Capitolo 9

FLAVIO

Ho il frigorifero perennemente vuoto quindi, prima di rientrare, ho sfruttato il take away e ho ceduto al richiamo di un bel cheeseburger, di quelli letali, superfarciti, che fanno alzare il colesterolo e sono un vero attentato alla salute. Mi manca la cucina italiana, gli spaghetti al pomodoro e la pizza.

Mentre sono lì per addentare il panino, squilla il telefono.

«Flavio, ciao!» L'inconfondibile e squillante voce di Gaia per poco non mi perfora il timpano.

«Ehi, ciao!» rispondo restando a fissare il doppio cheeseburger e la quantità indefinita di salsa che straborda dai lati.

«Come prosegue il soggiorno inglese?» domanda lei senza contenere l'entusiasmo.

Gaia è la migliore amica di Giuditta, una di quelle compagne di vita alla quale nessuna donna rinuncerebbe. L'amica complice, l'amica che consola, l'amica che bacchetta quando è il momento di farlo.

«Benissimo. Mi sono ambientato velocemente e qui è davvero tutto molto stimolante.»

«Be', tieni a bada l'entusiasmo, Giuditta non è proprio felice come te...»

Alzo gli occhi al cielo. Ci manca solo la ramanzina di Gaia a complicare il rapporto tra me e la mia fidanzata.

«Non cominciare anche tu, ti prego. Ogni telefonata con Giù si trasforma in una tragedia ultimamente.»

«Scenderai questo weekend?»

«Purtroppo, no... e stasera dovrò avvisarla. Pronostico una conversazione complicata.»

«Ascoltami molto bene, venerdì prossimo è il suo compleanno, te lo ricordi vero?»

«Santo cielo, certo che me lo ricordo!»

«Molto bene. Trova modo e maniera di venire a Milano, ho intenzione di farle una festa a sorpresa per tirarle su il morale. Se non ci sarai giuro che vengo a prenderti io per le orecchie, capito?»

Una goccia di ketchup cade sul tavolo. Piego la testa e comincio a leccare il bordo del panino.

«Flavio, che stai facendo?»

«Sto mangiando, Gaia, sto semplicemente mangiando» pronuncio esasperato.

«Allora, puoi darmi una risposta?»

«Ci sarò, ma a una condizione.»

«Quale?»

«La festa la organizzerai sabato e non venerdì. Non posso scendere il venerdì.» Addento il panino con una voracità che fa paura persino a me.

«Richiesta accordata. Ma ho anche io una pretesa da te.»

«Spara.»

Un altro morso.

«Non le dovrai dire nulla, non dovrai minimamente farle immaginare che scenderai. Insomma, comportati come hai sempre fatto negli ultimi giorni.»

«Lo sai che rischio la morte per mano della tua migliore amica?»

«Non fa niente. Quando ti vedrà sarà talmente felice che ti perdonerà ogni cosa.»

«D'accordo.»

«Promettilo, Flavio.»

«Te lo giuro, Gaia.»

Quando chiudo la conversazione del panino è rimasta solo qualche misera briciola. Sparecchio velocemente e chiamo la mia fidanzata. La nostra chiacchierata, purtroppo, termina nel peggiore dei modi. È furiosa. Si aspettava che scendessi questo weekend e le mie ripetute scuse non hanno sortito alcun effetto. L'atteggiamento che ha comincia a darmi davvero sui nervi, non riesco a capire come faccia a non mettersi nei miei panni. Anche lei è una genetista, santo cielo! Dovrebbe comprendermi, supportarmi, essere mia alleata e non recriminare ogni scelta che faccio vedendo in ogni mio gesto una negligenza dopo l'altra nei confronti della nostra relazione. Mi ha rinfacciato addirittura il fatto che stia organizzando il nostro matrimonio da sola. Quando abbiamo toccato il tasto compleanno, poi, lasciamo perdere. E lì sì che ho avuto la tentazione di spifferarle della telefonata con Gaia.

Vado al letto tardi e mi ritrovo a fare i conti con l'ennesimo attacco d'insonnia post litigata. Il nostro ultimo conflitto mi ha reso nervoso e irritabile, mi rigiro nel letto fino a notte inoltrata, poi, sfinito dalle mille congetture, vengo sorpreso dal sonno.


