Capitolo 37

FLAVIO

Delle volte accadono coincidenze inaspettate, cose che se solo avessimo avuto la lungimiranza di prevedere o calcolare, non sarebbero avvenute.

Di cosa parlo?

Parlo di Chloe e me, ad esempio.

Parlo del fatto che sono passati trecentosessantatré giorni dalla fine della mia relazione con Giuditta.

Parlo della proroga che è stata data al mio dottorato di ricerca e del contratto che il professor Milligan mi ha proposto per restare a Londra. A tempo pieno. Come docente universitario.

Quest'ultima notizia è chiaramente un punto a favore per me. E, altrettanto chiaramente, è una cosa che se avessi potuto evitare, l'avrei evitata. E sapete perché? Perché io, davvero, non so più cosa fare della mia vita. Ho timore che qualsiasi scelta possa non essere quella giusta per me. Quella in grado di restituirmi la felicità, la felicità che temo di aver perso da qualche parte.

Se questa opportunità fosse arrivata qualche mese fa probabilmente avrei firmato, senza alcun indugio, il contratto che attualmente giace in una cartella etichettata come "Materiale contrattuale Kingstone U." del mio computer. Ora, invece, ci sto pensando su come un pazzo scriteriato che non ha bene in testa la percezione di ciò che gli sta accadendo.

Io non so cosa fare.

Io non so se accettare.

Io, Falvio Solina, sto valutando, in modo assolutamente irragionevole, di tornare in Italia.

«Eccoci arrivati» pronuncia il tassista dopo aver raggiunto la destinazione indicata.

Pago la corsa, scendo dall'auto e scarico il trolley dal bagagliaio. Suono il citofono di casa, Andrea si affaccia dalla porta e mi apre.

Una volta dentro, tutto è immutato, come sempre. Mia madre è ai fornelli col suo grembiule a fiori verdi e rosa e nella stanza aleggia un delizioso profumo di lasagna. Mio padre è seduto in poltrona a guardare uno dei documentari di Historia mentre cerca di tenere a bada l'incontenibile euforia di mio nipote Filippo. Andrea è al telefono e mi sorride continuando indisturbato la conversazione. Viola, mia cognata ed ex fidanzata-stronza, sta finendo di apparecchiare la tavola e mi dà il benvenuto con il solito ciao sussurrato a fior di labbra. Sembra che abbia paura che io possa sbranarla se solo si azzardasse a interagire quel tanto in più con me. Ma va bene così, non sarei neppure io in grado di sostenere una conversazione che vada al di là dei necessari convenevoli familiari.

Il pranzo procede con la giovialità tipica della pubblicità del Mulino Bianco, quella della famiglia stucchevolmente perfetta e armoniosa. Non che non lo sia, ma se devo dirla tutta, sono io quello che stona un po' in questa sinfonia di serenità a gaudio.

Trascorro il pomeriggio a giocare a Trivial Pursuit con mio nipote, Andrea è tutto intento a risolvere piccoli problemi con un collega, a detta di lui carogna oltre ogni ragionevole immaginazione; le donne di casa sembrano essere state ingoiate in qualche stanza dell'abitazione.

Dopo cena, mentre mi offro volontario per caricare la lavastoviglie, mio fratello si avvicina per darmi una mano e mi propone: «Passeggiata in centro, ti va?».

Io lo guardo dubbioso, non so bene quanto scalci in me il desiderio di andarmene in giro per Verona, alla fine, però, mi lascio convincere.


***


Non ho ben capito in che modo la vita riesca a tessere dei nuovi rapporti con persone che ci hanno fatto tanto male. Non si tratta solo della divina capacità di perdonare, si tratta di qualcos'altro che Giuditta chiamerebbe di certo amore, o qualcosa di similare. Fatto sta che io ci sono davvero riuscito a dare una seconda possibilità a mio fratello e ora eccomi qui, a parlare con lui, di nuovo, sulla veranda di un wine bar che pullula di vita, vino e discorsi futili.

«Novità?» esordisce lui alzando il braccio e attirando l'attenzione del cameriere.

«Sì, ho ricevuto un contratto come docente alla Kingstone per il prossimo anno accademico» sputo io con nonchalance.

«Wow!» esclama Andrea sgranando gli occhi, poi, rivolgendosi al cameriere, aggiunge: «Due calici di Argiolas, grazie».

«Da quando in qua decidi tu per me?»

«E non rompere le scatole, Fla'. Bevi un buon bicchiere di vino e la vita ti sorriderà» continua con l'aria di chi trascorre l'esistenza con uno spirito nettamente più leggero di quanto non faccia io. «Anche se per far ridere la vita dovresti ridere tu per primo» continua alla fine.

«Non so se firmerò il contratto» sentenzio di punto in bianco.

