Rinascita


Chiuse il pesante portone di pietra, zittendo definitivamente il freddo ululato del vento nordico feroce e pungente come un lupo accecato dalla fame.

Si scrollò la neve di dosso, sbuffando e lasciando che gli ultimi brividi gli percorressero il corpo in una spirale di tremiti e scosse. Nonostante abitasse lì da un bel po' di anni continuava ad essere sorpreso di quanto le temperature fossero basse. Il cielo grigio, la neve candida e gli alberi morenti, custodi delle loro poche figlie rimaste, erano elementi ormai noti all'uomo; ma continuava a sorprendersi di come il gelo sembrava penetragli improvvisamente le ossa come una visita inaspettata e indesiderata, e di come il paesaggio rimaneva immutato negli anni come ad aspettare un'irraggiungibile estate.

Posò la sacca di pelle sul pavimento di roccia ringraziando gli déi per quel sollievo così gradito alla povera spalla destra, ormai indebolitasi nel corso del tempo come tutto il corpo in sé. La mano sinistra, nonostante il pesante guantone di lana grigia, era coperta da uno strato di bianco cristallo, dando quel senso di dolore quando mollò la presa sull'arco di legno, quasi a sentire milioni di aghi tirargli la pelle fino a spaccargliela. Si levò con un ultimo sforzo la faretra di legno custodente le ultime frecce rimaste e sospirò: avrebbe dovuto procurarsene di nuove.

Senza pensare al disordine lasciato, si avviò prendendo in mano il bagaglio che pareva pesare quintali e percorrendo il lungo corridoio scuro: l'odore di muffa sembrava pregnare quelle pareti erose dal tempo, le cui sporgenze parevano raffigurare le più bizzarre creature: centauri armati di arco, angeli con le loro ali celesti, nekomata nascosti nelle ombre; tutte quelle immagini si univano e separavano allo stesso tempo come in un sogno vacuo o in un progetto di tutti i giorni: ancora da definire.

L'uomo si fermò, stringendosi nella sua pesante pelliccia grigia e alzando la testa verso quel gran bassorilievo. Nonostante il pesante cappuccio che non si ostinava a togliere, come per paura di essere ancora in quelle terre selvagge che chiamava esterno, riusciva a vedere chiaramente l'immagine di fronte a lui: rocce, semplici e spoglie rocce a cui venivano attribuiti significati e forme inesistenti dovute alla sua semplice percezione che si basava su segnali illusori che la realtà gli offriva, come una falena intrappolata in un barattolo: mai avrebbe visto quel vetro, nonostante fosse presente a ostacolare ogni sua singola, disperata fuga.

Solo rocce.

Si strinse nelle spalle, aumentando la presa sulla sacca e ricominciando a camminare, stavolta più svelto, più deciso e desideroso di andare nella meta che lo attendeva.

Un pesante portone grigio mise la parola fine a quel lungo corridoio. L'uomo si fermò, voltandosi e rabbrividendo alle sottili ombre che le torce appese alle pareti creavano: sembravano quasi scrutarlo, aprire gli occhi e mostrare le zanne in attesa di un singolo passo falso.

Scosse la testa: troppa caccia. Era al sicuro lì.

Si rivoltò verso il grande portone quadrato e, senza cerimonie, iniziò a spingerlo lentamente, facendo stridere la centenaria pietra e riempiendo la galleria di mostruosi suoni.

Sbuffò, dopo aver creato un'apertura appena sufficiente per farlo passare, e prese la sacca di pelle che aveva poggiato sul freddo pavimento, sguisciando dentro e chiudendo velocemente le due pesanti ante, assicurandosi la salvezza da quelle ombre.

Dopo che la porta si chiuse con un rumore assordante che rimbombò fra le mura di pietra, l'uomo buttò fuori tutta l'aria che aveva inconsciamente trattenuto. Si girò, stendendo la bocca screpolata in un sorriso e voltandosi verso l'ampia sala che lo circondava come un abbraccio. Aveva sempre pensato che in qualche tempo remoto fosse stata una piazza: la struttura circolare e le vistose decorazioni in pietra mostravano i segni dell'usura. In giro per la stanza, centinaia di oggetti erano sparpagliati in un complesso illogico e disordinato: tessuti bucati, spade spezzate, gioielli anneriti e arazzi lacerati. Ogni cosa era la voce di un tempo passato, di una memoria e di una persona che le aveva create, dandole un'identità e, perché no, anche un nome.