***


Oggi sono due settimane esatte dalla mia partenza. Due settimane in cui non faccio che essere in guerra con me stesso. Il lavoro sfreccia verso nuovi orizzonti, l'amore, al contrario, mi sta dando una delusione dopo l'altra. Io amo la mia Giù, ma non riesco più a capirla. È come se viaggiassimo verso due binari opposti, destinati a non incontrarsi mai. Di colpo il Flavio bambino che è in me prende vita. Quel Flavio che da ragazzino poteva distinguersi dalla massa solo attraverso le doti intellettive e lo studio. I miei sacrifici scolastici valevano molto più di tutto quello che la socializzazione e le amicizie adolescenziali potevano realmente offrirmi.

Sono sempre stato un tipo solitario, se fossi nato in questi anni probabilmente sarei stato etichettato come un nerd. Ero paffutello, secchione e sfigato con le ragazze. A tredici anni vantavo una pagella che ogni compagno di classe mi invidiava, i professori mi amavano e mia madre mi sponsorizzava alle sue amiche come un raro esemplare di figlio. Mio fratello, al contrario di me, era appariscente, aggraziato e avvenente ma svogliato a scuola, e aveva fidanzate sparse in tutta Verona. Al compimento dei miei sedici anni credo che madre natura si sia accorta di essere stata davvero troppo perfida con me. Nel giro di un anno mi trasformai, letteralmente. Il mio corpo si assottigliò, acquistai parecchi centimetri e in molte smisero di vedermi come il ragazzo secchione e sfigato che ero stato fino ad allora. Il problema, però, quando vivi metà della tua adolescenza consapevole che l'intelligenza è davvero l'unica capacità sulla quale puoi appoggiarti, è che smetti di dedicarti a tutto il resto. Anche se tutto il resto vuol dire fidanzate, prime esperienze sessuali e amore. A diciassette anni conobbi Viola e, contro ogni aspettativa, divenne la mia prima fidanzata. Con lei scoprii tutto e lei scoprì tutto con me. Il primo approccio, il primo innamoramento, la prima volta, il primo viaggio insieme, le prime gelosie, il primo senso di appartenenza a una persona. Lei fu per me la prima in ogni cosa. L'amai con trasporto, probabilmente l'amai in maniera talmente autentica da non comprendere quanto l'amore, invece, sarebbe diventato complicato al raggiungimento dell'età matura.

Ci trasferimmo a Milano durante gli anni dell'università. Io avevo deciso che nella medicina avrei trovato la mia più autentica opportunità di espressione, lei scelse lettere antiche. Condividemmo un appartamento insieme ad altri studenti per diversi anni, poi optammo per un primo esperimento di convivenza da soli. Quando io mi laureai lei aveva già iniziato le a lavorare come insegnante in una scuola; era arrivato il momento di prendere decisioni più importanti, fare il salto di qualità, programmare il futuro con maggiore consapevolezza. Stabilimmo una data di matrimonio che ero al secondo anno di specializzazione. Ma a quella data non ci arrivammo mai.

Ecco, ora, per la prima volta dopo tanti anni, sto cominciando ad avere paura di nuovo delle decisioni importanti. Ho la sensazione che il Flavio ragazzino e il Flavio adulto siano entrati in conflitto. Sto temendo il salto di qualità, chiedendomi se amore e carriera possano davvero scorrere parallelamente. Senza lasciare strascichi dietro di sé, senza il rischio del rimorso. Perché il rimorso per aver commesso un errore, in una direzione piuttosto che l'altra, potrebbe davvero marchiarmi l'animo per il resto della vita.

Suonano alla porta che sono appena uscito dalla doccia. «Un attimo» urlo, afferro l'accappatoio e me lo avvolgo addosso.

Dallo spioncino vedo John.

John? Alle dieci di sera?

Apro la porta e lo invito a entrare. «Che succede?» gli domando un filino preoccupato.

Lui mi guarda con la sua tipica arietta strafottente. «Nulla, Doc. Sono venuto a prenderti.»

«Cosa?»

«Mid Season Party, ricordi?» dice, gironzolando curioso nella stanza.

Mi sto quasi pentendo di non aver imposto una maggiore distanza tra me e i miei colleghi del team.