Andrea si sporge in avanti, verso di me. «Stai scherzando?» E mi guarda come farebbe una persona sana davanti a un'altra persona che ha appena avuto un segno inconfutabile di squilibrio mentale.

Scuoto la testa.

«C'è di mezzo qualcosa che non so?»

«Andrea, non riesco a essere felice» mormoro con la consapevolezza che questo scatenerà tutta una serie di domande a cui non so se saprò dare delle risposte.

«La felicità non ti viene a cercare. La felicità te la devi trovare tu

Storco le labbra, la sua mi sembra una frase davvero scontata, quella che si trova quando digiti su Google Aforismi sulla felicità.

«Parli proprio tu che la felicità me l'hai rubata sotto il naso...» lo provoco.

«La tua felicità, caro fratello, già te l'eri giocata. Te la sei mai fatta una chiacchierata con Viola, eh? No, mai. E lo sai perché? Perché tu hai l'ego di un Dio. Tu pensi di essere intoccabile e sei convinto di trovarti sempre dalla parte dei giusti.»

«Non ricominciamo con i soliti discorsi...»

«Un anno fa non la pensavi così. Un anno fa la felicità e il tuo lavoro camminavano di pari passo, peccato che nel tuo concetto di felicità non avevi incluso altro a parte te stesso e la carriera. Ora che è successo? Te lo dico io, la tua coscienza sta reclamando. Sei rimasto da solo, Flavio, e la donna che ami te la sei fatta scivolare tra le dita.»

«Tu non sai niente. Smettila di giudicarmi e io non amo proprio nessuno» pronuncio irritato.

Il cameriere ritorna con due calici di vino e un vassoio di stuzzichini.

«Io ti provocherò fino a che non ammetterai gli errori. Io so, Flavio, io so tutto ciò che tu non sai. Noi abbiamo rivisto Giuditta, la scorsa estate, è venuta da noi a chiederci scusa per quello che era successo. L'abbiamo ascoltata come avresti dovuto fare tu! Nonostante gli anni e le esperienze vissute, continui a commettere sempre gli stessi errori. E questo, a mio parere, è molto più grave di un momento di debolezza, di un tradimento, di una consolazione transitoria.»

Per un attimo il cuore fa una capriola nel petto, il sangue pompa nelle vene impazzito e il desiderio di sapere, conoscere e domandare diventa l'unica necessità che sento dentro.

«Giù è venuta da voi? Perché non me lo avete detto! Come stava?»

«Un cin alla tua curiosità, fratello.» Andrea avvicina il suo calice al mio, i bordi dei bicchieri urtano generando un tintinnio lieve. Beve un sorso prima di continuare. «Vuoi sapere se stava bene? No, non mi sembrava una donna che stesse bene. Né una fedifraga che affrontava la tua assenza portandosi a letto un vecchio amante. Mi sembrava solo una donna distrutta, che ha avuto l'umiltà di presentarsi da noi, una domenica, e chiederci scusa. Mamma è scoppiata a piangere. Le vuole bene e probabilmente è stata in grado di comprendere ciò che avresti dovuto capire tu. Non ci si comporta come hai fatto, Flavio. Non si butta al cesso una storia importante senza fare domande, senza avere delle risposte, senza mettere sul piatto della bilancia anche la propria coscienza. Quando accadono queste cose, raramente l'errore è unilaterale. Te lo saresti dovuto chiedere. Probabilmente, se ti fossi posto diversamente, ora non saresti infelice come dici di essere.»

Le prospettive della vita hanno una forma sferica, sono come un mappamondo: vista da un solo lato la terra è sempre la stessa: immutabile, tediosamente identica. Se punti il dito sulla sfera e muovi con energia la mano, il globo rotea mostrandosi nella sua interezza. Allora si vedono mari immensi e continenti nascosti. Ma quel gesto, quello spingere il dito per far girare il mondo, ecco, quella è la cosa più difficile perché presuppone l'accettazione di realtà sconosciute, diverse, a volte persino ostili al nostro modo di essere.

Improvvisamente vorrei averlo fatto girare quel mappamondo, vorrei averlo potuto vedere ciò che è rimasto nascosto ai miei occhi. Vorrei, ma non posso. Non più. Non avrebbe senso, ormai.


***


Sento bussare alla porta nel bel mezzo di una conversazione silenziosa con me stesso. Chiudo la cerniera del trolley e dico: «Avanti».

Quando mi giro incontro gli occhi ambrati di Viola.

«Se sei venuta a farmi la paternale, puoi tornartene di là» pronuncio abbassando lo sguardo e trascinando la valigia vicino alla porta della stanza.

Lei mi guarda col suo visino d'angelo che, davvero, non riesco a tollerare.

Quando la sorpresi nel letto con mio fratello, sembrava tutto fuorché un angelo.