Iniziò a camminare, posandosi la sacca sulle spalle e osservando il vecchio soffitto: una cupola che avrebbe quasi toccato il cielo in tempi migliori, ma che adesso sembrava affondare in un oceano di buio. Le possenti colonne rocciose, decorate con intarsi morenti, sembravano reggere con grande sforzo l'enorme struttura che dimorava nelle profondità della terra. L'uomo sorrise: non aveva l'aria di una piazza, ma gli piaceva pensarlo.

Si avvicinò al suo obbiettivo: un piccolo tronco di ulivo alto a malapena la metà dell'uomo che sembrava reclamare ogni possibile attenzione: il legno scuro, nonostante si mimetizzasse con l'atmosfera morente, sembrava spiccare di luce propria, rimpolpano di esile vita la grande stanza. Sul ramo più alto, un uccello dalle dimensioni di un falchetto dormiva beatamente. L'uomo si avvicinò, abbassandosi all'altezza di quella piccola struttura e togliendosi lo spesso cappuccio, mostrando una pelle color latte segnata da qualche ruga e i capelli biondi che si stavano sbiancando come una neve immune ai raggi del sole di primavera. Gli occhi, grigi come la pietra, erano l'unico punto in comune con quel luogo.

Non ebbe neanche bisogno di svegliarlo che l'uccello si destò, aprendo i grandi occhi ambrati e sbattendo pigramente le ali, facendo volare qualche piuma color rosso spento, uguali alla pittura secca. L'uomo allungò la mano e gli accarezzò dolcemente la testa, il falchetto non sembrò replicare, chiudendo gli occhi ed emettendo un rauco verso di apprezzamento.

-Ciao, piccola-. L'uomo posò a terra la sacca, stavolta con più delicatezza di prima, e ne estrasse un tenero pezzo di carne di lupo cacciato personalmente in quei freddi boschi innevati. Ne staccò un piccolo pezzo e, con gesto quasi paterno, lo avvicinò al becco dell'uccello che se lo mangiò senza pensarci due volte, muovendo pigramente il becco.

Il biondo sorrise, dandole un altro pezzo e accarezzandole di nuovo il capo, ottenendo altro apprezzamento. Era così da anni ormai; da quando era partito, lasciando tutto quello che possedeva, aveva scoperto la dura vita del cacciatore. Si ricordava esattamente il giorno in cui aveva cambiato la propria vita: la bufera era nel pieno delle sue forze, oscurando qualsiasi tipo di visuale. Si era rannicchiato, con la calda falce della morte vicino; aveva avuto paura, paura di morire e di aver fatto un enorme fiasco. Aveva continuato a camminare con gli arti ormai ridotti a semplici proiezioni fisiche, senza alcun legame col corpo. Si era appoggiato a una roccia, ansimando e pregando un dio qualunque di risparmiarlo; aveva voltato il capo e visto le sue preghiere esaudirsi.

La stessa porta che aveva chiuso pochi minuti fa l'aveva salvato da quella fredda tempesta.

Si era dovuto abituare, era vero. Aveva subito dovuto abbandonare l'idea di non essere più il ricco uomo di una grande famiglia ma un'ennesima preda in quel pazzo mondo chiamato natura. Aveva agito, era vero. Lentamente, aveva imparato a muoversi in quell'ambiente così, apparentemente, inospitale ma, durante le giornate più limpide, appariva in tutta la sua bellezza.

Prese un altro pezzo di carne, porgendolo al pennuto e lasciandogli consumare avidamente quel lauto pasto.

-Vedo che ti piace- disse, accarezzando un'altra volta quel piumaggio spento. –Brava, brava. Mangia che ti fa bene-.