«John, ho già detto che non verrò» pronuncio convinto e anche un tantino infastidito. Odio le persone insistenti.

«Andiamo, non vorrai farmi credere che preferisci passare la serata da solo in tristezza e solitudine...»

«Non insistere, John. Non sono dell'umore adatto.»

Porta le mani al mento e inizia a picchiettarsi sulle labbra con il dito. «Effettivamente hai un'aria più scorbutica del solito.»

Lo dicevo io che è strafottente.

«John, ti ricordo che sono sempre il tuo superiore» sbotto perentorio.

Lui alza le mani in segno di resa, poi sposta una sedia e si accomoda, incrocia gambe e braccia e resta a fissarmi.

«Che succede? Problemi con la fidanzata?»

Dannazione, sento davvero il bisogno di sfogare la mia frustrazione con qualcuno.

«Sì.»

Mi punta l'indice contro. «Scommetto che è gelosa.»

Be', se Giuditta fosse solo gelosa il problema sarebbe di certo facilmente risolvibile. Sono un tipo serio io. Sono fedele e lei non ha davvero nulla da temere, anche se la consapevolezza che io lavori a stretto contatto con tre donne, peraltro neanche brutte, ha complicato il nostro rapporto a distanza.

«Non è solo quello» rispondo. Apro il frigo e tiro fuori due lattine di birra. Ne porgo una a John e mi siedo anche io. Lui tira la linguetta in metallo, si sente lo sfrigolio delle bollicine di anidride carbonica, poi avvicina la lattina alla bocca e beve.

«Che altro?» chiede subito dopo aver passato il dorso della mano sulle labbra.

«Ci sposeremo, John...» interrompo la frase e sembra quasi che il mio problema sia il matrimonio.

«Quindi?»

«Quindi è insicura, non accetta la distanza, è petulante. Ogni telefonata si riduce a una discussione. Vuole farmi sentire in colpa per aver accettato questo dottorato.»

«Allora non ti ama» sputa lui secco.

Ah, che cosa ne può sapere John Lewis della mia storia con Giuditta. Lei mi ama e di questo ne sono certo, come sono certo di amare lei.

«Certo che mi ama.»

«E allora dovrebbe accettare quello che fai, Flavio. L'amore deve superarli certi ostacoli. Insomma, si tratta di un sacrificio. E l'amore è sacrificio, a volte.»

Sacrificio. Lei fa un sacrificio per me... e io? Sto facendo un sacrificio per lei, per dimostrarle il mio amore?

«Se già si lamenta di te che ancora non siete sposati, figurati quando avrà una fede al dito. E quando ci saranno dei bambini? Oh, credimi, quando ci saranno dei bambini ti schiavizzerà. Fatti servire da me che ho una certa esperienza in merito.»

«Hai dei figli?» Spalanco gli occhi sorpreso.

«Sì. David ha dieci anni, ne avevo diciotto quando ho dimenticato di usare il preservativo. Quel cazzo di preservativo mancato mi ha fregato.»

«Io voglio dei figli da lei!» dico a bruciapelo. «Giuditta non sopporta la distanza, anche se le ho promesso che dopo la sua specializzazione potrà raggiungermi, farò in modo di inserirla nel team o da qualsiasi altra parte.»

A giudicare dal modo in cui mi guarda John credo di fargli pena. Mi passo una mano sul viso, strizzo la pelle delle guance e sento la barba pungermi il palmo.

«Senti, facciamo così, tu stasera vieni con me. Ci facciamo un giro, beviamo una cosa e ce ne torniamo a casa presto.»

«Domani mattina ho una riunione con il professor Milligan.»

«Be', domani mattina prendi un analgesico e passa la paura. Considera questa serata come una specie di addio al celibato in anticipo» mi strizza l'occhio e non so per quale maledetto motivo mi sta convincendo. Forse ho bisogno di cambiare aria e distrarmi un po'.

«Devo chiamare Giuditta.»

«Sei impazzito?! Per dirle cosa, che vai ad una festa? Così ti strizzerai le palle da solo, Doc.»

Accidenti, john è un vero gentleman.

«Io e Giuditta non abbiamo segreti.» Giro l'angolo della stanza ed entro in camera da letto, il mio cellulare è sul comodino. Parte la chiamata, uno squillo dopo l'altro ma la mia fidanzata non risponde. Sono ventiquattro ore che non la sento e sono sicuro che questo sia il suo modo di farmela pagare. Lei fa sempre così, si incazza e mi ignora. E a me sale il sangue al cervello.

