Due Satelliti
L'inquietudine che da un po' di tempo mi fa compagnia si fa strada alla bocca dello stomaco come di consueto. Aspetto l'ennesimo volo e inganno l'attesa giocherellando con il cellulare. Da un profilo con un nome di fantasia tra i più improbabili a cui potessi pensare ogni tanto vado a curiosare cosa si dice di me sui social. Nessuno o quasi può risalire al sottoscritto – qualcuno dei fan più accaniti ci è riuscito in verità, perché non possiedo una così abile arte nel mentire, sebbene mi guadagni da vivere, impersonando chi non sono. Non mi è mai interessato mettere in piazza il mio privato, ma ci sono delle fanpage dedicate che sono davvero uno spasso: alcune fonte d'informazione accurata, altre ormonali al limite della decenza, vista pure l'età di chi le gestisce prossima alla mia. Ogni tanto sparano a zero contro la mia ex che era la parte pubblica della nostra relazione: a lei piaceva mostrare la nostra normalità alternativa. Poi ci sono i giornaletti spazzatura che inventano il fantagossip fidanzandomi con colleghe che potrebbero essermi figlie o nipoti, solo per qualche foto di rito in degli eventi pubblici.
Io sono solo impaziente di rivedere i miei, Mira e Matias, e nello stesso tempo nervoso al pensiero. È a loro che ho la mente fissa mentre scrollo distrattamente le immagini. È passata un'eternità da che ci siamo salutati e in questi giorni, forse, ho provato più discorsi allo specchio di quanto non sia stato obbligato a fare durante gli anni della scuola di recitazione e delle volte che presenzio a qualche manifestazione.
Buffo, nella vita movimentata che mi sono scelto e che la fortuna mi ha assegnato in sorte, ero esattamente in questo stesso punto due mesi fa, ma agli arrivi. Il Comicon di Halloween è stato grandioso, ho saputo più tardi; più tardi perché la priorità è stata di capire perché dal volo F93129 Mira e Matias non fossero mai scesi, lasciandomi ad aspettarli nel più totale sconcerto.
Sono solo due mesi, passano in fretta, mi sono raccontato, cercando di battere il dispiacere con la razionalità. Ancora una volta sarà un aereo che porta me a Miami per tornare alle costanti dell'equilibrio che mi sto sforzando di ritrovare: papà... ringrazio il cielo di poterlo rivedere e che non si sia aggravato; quattro mesi lontano sono tanti nelle sue condizioni. I vecchi amici, gli zii e i cugini. Gli astri imperituri che mai si sottraggono al loro ciclo nonostante, sotto la loro volta, tutto il resto si consumi preda degli affanni di questo mondo. Mi piace pensarli immutabili come diamanti nel firmamento, inamovibili nella loro forza, nel loro splendore e nel loro scopo. Eppure so che non è così. La caducità della vita non risparmia affetti né sentimenti. Tutto muta, tutto deve finire e ricominciare, e le persone non sono programmate in modalità per sempre, nemmeno i figli, sangue del nostro sangue, e che tuttavia appartengono a loro stessi soltanto.
Quattro mesi sono sembrati quattro anni e tre ore di volo tre minuti, perché in meno di un battito di ciglia il taxi mi lascia al cancello di Villa Hernandez. Armeggio con le chiavi, è un modo di prendere ancora del tempo. Il tempo che passa ed è un tiranno che tutto trasforma, sbiadisce e sottrae. E io lo temo come il peggiore dei nemici che non ho.
Manca una settimana a Natale e Ahmed ha già sistemato le luci esterne, chissà se ci sono anche intorno a Fortino Hernandez... gli altri anni era disabitato ma adesso quelle mura, testimoni di ricordi tanto cari, hanno trovato inquilini speciali. Attraverso con revenza il giardino ammantato del grigio silenzio dell'inverno e dalla brina delle otto del mattino. Tutto attorno è molto diverso dall'assolata giornata di luglio in cui sono arrivato con il cuore a pezzi dentro la valigia dei rimpianti. Papà si sarà svegliato da poco, penso, è l'ora delle medicine che Mira gli somministra. Il cuore accelera e le mani tremano mentre inserisco un'altra chiave nella serratura. Qualcuno apre dal di dentro:
«Ermes! Che piacere vederti, ben tornato!» Carmen mi accoglie con calore. «Ho sentito qualcuno che cercava di aprire la porta d'ingresso e sono venuta a vedere chi fosse. Perché non ci hai avvisato del tuo arrivo? Avrei preparato una bella colazione anche per te! Provvedo subito a riparare.»
