benestante e di pochi scrupoli, oltre a farle del male fisicamente, le ha sottratto tutti i risparmi che, negli anni, lei era faticosamente riuscita a mettere da parte lavorando in un'azienda che poi era fallita durante la crisi dei mutui dei primi anni Duemila. Mira non ha mai approfittato della situazione di agio economico del marito. Si è sempre guadagnata da vivere per suo conto, per le sue necessità. L'uomo che ha sposato, però, non ha mai mancato di sottrarle grande parte dei suoi guadagni, così che per lei ne sono rimasti poco o niente.
Mira è restata molti anni intrappolata in quel matrimonio per paura delle ripercussioni sui figli da parte del verme, così ha finito per terminare i pochi risparmi, quando l'azienda dove lavorava a Miami ha chiuso. Non mancò mai di mettere la sua parte nelle spese familiari che il marito pretendeva. A quel punto, alla soglia dei quarant'anni e senza introiti da estorcerle, lui l'ha liquidata e si è trovata sola ad arrangiarsi. È stata costretta ad acccettare qualsiasi tipo di lavoro, anche sottopagato e più di uno. Non aveva neanche dove stare e, si sa, quando ti trovi in difficoltà non ti conosce nessuno, non ci sono amici. Non so di preciso dopo quali e quante difficoltà è approdata a casa nostra. So solo che, in un ristorante dove lavorava come cameriera, conobbe Ahmed che fece da tramite raccomandandola a mio padre.
Mio padre ha preso a cuore Mira da subito e quando, durante l'estate, ha notato che mi sono invaghito di lei, mi chiamò da parte e si raccomandò. «Ermes, è da tanto che le cose non vanno, da tanto che forse non frequenti una donna in maniera fissa, però Mira non è tipo da avventura estiva. Vi ho visti. È evidente che c'è attrazione tra voi e vedo pure che la rispetti. Non portartela a letto per dimenticare il tuo matrimonio fallito, lascia stare. Cerca fuori. Mira ha sofferto tanto.»
«Papà, non voglio prendermi gioco di lei. Mira è una donna intelligente, la rispetto e voglio conoscerla davvero. Quella che tu chiami moglie, invece, mi ha mollato da un pezzo. Fisicamente, da quando vivevamo ancora insieme» risposi al mio grillo parlante.
«Come credi, ragazzo, io ti ho avvertito. Mira è sfuggita a un padre padrone e si è ritrovata con un marito anche peggio.» Fu in occasione di quella conversazione che seppi qualcosa in più su di lei così, quando poc'anzi Mira ha accennato al fatto che non potè continuare le lezioni di canto, ne ho compreso immediamente il motivo.
Una morsa mi attanaglia il cuore mentre stringo nella mia mano quella di lei. Non posso fare a meno di paragonare le nostre vite. Rifletto su quanto sono fortunato, la fama e il benessere finanziario non mi hanno offuscato la memoria. Ricordo chi sono e da dove vengo e so pure di essermi guadagnato la Juilliard, New York e la vita che conduco; tengo pure a mente che un pizzico di fortuna mi ha baciato, perché molti colleghi di corso non sono passati in automatico dai teatri al cinema.
Guardo Mira e l'unica cosa che desidero è di farle tornare il sorriso. La prendo per mano e lei calza le scarpe. Prendo a fare il giullare di corte, trascinandola in una risata scanzonata verso l'uscita dove, spento l'interruttore generale, ci richiudiamo la porta ignifuga alle spalle, diretti nelle strade brulicanti della città. Subito andiamo verso un camioncino dove lei insiste per offrirmi un hot dog fumante, che addentiamo affamati e sorridenti. Le bacio via da una guancia un baffo di maionese e strofino la punta del naso contro quella di lei, subito prima di alzare un braccio per fermare un taxi.
Angolo Autrice
Eccomi a voi prestissimo. Spero che questo capitolo rallegri il vostro sabato pomeriggio. Nonostante la malinconia del vissuto di Mira, un nuovo cammino si apre dinanzi a queste anime. La ricerca dello scopo delle proprie vite, che poi dà il titolo a questo che è ancora parte del capitolo introduttivo della seconda parte di questa storia.
Buona lettura e buon fine settimana. Spero di raccogliere i vostri pareri.
Nives ♥️.
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