Lancio il telefono sul letto, poi urlo a John «Cosa devo mettermi?»

«T-shirt, jeans e sarai perfetto!»


***


Questo posto sembra un rave. Gli studenti hanno organizzato il Mid Season Party in un padiglione universitario occupandolo tutto, corridoi compresi. C'è una folla spaventosa, ragazzi di ogni età, dalle matricole fino a tipi dall'aspetto più maturo. E io sono uno di quelli. Ammetto di sentirmi a disagio. John si fa spazio tra la folla e di tanto in tanto parte qualche pacca sulla spalla in segno di saluto. D'un tratto distinguo Chloe che ride di gusto mentre conversa con un gruppo di persone. Ha i capelli sciolti e una coroncina di fiori in testa che la fa davvero sembrare una di quelle ragazze appena uscite da una fotografia hippy. Il suo fisico minuto è coperto da un vestitino dal tessuto leggero e stropicciato e ai piedi indossa delle scarpe di tela. Quando si accorge della nostra presenza strabuzza gli occhi.

«Non ci posso credere! John, hai convinto il Doc a venire!» esclama abbandonando il gruppo e avvicinandosi a noi accompagnata da un tipo dall'aspetto eccentrico.

«Ho delle doti che neanche ti immagini, donna» risponde John.

«Lui è Alex ed è un invitato clandestino» dice presentandoci il tipo che ha accanto, un biondino dalla faccia allungata e i capelli con un taglio che credo di non aver mai visto sulla testa di un uomo. Mi allunga la mano e la stringe con energia, poi fa la stessa cosa con John.

Comincio a girare tutt'intorno con gli occhi, tanto per capire in che diavolo di posto dovrò passare le prossime ore. Dire che sono frastornato è poco; sono circondato da sconosciuti, in una festa sconosciuta, in un luogo sconosciuto. Quando torno a guardare i miei unici punti di riferimento umani mi accorgo che sono spariti. Vado nel panico. Giro su me stesso un paio di volte finché qualcuno afferra la mia mano, mi volto e incrocio gli occhi di Chloe che luccicano tra le luci pulsanti.

«Pensavi di essere rimasto solo, eh?» grida forte per superare il suono assordante della musica. Annuisco senza sapere cosa risponderle. Devo apparirle davvero ridicolo: un responsabile che sembra spaesato come un ragazzino.

«Vieni con me» dice ancora avvicinandosi al mio orecchio «Ti faccio sciogliere un po', Doc.»

Mi trascina nel mare di folla schivando i movimenti scomposti e sfrenati delle persone. Cloe restituisce spintoni a chi la urta, guarda in maniera truce ragazzi che sembrano importunarla con gli occhi e si ferma solo quando un tipo l'afferra per un braccio trascinandola verso di lui. Mi irrigidisco, lei se ne accorge e alza il pollice come per dirmi "è tutto ok". Il ragazzo le mette in mano qualcosa, lei chiude il pugno e torna da me.

«Ti droghi?» domando quasi certo che Chloe stringa tra le mani qualche sostanza psicogena. Il che non mi sembrerebbe neppure troppo considerando la singolarità della ragazza.

Lei si blocca e mi guarda quasi schifata. Sì, schifata.

«Stai scherzando? Ma per chi mi hai presa!» Apre la mano e vedo sopra quei pallidi palmi dei biglietti.

«Sono delle consumazioni gratuite da usare al bar» pronuncia irritata. Si allontana e io la seguo come un cagnolino. Ho appena dato della drogata a una donna, una donna che è una collega, tra l'altro. Cammino a tentoni e mi fermo solo dopo aver raggiunto Chloe. Le afferro l'esile polso stringendolo più del dovuto. «Scusami, non volevo offenderti» dico e ho quasi il timore che la mia stretta di mano possa frantumare quelle ossa all'apparenza tanto fragili.

«Fortunatamente per te non sono permalosa, altrimenti non me ne sarebbe fregato un cavolo che sei il mio superiore e ti avrei risposto a tono» infierisce lei facendomi sentire ancora più in difetto.