Con un ultima carezza, l'uomo si allontanò facendo riecheggiare i suoi lenti passi un po' più lontano, dove un ammasso di legna bruciacchiata era racchiusa da un cerchio di pietre grezze. Il biondo si sedette, incrociando le gambe e sentendosi finalmente rilassato e sicuro. Frugò nella sacca, sfregando le mani col pesante tessuto che pareva solleticarlo con la stessa vivacità di una madre col proprio figlio, e tirò fuori pezzetti di legno: da piccoli e sottili a più spessi e tozzi. Li buttò nel cerchio, facendo scricchiolare i vecchi pezzi, molto simili ai costumi delle vecchie generazioni che lentamente venivano schiacciati da quelli delle nuove. Osservò lo spento spettacolo: il nero del ceppo più vecchio sembrava unirsi col marrone spento di quello nuovo, creando una crescita che sarebbe sfociata nelle tiepide fiamme.

Senza cerimonie avvicinò la mano e, con un semplice schiocco di dita, il mucchio davanti a lui prese fuoco, facendo divampare il fuoco in una danza pacata e tranquilla, simile a un lento.

Sorrise: quello era sempre stato il suo elemento. Fin da quando era piccolo era stato paragonato a una piccola fiammella: viva, spensierata e che bruciava ogni cosa sul suo cammino, lasciando spazio a un nuovo mondo tutto da scoprire. Era sempre stato molto insofferente sulle regole e non amava quella sontuosa vita che il sangue gli aveva donato; voleva scappare, uscire e scoprire il mondo di cui aveva tanto sentito parlare. Aveva abbandonato tutto: le sue responsabilità, suo padre e il nome della sua famiglia; si era messo uno zaino in spalla ed era partito alla ricerca di quella parola che l'aveva perseguitato da anni.

Fenice.

Erano solo leggende, dicevano. Un uccello di fuoco che rappresentava una vera e propria arkè, uno stile di vita. Fin da quando aveva letto, quasi per caso, su quel fantomatico volatile, aveva sentito l'impellente bisogno di vederlo coi propri occhi. L'aveva chiesto a suo padre, a sua madre e a tutte le persone che conosceva, sperando, nella sua ingenuità, che avessero avuto la risposta a quell'arcano.

Assolutamente no.

Sciocchezze, dicevano; leggende e storie che ti bacavano il cervello. Sguardi straniti e bocche storte, ecco ciò che otteneva.

Ma lui non si era arreso. Aveva cercato, sperimentato e si era buttato in un viaggio ben più grande di lui. Non sapeva cos'avrebbe trovato, ma si sentiva come legato a quel mito: la nascita e la morte, un continuo ciclo di pure fiamme. Una vera e propria metafora dell'esistenza e del creato: nessuno moriva veramente e nasceva veramente, tutto si trasformava semplicemente, come una fiamma.

Batté le palpebre: quella danza ardente l'aveva distratto dal suo obbiettivo principale.

Prese un pezzo di carne e con cura trapassò la tenera consistenza con un legnetto rimasto, abbastanza lungo per non scottarsi la mano e sufficientemente robusto da sorreggere il boccone. Lo avvicinò al fuoco, lasciando che quella realtà lo avvolgesse come un abbraccio e lo facesse suo, trasformandolo come un maestro vasaio con la creta fresca. Inclinò leggermente la testa, rituffandosi in quel oceano di ricordi.

Erano stati giorni tortuosi, era vero. Aveva scalato grosse montagne, attraversato foreste e paludi. Era entrato in contatto con ogni forma di pericolo che la natura offriva, ma anche di bellezza. Aveva visto posti nuovi, visitato città così diverse e scoprendo ad ogni passo la natura dell'essere umano. Si era appuntato ogni cosa: ogni strada, ogni meta e ogni nota su un piccolo taccuino che tirò fuori con movimenti delicati, quasi a evitare di romperlo.

Lì c'era scritto tutto.

Lì c'erano le note di tutto il suo viaggio: ogni sua tappa, ogni sua avventura e ogni suo passo erano scritti in quell'insieme di fogli rilegati da un fil di cuoio che aveva sicuramente passato giorni migliori. Passò le dita sulla copertina di pelle, prima così splendente, osservandone la superficie consunta e leggermente rovinata su alcuni punti, come se qualcuno avesse deciso di staccare pezzi casuali del pregiato materiale quasi a creare un disegno mai completato.