«Lascia stare, Carmen» le faccio cenno di rilassarsi, è sempre iperattiva «volevo fare una sorpresa a papà.» Vedo piperita Carmen inarcare un sopracciglio che non tenta nemmeno di celare il suo proverbiale scetticismo. Passato il vaglio agli infrarossi della nostra più che zelante dipendente, ed elusa la sua insistenza per farmi accomodare in sala da pranzo, imbocco le scale, sollevando il trolley, e mi dirigo a passo spedito verso camera mia. Vorrei darmi una sistemata prima di incontrare gli altri a colazione, non credo di aver un buon aspetto; non ho dormito, visto l'orario del volo.
Appena varcata la soglia della mia stanza la luce soffusa, che filtra dalle persiane socchiuse, contorna il profilo del letto intonso e ogni cosa è perfettamente al suo posto – al di fuori di me. L'unico movimento appena percettibile a occhio è quello del pulviscolo che fluttua attraverso le feritoie delle imposte, nella penombra. Accendo la luce e lo specchio sulla madia mi restituisce la reincarnazione di uno spettro giunto dall'oltretomba!
Non perdo tempo e in men che non si dica sono fuori dalla doccia, asciutto e con indosso una tuta pulita. Vorrei lasciare i capelli bagnati ma il torcicollo che puntuale mi fa compagnia al risveglio mi ricorda che non ho più vent'anni e che devo preservare le mie ossa, se voglio invecchiare decentemente. Con l'età la mia chioma fluente si è assottigliata in proporzione di quanto siano aumentate le incombenze. Sebbene il mio parrucchiere di scena e di fiducia dice che ho ancora un capello robusto, io ne vedo un terzo di quelli che avevo da ragazzo. In compagnia dei miei pensieri ingombranti discendo lo scalone che porta in sala da pranzo, mentre il sole che s'è alzato oltre la siepe risplende dalle vetrate laterali. Volgo lo sguardo verso il lungo tavolo in noce laccato che troneggia al centro della sala, finemente apparecchiato di un candido filato a trama ricamata: le tovaglie tanto care a mia madre. Nel mezzo dei motivi traforati i pallidi raggi solari disegnano piccoli caleidoscopi arcobaleno che riflettono dal cristallo centrale del tavolo fino alle sottili ciocche castane della creatura più delicata che i miei occhi possano contemplare.
Fermo a metà scala, sono disceso felino con le calze sulla moquette che non hanno rivelato a Mira la mia presenza. Con il fiato mozzato per l'emozione prendo ancora tempo. Per vincere l'imbarazzo. Perché non so che dirle dopo quattro mesi. E, seppure ci siamo scambiati qualche messaggio, io ho paura... paura di non saper più parlare con lei... paura di aver perso i momenti costruiti, giorno dopo giorno, con lei e suo figlio durante l'estate. Il tempo tiranno tutto sottrae, sbiadisce e consuma e io ne rubo ancora attimi per fermarmi a osservare le sue mani diafane disporre le ultime posate, il portamarmellate, lo spalmaburro, i piattini orlati di filo d'argento. Sembrano le corde di un'arpa, i sottili capelli castano dorati che le sfiorano i polsi. È il tempo di trarre appena mezzo respiro e lei mi scopre, trafiggendomi con uno sguardo sorpreso. Riprendo a respirare quando le sue labbra rosee si piegano nel sorriso più dolce che riesca a ricordare. E mi sembra allora di ritrovarla, e di non averla mai persa in questi mesi. Ritrovo l'estate che ci ha fatti incontrare. L'estate che ha scaldato i lunghi inverni del mio cuore sboccia sulle labbra belle di Mira.
Ricambio impacciato quel saluto silente a mia volta. Che abbiamo battuto il tempo e la lontananza per una volta? Forse il tiranno non s'è ancora portato via lei.
Eccolo lì, sapevo del suo arrivo ma trovarmelo davanti così all'improvviso è un tuffo al cuore. Il sole lo illumina alle spalle mettendone in ombra la figura ma non può nascondere il sorriso che gli si apre in volto appena alzo il capo, avvertendo una presenza in sala. Sembra un santo, o forse un angelo. Termina di discendere le scale e mi viene incontro con passo calmo e cadenzato. I suoi capelli... sono così cresciuti, gli arrivano quasi alle spalle e li ha raccolti in una mezza coda... e sono scuri, tinti di una bella tonalità castana che ne fa risaltare la carnagione e ha la stessa gradazione dei suoi occhi. È dimagrito notevolmente e ha il viso glabro. Non sono abituata a questo Ermes; quello che ho conosciuto era brizzolato e barbuto e anche dal fisico piazzato. Il Mosè di Charlton Heston ha lasciato posto a un damerino dandy, immagino per le esigenze di scena dello spettacolo teatrale di cui mi accennò questa estate e che lo ha tenuto impegnatissimo in questi mesi, concedendogli una pausa solo ora.
