Capitolo 3
CHLOE
Piove. Come sempre. Il taxi si ferma dinanzi all'entrata di un ristorante di lusso, d'altra parte mia madre non poteva certo abbassare i propri standard. Quando scoprirà che non ho fasciato il mio minuto corpicino in qualche completo elegante, Mary Anne Harrison, mia madre, rischierà un malore. E potrei quasi esserne felice.
La vedo subito, ingessata in un abito crema e ingioiellata a tal punto da sembrare una vetrina ambulante di Cartier; e Dio solo sa quanto Mary Anne Harrison ami Cartier. Accanto a lei c'è mio padre, Paul MacLean. Un uomo talmente alto e robusto da sembrare un giocatore di rugby, io non ho ripreso dalla sua fisicità proprio nulla; le mie forme androgine e la mia statura contenuta sono l'esatto riflesso di mia mamma.
Cammino a grandi falcate, quasi dondolando sui tacchi. Ho deliberatamente scelto un abbigliamento casual che mia madre, sono certa, criticherà immediatamente, facendo eccezione solo sulla scelta delle scarpe, più per non rischiare di avere il divieto d'ingresso al ristorante, che per compiacere la mia insopportabile mammina. Come volevasi dimostrare, non appena gli occhi scuri di Lady Mary Anne si posano sulla mia figura, una smorfia di disappunto si disegna sopra il viso accuratamente incipriato.
«Elizabeth, non avevi proprio nient'altro da indossare?» dice infierendo con la sua solita aria da mamma despota.
Si sofferma a studiare i miei jeans scuri. Dovrebbe quantomeno ringraziarmi per aver scelto il più discreto, se avessi dato retta alla mia naturale inclinazione nel disubbidirla, di certo avrei optato per il jeans più imbarazzante presente nel mio armadio.
«Ciao, mamma» le rispondo io, prestando poca attenzione al suo commento.
Accanto alla sedia destinata a me c'è Matthew, mio fratello. Anche il suo nome ha una diretta discendenza di natura religiosa. Per lui mia madre ha tratto ispirazione dall'apostolo Matteo, probabilmente considerandolo un Dono di Dio, data l'etimologia del nome. Ovviamente, mio fratello, a parte la bellezza, di divino non ha nient'altro. Trentottenne, scapolone, dannatamente attraente e altrettanto dannatamente amante delle donne.
Subito dopo aver preso posto sento le labbra di Matt stamparmi un sonoro quanto affettuoso bacio sulla guancia. Gli lancio le braccia al collo, quasi soffocandolo, e inspirando i litri di Invictus che ama spruzzarsi addosso.
«Mi sei mancato Matt» gli sussurro all'orecchio e subito dopo mi scosto dalla sua presa per scrutarlo in viso. Ha la carnagione abbronzata dalle settimane trascorse sotto il sole di Miami, quel colorito ambrato si sposa da dio con i capelli biondi e gli occhi di un verde talmente intenso da sembrare malachite.
«Complimenti per il dottorato, tesoro. Quando cominci?» chiede pizzicandomi amorevolmente la guancia.
«Domani ci sarà la presentazione ufficiale con la squadra di ricerca.» Sposto lo sguardo su mio padre che mi osserva fiero, come sempre. Cerco, al contrario, di non intercettare gli occhi di mia madre che, sono sicura, saranno il riflesso della delusione.
«E dimmi, Elizabeth, quanto tempo passerai rinchiusa in laboratorio come un topo da esperimenti?» interviene lei con aria di superiorità, puntando gli occhi sopra la superficie laccata delle sue unghie.
«Più o meno talmente tanto tempo da diventare un topo da esperimenti, mamma.» Secondo gli strampalati, quanto egoistici, calcoli che aveva fatto durante i miei anni dell'adolescenza io sarei dovuta diventare un'esperta in economia, per onorare la grande attività imprenditoriale di famiglia in piedi da generazioni, o la violinista. Mia madre è stata una violinista in gioventù ma non ha mai raggiunto il successo e la carriera sperati. Sono consapevole che il suo desiderio non era altro che una malata proiezione su di me per sopperire alle frustrazioni della sua esistenza.
«Mi chiedo perché tu non abbia scelto una specializzazione più ambiziosa» continua.
«Genetica medica, mamma, è una specializzazione ambiziosa. Io cerco cure per malattie che colpiscono anche bambini appena nati.» So di averle appena tirato in petto una stilettata con i fiocchi.
Perdonami Luke, non voglio strumentalizzarti.
La morte prematura di mio fratello è stata una grande perdita per la nostra famiglia, aveva solo dieci anni e io ne avevo appena compiuti sei.
«Basta voi due!» interviene mio padre cercando di ristabilire una parvenza di tranquillità.
Lei stringe gli occhi, preme con le dita la base del naso e posa lo sguardo su Matt. Sembra esausta. Ed è proprio in questi momenti che mi chiedo quale sia il gene malato che rende alcune donne così naturalmente non predisposte a ricoprire il ruolo di madri. Magari, tra qualche anno, mi cimenterò nello studio dei cromosomi delle mamme stronze. Magari studierò proprio quelli di Lady Mary Anne, la capostipite di questa categoria.
«Matthew, tesoro, tu hai qualche bella novità?» riprende a parlare, spostando l'attenzione su mio fratello. Quel tesoro mi causa ogni volta un dolore in petto. Io per mia madre non sono mai, e dico mai, stata soprannominata tesoro. Solo Elizabeth o, nel peggiore dei casi, Chloe Elizabeth.
«Non te l'ha detto papà?»
«Cosa? Paul, caro, cos'è che non mi hai detto?»
Vedo luccicarle gli occhi nella speranza che mio fratello abbia finalmente trovato una donna. Una donna da sposare, non una con la quale fare maratone di sesso al letto. E Matt è esperto solo ed esclusivamente in quel tipo di attività.