Aprì il libretto e ispirò l'odore della carta giallognola e rattrappita, evidentemente per gli acquazzoni presi. Si sentì come rinvigorito da quel profumo così familiare che era l'unico ricordo di casa. Fece per prendere lo stilo per intingerlo e scrivere l'emozioni provate in quelle lunghe settimane, il completamento della sua missione e le sue incredibili scoperte. Rimase a fissare il foglio, come in attesa che quel turbinio di parole trovasse un tempo, luogo e ordine che sfortunatamente non arrivò.

Niente.

Cercò di sforzarsi, cercò di pensare a quello che aveva provato: ai suoni che aveva sentito, agli odori che aveva percepito e alle cose che aveva toccato.

Niente. Troppa roba.

Richiuse il taccuino, sbuffando e riponendolo al suo posto: aveva provato talmente tante emozioni contraddittorie che gli era difficile trascrivere tutto; per quanto si sforzasse nessun termine, neanche il più aulico, rendeva perfettamente l'idea di quello che erano stati quei tempi.

Un leggero odore di bruciato lo risvegliò dai suoi profondi pensieri, facendogli notare con sorpresa la sottile patina nera che rivestiva ogni centimetro della carne, ormai non più tenera come una volta.

Imprecò, allontanando il pezzo di legno dal fuoco e cercando di afferrare il cibo, provocandosi solo un'improvvisa scottatura. Posò il cibo su un panno umido, il suo "piatto", massaggiandosi la mano dolorante: l'avrebbe mangiato più tardi.

Riposò lo sguardo sull'esile pennuto, il quale stava pigramente dormendo su quel piccolo nido improvvisato. Sorrise alla vista: non poteva ancora credere di avere davanti la creatura dei suoi sogni.

La Fenice.

Il ricordò di quel giorno gli tornò alla mente: dopo essere entrato in quel pesante portone era svenuto, troppo provato per proseguire oltre. Il sonno si stava lentamente sostituendo al calore della morte che quel vento freddo sembrava portare come un contadino col suo grano. Aveva pensato di morire, di essere agli sgoccioli della sua misera vita e incapace di raggiungere il suo sogno di fanciullo.

Poi la vide.

Aveva aperto gli occhi, accecato da quella luce che pareva la rappresentazione del Sole stesso. Si era riparato la vista con una tremante mano, mentre il corpo veniva avvolto da un calore quasi tangibile come le labbra di una giovane donna. Si sentiva bene e sembrava che nulla fosse successo, che ogni fibra del suo corpo fosse stata rimpolpata di vita.

Si era seduto, voltandosi e ammirando quello spettacolo di piume e fuoco che sembravano un'unica entità. Arancio e rosso quasi danzavano, mentre il giallo accompagnava con una soave musica.

Il suo canto.

Il regale uccello era rimasto lì a guardarlo come un curioso fenomeno. Non era impaurita nell'avere qualche contatto e questo all'uomo non era dispiaciuto.

Aveva coronato il suo sogno. L'aveva vista.

Esisteva.

Si era fermato a contemplare quel gioiello ricoperto di fiamme. I secondi erano diventati ore, le ore mesi e i mesi anni. Era rimasto in quel vecchio tempio ad ascoltare i precetti di quella fenice così sapiente e così generosa. Aveva assimilato conoscenze che nessun essere umano si sarebbe sognato. Il loro legame si era fortificato, passando dal velluto all'acciaio. Aveva sentito una connessione, un qualcosa che lo collegava a lei che andava oltre il sangue che gli aveva donato.

Strinse la mano, osservando le verdi vene che sembravano sporgere da quell'involucro color carne.

Il sangue.

Non riusciva ancora credere che fosse successo: la fenice sarebbe morta, glielo aveva detto lei stessa. Niente aveva vita eterna, nemmeno lei; poteva solo essere prolungata, ma ogni cosa doveva finire.

Lo aveva guardato, aveva sbattuto le ali e gli aveva parlato con quel tono di un padre che istruiva il proprio figlio.

"Custodisci questo posto, fino alla mia morte".

Così aveva fatto.

"Porta il mio sangue ovunque andrai".

Così avrebbe fatto.

Ed eccolo, impegnato in un patto che non credeva aver stipulato. Aveva sentito un fuoco caldo dentro di lui, la speranza e la sapienza del suo maestro scorrere nelle sue vene come lava.