Si avvicina sempre più fino a posare una mano gentile sul mio braccio «Ciao Mira» il suono sommesso della sua voce è una carezza di velluto, come velluto è la sua pelle quando sfiora la mia guancia con un bacio per salutarmi, facendomi trasalire. «È bello rivederti» esita un momento e quasi scorgo un fremito nell'esitare delle parole «spero che vada meglio ora, mi dispiace tanto di non esserci stato in un momento difficile per te e Matias.» La dolcezza con la quale pronuncia la frase a occhi bassi mi compunge nel profondo, poso una mano sulla sua. Io non sono di tante parole, non sono brava a trovarne di adatte così spero che un piccolo gesto possa trasmettere quel calore che non so più sentire, se non per mio figlio.
Lui immediatamente prende la mia mano così che restino unite in un contatto caldo, tenero. Ermes accarezza il dorso della mia e mi sorride, gli occhi si piegano in due spicchi di sole «Le tue mani stanno meglio» osserva, prendendole entrambe tra le proprie; ne analizza il dorso a occhio tastandolo con i pollici. «Sono contento che i prodotti che ti ho portato da Aleppo abbiano fatto effetto» e mentre si premura della salute delle mie mani io ho le ginocchia di gelatina e spero non alzi lo sguardo, perché non scorga il mio viso in fiamme. Non faccio in tempo a pensarlo che le sue pupille sono di nuovo nelle mie. Siamo così vicini. Un intenso profumo di sandalo emana a ogni suo impercettibile movimento, non so se provenga dai capelli ancora umidi o dalla sua pelle. Avverto un turbamento che mi è estraneo e mi allontano. Fuggo da quel contatto troppo intimo che rischia di farmi perdere il controllo delle mie azioni, oltre che dei miei già indomabili pensieri. Sembra ancora più bello di quanto ricordassi e all'improvviso sento sgretolarsi ogni barriera che ho eretto in questi mesi per cercare di dimenticare i momenti di tenerezza e riconsiderare niente altro che una casta amicizia.
«Vado a vedere se tuo padre ha bisogno di me» cerco una via di fuga.
«Gli ho già portato io le medicine, non vedevo l'ora di salutarlo» insiste lui riaccorciando nuovamente le distanze. Il suo odore mi avvolge e mi stordisce. Non controllo lo sguardo che finisce sulle sue labbra, sulla linea della mascella perfettamente levigata e scolpita e mi immagino di sfiorarne con le dita ogni millimetro fino all'arco di Cupido. Se non mi allontano potrei commettere una sciocchezza e, cosa accidenti mi prende, non lo so. Finalmente riesco a divincolarmi e corro di sopra a sistemare le camere. Camera sua: un altro respiro mancato ritrovare il disordine familiare degli asciugamani usati, i vestiti sul letto. Il tempo riporta indietro le lancette, non solo di quattro mesi. Le riporta, o porta per la prima volta a un sentimento sconosciuto. Improvvisamente mi rendo conto che Ermes desta in me le corde di un qualcosa che credevo sopito per sempre, di un sogno impossibile da sognare. I sogni sono per chi può permetterseli: un lusso anch'essi. Ermes è il canto velenoso di una sirena che mi reclama l'anima. Ferma, sul bordo della vasca da bagno osservo il letto dove Ermes ha dismesso i suoi vestiti. Immagino le mie mani scorrere sulla sua pelle dorata, liscia, la ricordo ricoperta di minuscole gocce d'acqua ogni volta che lo guardavo uscire dalla piscina. Gocce di mille carezze a me proibite di cui sono terribilmente gelosa. Vorrei toccarlo in ogni parte del corpo e non mi importa se mi hanno inculcato che è un peccato. Se fossi una donna alla sua altezza, forse mi guarderebbe, se fossi colta, se occupassi un posto in società forse... ma io sono nessuno. Tutti i miei pensieri non sono che cenere. Li scaccio con rabbia per tornare all'unico posto che potrò mai occupare nella vita di Ermes: il niente! Mi forzo alla meccanicità dei gesti consueti. L'amarezza più profonda riprende il sopravvento e mi riporta alla concretezza dell'unico affetto che posso realmente concedermi: quello di mio figlio.
Angolo Autrice:
Ben ritrovati, cari lettori.
Ermes e Mira hanno dovuto restare distanti più del previsto per cause che saranno spiegate più avanti. Intanto spero siate felici quanto me di ritrovarli. La lontananza sembra avvicinarli ancora di più, quasi si siano attesi spasmodicamente. Fatemi sapere come sempre che ne pensate e per riallacciare a questo capitolo rispolverate la one shot Un giorno uguale agli altri perché questa storia è iniziata un anno fa prorio con quella one shot. Ritroverete le stesse atmosfere e la stessa trepidazione nei loro cuori. Un avvicinamento concreto non è facile, ma mentre i loro corpi esitano, le anime sono già intrecciate.
A presto.
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