«Che c'è? Hai perso la lingua?» le chiedo notando una certa riluttanza nel comunicare.

«Sei sempre così antipatico o soltanto con me?»

«La tua presenza non la preferisco quando si tratta di fare due chiacchiere

«Sarò breve. Ma vorrei che tu mi ascoltassi...» Si siede sul bordo del letto e per quanto io desideri mandarla al diavolo e andarmene in cucina a preparare un caffè, decido di accogliere la sua richiesta.

Probabilmente sto impazzendo.

«Sentiamo, che hai da dirmi?»

«Quanti anni sono che non parliamo seriamente? Dieci, dodici o di più?»

Alzo gli occhi al cielo. «Puoi passare direttamente al nocciolo della questione o è proprio necessario ascoltare anche il prologo del discorso?»

«Ti ricordi il regalo della mia laurea?»

La sua domanda mi spiazza e devo rifletterci su un attimo prima di capire a cosa si sta riferendo.

«Tutte le mie amiche si facevano regalare borse super griffate, orologi o gioielli. Una del mio corso scartò un Rolex. Io chiesi un viaggio a Parigi per due, con te, ovviamente. Mia madre ti coinvolse personalmente per la scelta dell'albergo, la data di partenza e ritorno, insomma, tu facevi parte del regalo. Questo è uno di quei discorsi che avrei voluto fare tanto, tanto tempo fa. Ma il dottor Flavio Solina non aveva tempo, latitava, un attimo prima c'era e quello dopo era troppo impegnato. Però io lo amavo, nonostante tutto. Eppure, quella volta, quel viaggio mi è rimasto impresso nella memoria come qualcosa di dolente e irrisolto. Era un martedì quando mi dicesti che c'erano problemi. Che quella settimana non potevi più prenderla, che il tuo professore ti aveva affidato un compito importante.

Quanto ero importante io? Evidentemente poco. Dovetti trovare un rimpiazzo per il viaggio. Fu bello, sì. Ma guardai Parigi con occhi diversi. Dormii in un albergo da duecento euro a notte con la mia amica, non con te. Visitai la città con il magone di chi avrebbe voluto condividere certe esperienze con una sola persona. I miei interessi e il mio entusiasmo avevano perso smalto. Quella settimana io soffrii, eppure non ti dissi nulla. Ma se c'è una cosa che ho imparato è che la tolleranza prolungata ha un prezzo. Che la tua ossessione per te stesso e per i tuoi successi mi avrebbe portato a fallire, lo scoprii qualche tempo dopo, quando alle tue mancanze si sostituirono le attenzioni di Andrea. Così, spontaneamente, senza nessuna premeditazione. Nessuno di noi due voleva farti male, abbiamo sbagliato e per questo ti chiederò perdono per tutta la vita. Quello che non voglio che tu faccia, però, è sbagliare ancora. Stai commettendo lo stesso errore di sempre. Non esisti solo tu, Flavio. Le relazioni vanno considerate seriamente quanto il proprio lavoro. L'amore, quando si sceglie di amare qualcuno, va custodito come un oggetto prezioso. Giuditta era il tuo oggetto prezioso?»

Nella stanza scende il silenzio. Un silenzio un po' imbarazzante, a essere sincero. Resto impalato a guardare la punta delle mie scarpe, incapace di alzare gli occhi e reggere lo sguardo di Viola anche solo per un secondo. Me lo ricordo il suo viaggio a Parigi. Era tornata a Milano che mi sembrava felice. Evidentemente non lo era, no. E chissà quante altre volte non lo è stata.

«Puoi rispondermi per favore?» insiste posando la sua candida mano sul mio braccio. Pur nella sua ostinazione, la voce di Viola non riesce mai a perdere quell'intercalare delicato, quasi insicuro.

Allora prendo coraggio e alzo gli occhi, devo avere uno sguardo affranto perché negli occhi di lei leggo un certo tipo di pena.

«Giuditta era il mio oggetto prezioso» pronuncio piano, flebile, spaurito all'idea di ammettere a me stesso questa cosa.

«Non è troppo tardi, forse...» mormora.

Torno in me, in un secondo.

«Troppo tardi per cosa?» chiedo pensando che sia assolutamente irragionevole anche solo pensarlo, perché io lo so dove vuole arrivare lei.

«Non è troppo tardi per ammettere di aver sbagliato. Probabilmente quando lo farai, quando riuscirai a capire che non sei prefetto, che gli errori fanno parte della vita tanto quanto i successi, allora tornerai a essere l'uomo che ho conosciuto io, e l'uomo che Giuditta ha amato tanto.»

Mi alzo, lentamente. Afferro la giacca sulla sedia di fronte alla scrivania.

«Devo andare o perderòl'aereo» dico in una specie di stato ipnotico.    

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