Era una fenice, ora. La nuova fenice.

Rialzò lo sguardo; l'uccello era ancora lì a sonnecchiare: quanto tempo sarebbe durato tutto questo? Quanto tempo avrebbe resistito a quel patto così letale per lei? Si sentiva mancare al pensiero di star per perdere la sua unica ragione di quella ricerca, il suo sogno e il suo maestro.

"Tutto ha una fine"

Quelle parole risuonarono vive nella sua testa, animate da un corteo di fiammeggianti cantori. Lasciò cadere pigramente la mano, sentendo l'odore della pietra umida mescolarsi a qualcos'altro.

Cenere.

La cenere che quel tesoro di volatile avrebbe lasciato, rendendo quel piccolo albero inutile al suo unico scopo. Sarebbe rimasto solo, accompagnato dal silenzio delle rocce e dei fiocchi di neve. Si sarebbero invertiti i ruoli, da allievo a maestro: ma cosa doveva insegnare? A chi doveva farlo? Il suo lavoro da custode era finito e avrebbe dovuto qualcuno da cui farsi proteggere? Avrebbe dovuto passare il testimone?

Lentamente si avviò verso un cumulo disordinato di oggetti: armi, armature, scudi e cappe erano disposti nel più totale caos, qualche pezzo si ostinava a cadere o separarsi da quel gruppo così solido. Si abbassò, frugando in quell'insieme di guerra e lotta, ignorando il tintinnare degli artefatti che avevano ceduto alle scosse da lui create, facendoli collidere pesantemente sulla fredda pietra. Affondò le mani, stringendo una spessa superfice metallica e tirando, causando una frana di spade ed elmi che toccarono il suolo, provocando un gran fracasso.

Si voltò di scatto, osservando l'uccello sull'albero.

Dormiva ancora, perfetto.

Tirò un' altra volta, cercando di fare meno rumore possibile e ammirando, una volta fatto uscire completamente da quella massa di metallo, l'oggetto nelle sue mani.

Era uno scudo, ma non uno scudo qualunque pallido e di metallo scorticato in più punti. No: una cornice dorata, riccamente decorata, avvolgeva la superficie color rosso spento, un tempo della stessa tonalità del sangue, nella quale era quasi possibile specchiarsi. L'uomo passò una mano sulla liscia superficie, facendo svolazzare la polvere in fluttuanti forme che danzavano nell'aria come le più delicate danzatrici, il rosso parve quasi illuminarsi per un istante, come se fosse pieno di forza vitale, la stessa forza di chi l'aveva forgiato.

Si ricordava di quello scudo: uno scudo speciale forgiato dalle stesse piume della fenice e immerso nelle sue calde lacrime. Le leggende avevano narrato di quell'arma da millenni, annotandolo come una protezione invincibile per un soldato invincibile.

Ed era vero: non importava cosa lo colpisse, ma rimaneva integro; benedetto dai poteri taumaturgici della fenice stessa. Nonostante questo l'uomo non l'aveva mai usato, come a non voler distruggere una reliquia sacra: aveva sempre creduto che uno scudo epico sarebbe dovuto essere usate in situazioni leggendarie, grandi guerre ed eroiche imprese.

-Ora, quindi- sussurrò, infilandolo nella borsa: era sorprendentemente leggero per la sua stazza, altra caratteristica fenomenale.

Si mosse lentamente verso l'uscita, facendo risuonare i suoi passi come quelli di un gatto durante la caccia: veloci e silenziosi. Dopo quella che sembrò un'eternità si trovò davanti al mastodontico portone di pietra. Strinse le maniglie, fredde come le lacrime che minacciavano di sgorgare da un momento all'altro, come ad evidenziare il dolore che ogni passo provocava, il dolore di lasciare quel luogo.

Strinse ancora di più, rendendo le nocche delle sue secche mani bianche come la neve. Doveva andare: non era più il guardiano di nulla e sarebbe diventato un solitario in una fortezza dimenticata, dove il suo padrone stava lentamente morendo.

No.

Mollò la stretta, sentendo scivolare la pietra dalle sue mani callose. Non poteva scappare così, come se nulla fosse e abbandonare il frutto di tante ricerche.

No, non poteva andarsene così.