Raggiungiamo qualcosa che somiglia vagamente al bancone di un bar, solo che è più piccolo, più caotico e più sporco. «Questo posto è una latrina» dico sprezzante.

«Non pensavo fossi uno di quei tipi da locale esclusivo» mi scimmiotta lei aprendo in modo plateale gli occhi.

«Non sono tipo da locale esclusivo, Chloe» le faccio il verso io.

«Cosa vuoi da bere?»

«Quello che prendi tu andrà benissimo.»

«Attento che potrei infilarci dentro qualche pasticchetta magica, dottor Solina.»

«Ti stai prendendo gioco di me?» la istigo io.

Non mi risponde e mi gira le spalle, quando si volta di nuovo ha in mano due bicchieri pieni, me ne porge uno e ne bevo una lunga sorsata per sopperire al caldo insopportabile che sento.

«Cristo santo, Chloe, è alcol puro.»

«Così impari a non scendere più a conclusioni affrettate.»

«Ma io non l'ho fatto!»

«Oh, sì che lo hai fatto. E per sdebitarti ne dovrai bere almeno due.»

La ragazza è fuori di cervello. Mi chiedo come abbia fatto a diventare medico e ad avere la costanza e la pazienza per fare la ricercatrice. Chloe beve un sorso dopo l'altro, si muove sinuosamente a ritmo di musica mentre io me ne resto impalato come una mummia a ingozzarmi di questa bevanda alcolica a livelli indecenti. Finisco il bibitone dopo Chloe e posso giurare di avere il cervello in fumo. Me ne porge un secondo e lo ingurgito a forza. Di tanto in tanto i pensieri mi riportano a Giuditta anche se l'effetto dell'alcol sta sfocando la percezione di quelli che restano i problemi che ultimamente ho con lei.

John è sparito nel nulla e quando domando a Chloe dove sia finito mi risponde «è andato a caccia di fauna giovane e invitante.»

«E il tuo amico?»

«Idem» risponde lei.

A metà del terzo bicchiere sento che potrei collassare. Chloe me lo strappa dalle mani e beve quello che resta.

«Ma chi sei tu?» le chiedo completamente privo di un briciolo di raziocinio.

«Una che regge l'alcol più di te.»

Ma sento che anche lei si è spinta oltre. Me ne accorgo dall'equilibrio labile che ha quando cammina, dalle smorfie del suo viso e dal tono della sua voce. Mi porta a ballare, io provo un'avversità incredibile verso qualsiasi forma di danza ma stasera non so quale sia la forza che mi spinge a liberarmi dei miei naturali condizionamenti. Mi muovo impacciato, ma mi muovo.

Chloe, a quanto pare, è l'unico punto fermo della serata. È l'unico appiglio che ho per non perdermi in questa festa indecente. Quando si avvicina di più al mio corpo mimando sensuali mosse, io resto impalato come una statua di marmo. Ho i riflessi rallentati e sembra che mi sia iniettato una dose di sedativo.

Chloe è folle.

Chloe è destabilizzante.

La musica rimbomba, le luci stroboscopiche sembrano entrarmi nel cervello e confondermi ancora di più. Avvolge le braccia intorno al mio collo, mi attira a sé e struscia le gambe sulle mie. Quando apre gli occhi e li incolla nei miei mi rendo conto che, per quanto sia in grado di reggere l'alcol, anche lei è ubriaca.

Terribilmente ubriaca.

Vergognosamente ubriaca.

Lungi da me farle una ramanzina, non sono certo nella posizione per bacchettarla.

Si struscia ancora e una sottile scia di eccitazione si impadronisce dei miei sensi. Il fiato bollente di Chloe è un soffio intermittente sulla pelle del mio collo. Vorrei respingerla in qualche modo ma non riesco. La musica diventa incalzante, il ritmo sembra non dare tregua e il contatto fisico diventa insistente e sembra pericoloso. Non mi rendo conto che il volto di Chloe è troppo vicino al mio finché le sue labbra collidono con le mie quasi timidamente. Quel tocco indeciso dura meno di un secondo, la sua bocca si apre, i suoi denti afferrano delicatamente le mie labbra e aprono un varco. Un tocco di lingua invitante, concupiscente. Poi un lampo nella mente mi sveglia da quello stato di trance.


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