Come si può biasimarlo?
È un imprenditore in carriera con il conto in banca ricco di zeri, una simpatia magnetica e il corpo di un surfista. Le donne si farebbero impalare per lui.
«Matt sta negoziando la fusione dell'azienda con la Global Energy, e se la trattativa avrà esito positivo apriremo una filiale in Florida» risponde mio padre. Lady Mary Anne storce il naso, ovvio che desiderava ottenere informazioni diverse.
«Papà, credo che per "bella novità" mamma intendesse... qualche elegante, educata e colta femmina da ingravidare...» sputo di colpo io. È risaputo che mia madre desidera dei nipoti, tutte le sue ricche e antipatiche amiche hanno degli adorabili marmocchi da torturare e Lady Mary Anne non vuole sentirsi inferiore a nessun'altra donna dell'alta società.
Il tallone di Matt mi colpisce dritta sullo stinco e per poco non mi strozzo con la saliva.
«Elizabeth!» Lady Mary Anne sembra stizzita ma non lo dà a vedere troppo perché non sarebbe educato, signorile, aristocratico, bon ton.
«Magari ti sposerai prima tu, Chloe... e farai tanto felice la mamma!» spara tutto d'un fiato Matt, forse per stemperare la tensione.
Mia madre si irrigidisce ancora una volta, ma l'effetto rattrappito − come definisco io lo stato di Lady Mary Anne quando contrae il busto innaturalmente − dura solo qualche secondo e svanisce definitivamente al suono delle mie parole: «Impossibile, Matt. Impossibile.»
Viene servito l'antipasto e i nostri calici riempiti di vino bianco, mangiamo composti e imbalsamati come rari esemplari di rane immerse nella formaldeide, mentre mia madre non fa che elogiare le straordinarie capacità imprenditoriali di mio fratello che, dal canto suo, mi lancia occhiate d'intesa ogni volta che mi sorprende a soffocare l'ennesimo sbadiglio.
Alle undici lasciamo il ristorante, e a me sembra quasi di non sentire più sulle spalle la zavorra che pesa come una condanna a morte, la condanna di non potermi esprimere per come sono davvero davanti all'unica componente della famiglia che avrebbe il compito di sostenermi, incoraggiarmi e farmi sentire amata.
Prenoto un taxi per tornare a casa, ma un attimo prima che io pronunci l'indirizzo della mia abitazione arriva un messaggino. Ethan mi vuole tutta per sé stanotte.
«32 Burton Street» pronuncio, convincendomi che una nottata a casa di Ethan sarà la soluzione migliore per ristabilire livelli accettabili di endorfine.
***
Amo definire Ethan un poeta maledetto, in realtà anche lui ama nominarsi tale soprattutto per l'effetto che l'aggettivo maledetto sortisce sul genere femminile. Di Ethan non ho ancora ben capito cosa mi piaccia, probabilmente quella strana mescolanza di bizzarria ed eclettismo tipica dei letterati di un tempo.
Sono necessari venti minuti di viaggio per raggiungere il quartiere di Bloomsbury, una zona al confine nord del West End. Ethan mi apre la porta in boxer, tenendo in una mano il gambo di un calice traboccante di vino rosso.
«Avresti dovuto aprire del vino bianco, lo sai che lo preferisco» pronuncio io restando attaccata con il fianco allo stipite della porta.
«Ho finito il vino bianco...» sussurra avvicinandosi alla mia bocca per poi azzardare un bacio più casto del solito. E potete credermi sulla parola che Ethan è tutto fuorché casto.
Conobbi Ethan tre mesi fa alla fermata della metro. Aveva con sé una valigia e una piccola agenda in pelle; era tutto intento a scrivere e io rimasi a fissarlo per un po', incuriosita dal suo aspetto così fuori dal comune. Indossava un trench tortora e portava in testa un berretto in tweed che persino mio nonno avrebbe considerato fuori moda. Salimmo sulla metro occupando gli unici due posti disponibili, uno di fronte all'altra, e Ethan si accorse subito dell'insistenza che avevo nell'osservarlo.
«È tanto strano vedere qualcuno scrivere?» mi chiese.
Sgranai gli occhi e scoppiai a ridere. Ethan corrucciò la fronte e per un istante temetti che ci fosse rimasto male per la reazione che avevo avuto.
«Non mi piacciono i tablet, però so usare i cellulari» continuò, estraendo dalla tasca del suo trench un iPhone. Gli occhi stretti e chiari di Ethan mi trafissero immediatamente. Aveva l'aria di un poeta bohémien, quando scese alla mia stessa fermata e accese una sigaretta, ebbi la conferma di avere davanti una specie di Baudelaire dei nostri tempi. Appuntai il mio numero di telefono sopra la sua agendina di pelle e la stessa sera uscimmo insieme. Dopo il nostro primo incontro la nostra conoscenza continuò tra alti e bassi, alternando settimane di intensa frequentazione ad altre di totale astinenza. Ma a me sta bene così, trascorrendo le notti a fare l'amore e ad ascoltare le teorie di Ethan sulla vita, senza grosse aspettative, senza porci degli obiettivi comuni. Le nostre assenze reciproche servono ad alimentare la passione e sono la dimostrazione che l'amore non è altro che una tormenta passeggera; la tormenta ci travolge e ci scuote facendoci vedere tutto ciò che normalmente resta immobile ai nostri occhi. Ma passata la tormenta, torna la pace e di quel fervore d'animo resta ben poco.
Ora credo di trovarmi verso la fine di quellatempesta, nel punto esatto in cui pioggia e sole si incontrano, e dentro di meinizia il distacco, un distacco involontario ma inevitabile.
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