Si voltò, facendo rimbombare i sicuri passi in quell'angusto luogo. Ogni movimento sembrava quasi pesare, come se tante mani scheletriche avessero iniziato a spuntare dal terreno, ghermendogli le gambe con morse glaciali. Respirò profondamente, cercando di scacciare quelle lacrime che minacciavano di bruciargli ogni centimetro di pelle. Appena la figura della fenice fu ad appena un palmo di distanza si abbassò, sentendo come un enorme macigno cadergli sulle spalle.

-Piccola- sussurrò, quasi per paura di far crollare quelle immense mura che improvvisamente sembravano essere solo cartone, capace di cedere con un singolo soffio di vento. Osservò il volatile pigramente appollaiato sull'albero: avrebbe dovuto insistere? O forse era un avvertimento per andare via?

Un brivido gli percorse la schiena: e se fosse già morta?

-P... Piccola?- Sussurrò, accarezzando quel pallido piumaggio che sembrava un sole morente; piccoli cumuli di cenere caddero lentamente al suolo, facendo sussultare l'uomo che stringeva ancora le sottili piume. La fenice, al contrario delle previsioni, si svegliò, facendo risuonare il suo debole richiamo dello stesso suono del metallo graffiato. Gli occhi grigi del biondo si incastrarono con quelli languidi dell'uccello, molto simili a due piccoli pezzi di carbone di scarto.

Rimasero così: interminati spazi e infiniti silenzi parevano percorrere ogni millimetro della fortezza, ogni pietra, ogni arma e ogni fibra organica. I leggeri suoni delle gocce d'acqua che cadevano vennero improvvisamente zittiti, lasciando i due a confrontarsi nel più totale silenzio: uomo e divinità, vita e morte, speranza e rassegnazione. Milioni di parole si mescolavano tra loro, vorticando, scomponendosi e ricomponendosi a piacimento; creando costrutti inesistenti e inefficaci ad esprimere tutti i sentimenti che stava provando in quel momento. Tristezza, angoscia, amore e speranza erano diventati un tutt'uno, risplendendo in un'unica parole che sembrava racchiuderli contemporaneamente.

Rinascita.

La rabbia di perdere tutto, l'angoscia di non riuscire più a raggiungere la vetta desiderata, troppo alta per un comune mortale. Amore verso il vecchio e il nuovo; speranza che la novità sia uguale, se non meglio, del precedente.

Rinascita.

Sentì quella parola rimbombargli in testa per ogni secondo mentre appoggiava lentamente la fronte su quella della fenice, sentendo quel legame creatosi negli anni, molto più forte, nel suo climax.

-Ciao- sussurrò, baciandole la testa e affondando la bocca in quelle piume che mano mano stavano iniziando a farsi più vivide, scaldate da un fuoco autonomo. Sentì un borbottio, come un semplice verso di assenso dell'anziano volatile assolutamente non contrario a tutto ciò. Si staccò dalla fenice, sentendo sulle labbra il sapore della cenere, la stessa che stava annerendo le splendenti piume dell'uccello che sembravano quasi brillare come fuoco. Si allontanò, mentre l'addio della sua maestra risuonò in un turbinio di fiamme e scintille. Il corpo si illuminò, le piume bruciarono e gli ultimi resti di quel gracile corpo divennero solo un mucchietto di cenere, senza alcuna sostanza.

Era morta.

Osservò i resti di quello che era stato la sua precedente guida, resti che non avrebbero più potuto proferir parola o donare alcun tipo d'insegnamento.

Si voltò, non volendo più vedere quel triste scenario appartenente al passato. Mentre i suoi passi risuonavano lungo la stanza, cercava di scacciare il rimpianto che stava velocemente prendendo possesso di lui, artigliandolo come una bestia feroce.

Non poteva tornare indietro: era inevitabile e lui lo sapeva. Ogni falcata pesava come un macigno: perché era così difficile ammettere che una cosa potesse perire come tutte le altre?

Strinse le mani sulle maniglie del portone, aprendolo e lasciando che l'enorme corridoio buio si stagliasse davanti a lui. Le bestie nascoste nell'ombra sembravano quasi essersi placate, lasciando libero il passaggio a un uomo accecato dallo sconforto.

Dove sarebbe andato? Cos'avrebbe fatto? Era davvero pronto a rinunciare a quella vita?

Nell'esatto momento in cui si trovò davanti a quel portone di pietra che gli aveva cambiato completamente la vita, si rese conto di come non aveva la più pallida idea di cosa rispondere.

Le enormi ante sembravano squadrarlo con cipiglio severo, come alla ricerca di una qualsiasi condanna per punire quell'uomo all'apparenza insignificante. Alzò gli occhi, ritrovando ogni dettaglio di quel posto identico all'uccello che aveva appena lasciato.

Era morto, bruciato nelle sue stesse fiamme e probabilmente, fra qualche secolo, sarebbe rinata dalle proprie ceneri, ritornando in tutto il suo splendore.

Lui no.

Lui sarebbe rimasto un inutile involucro di carne in attesa di essere decomposto, animato da un'unica fiammella che neanche con una scintilla divina si sarebbe potuta riaccendere.

Strinse le maniglie del portone: sentiva i suoi respiri pesanti come le lacrime che sgorgavano copiose sulle sue guance scavate. Strinse ancora di più la fredda pietra: non voleva lasciare tutto. Non voleva ricominciare da zero; si sentiva come se vedesse crollare il suo castello, all'apparenza del più solido metallo, ma composto in realtà dalla più sottile carta.

Non poteva.

Mollò la presa, lasciando ricadere le mani sui fianchi e appoggiando la testa alla dura pietra. Pianse, pianse finché ogni singola goccia non fu versata, finché ogni sentimento non fu svuotato: rabbia, paura e rassegnazione erano lì, quasi personificati, ad aspettarlo nell'ombra, pronti a ghermirlo con le loro forti braccia.

Non poteva.

Non poteva abbandonare quel luogo, non poteva semplicemente aprire tutto e ricominciare. Sentì le gambe cedergli, facendogli toccare il freddo pavimento grigio. Era distrutto, abbattuto in ogni sua singola molecola e sostanza. Sarebbe rimasto lì a cacciare e a morire nell'ombra.

Per cosa?

Quella domanda risuonò nella sua testa come una campana: a cosa sarebbe servito ciò? Avrebbe dato valore a tutto quel tempo passato lontano dal mondo?

Lei avrebbe voluto questo?

No, non avrebbe permesso che il suo allievo rimanesse lì, in panciolle e senza nessuno a cui insegnare. Non era più un guardiano, ma un maestro pronto a passare le sue esperienze a suo figlio, e al figlio di suo figlio e al figlio di suo figlio di suo figlio.

Rinascita.

Una sola parola ricca di milioni di sfumature. Stava morendo; stava bruciando nelle sue fiamme di guardiano per rinascere come maestro.

Stava rinascendo.

Con foga, prese le due ampie maniglie, stranamente più calde di prima, e, con un entusiasmo quasi infantile, aprì le due ante, prima lentamente, poi sempre più veloce, fino a vedere la luce filtrare l'oscura caverna, creando come un sentiero bianco.

Osservò il mondo davanti a lui: il terreno innevato, decorato da qualche albero secco e roccia, sembrava rimpolpato di nuova vita. I raggi del sole baciavano quel puzzle di armonia e perfezione come una madre baciava il proprio figlio.

Fece un passo, sentendo il piede affondare nella morbida neve: da quando era così fredda? Da quando era così morbida? L'uomo si rese conto di come, nonostante avesse percorso lo stesso terreno milioni di volte, non avesse mai sentito la vera consistenza della neve.

E gli alberi? Da quando erano così alti e spogli? E i sassi? Da quando erano così lisci e luminosi?

Si sentiva un'altra persona: occhi diversi che vedevano un mondo illuminato da una luce che urlava un solo messaggio.

Rinascita.

Era rinato: non era più il vecchio guardiano che lottava per la sopravvivenza, ma un maestro pronto a diffondere il suo sapere e il suo dono.

Si voltò dall'altra parte, come a vedere il sé stesso del passato che lo salutava, ma vide solo il vuoto.

Respirando quell'aria nuova, s'incamminò. Bruciando metri di neve con una corsa senza freni o catene, allontanandolo da quel luogo un tempo chiamato casa.

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