Capitolo 27
FLAVIO
L'abbraccio d'istinto, senza pensare troppo se sia giusto o sbagliato. Per la prima volta dopo molto tempo, faccio una cosa che infrange le mie regole e il principio per il quale gli slanci empatici siano, secondo i miei schemi mentali, da dosare con accuratezza, specialmente con le persone di cui conosco poco.
Chloe sprigiona un'immensa tenerezza, leggo nei suoi occhi una malinconia che non le è mai appartenuta fino a ora, almeno per quanto io la conosca.
Così, con un abbraccio, raccolgo a modo mio le sue lacrime, il suo sfogo, e l'ansia che le traspare negli occhi e che manifesta la paura di essere giudicata da me in qualche maniera, perché, anche se sta cercando di negarlo con tutta sé stessa, Chloe McLean teme il giudizio degli altri come qualsiasi essere umano a questo mondo. E per quanto io l'abbia valutata negativamente in passato, non riesco a trattenere il pentimento. Ora, parlando con lei, mi pare di vedere qualcuno molto simile a me, che per proteggersi dalle delusioni, finge di essere una persona diversa: io rigido e inflessibile, lei ribelle e anticonformista.
Lascio la tenuta McLean dopo il tè, quando la presenza della signora Mary inibisce qualsiasi tipo di interazione tra me e Chloe. Ho la netta sensazione che i rapporti tra madre e figlia non siano proprio idilliaci. La ragazza è tesa e fredda, Mary Anne, invece, sembra accomodante e premurosa a tal punto da sembrare forzata.
***
Gli impegni lavorativi non mi permettono di andare a trovare Chloe frequentemente.
La settimana dopo il nostro primo incontro decido di tornare da lei, questa volta provo direttamente a chiamarla e, contro ogni mia più rosea aspettativa, mi risponde al telefono.
«Che vuoi?» dice.
Ammetto che il suo tono non è certo dei più dolci, ma già il fatto che la mia telefonata non sia stata rifiutata, mi dà il coraggio di chiederle: «Ti andrebbe una passeggiata?»
«Non posso camminare, te lo sei scordato?»
«Cammino io, tu resti seduta, era sottinteso.»
«Non mi va.»
«Posso venire a trovarti anche se mi dirai di no?»
«Cos'è, mi stai corteggiando? Ti avverto che non sono interessata.»
«Non ti sto corteggiando, Chloe, mi piacerebbe parlare, se ti va.»
«La mia risposta è no!»
Mi presento ugualmente. Lei si infuria. In un contesto diverso l'avrei mandata al diavolo, in questo frangente non ci riesco perché la ragazza è comprensibilmente vulnerabile, piccola e fragile come un fiore primaverile nato per sbaglio nel bel mezzo dell'inverno.
«Mi piacerebbe vedere il giardino.» La mia proposta per nulla originale.
«Esci da questa stanza, prosegui lungo il corridoio, attraversa la sala, apri il portone e te lo troverai davanti.»
«Stai cercando di punirmi?»
Chloe si volta e mi fulmina con gli occhi. «Pensi di meritare una punizione?»
«Non lo so, dimmelo tu.»
«Scendi dal piedistallo, non sei così importante, Flavio.»
Mi avvicino alla carrozzella. Lei mi dà una spinta prima ancora che io riesca ad afferrarla.
«Non. Ci. Provare. Ho detto che non mi va, chiaro?»
Restiamo nella stanza a riempire il tempo con un silenzio decisamente imbarazzante, quando capisco che è arrivato il momento di sloggiare, me ne vado, convinto che, prima o poi, riuscirò a persuaderla.
Torno da lei altre volte, beccandomi altrettante porte in faccia; cosa mi renda tanto resistente ai suoi rifiuti è la folle certezza che lei abbia bisogno di qualcuno che la faccia arrabbiare, che le conceda quella scarica di adrenalina in grado di farla sentire viva nonostante le limitazioni.
***
È ottobre quando, irrompendo in casa sua, la trovo tutta assorta nel tentativo di alzarsi dalla sedia a rotelle. Mi precipito accanto a lei reprimendo il desiderio di urlarle: "Fermati!"
«Chloe, sei impazzita?» la rimprovero afferrandola sotto le braccia e cercando di rimetterla a sedere.
«E bla bla bla...» mi scimmiotta. «Il fisioterapista dice che devo insistere.»
«Si, ma...»
«Sta' zitto! Se vuoi fare qualcosa di utile, allora aiutami a stare i piedi!» mi zittisce.
L'assecondo avendo cura di non lasciarla mai, ha le gambe sottili come ramoscelli ma ce la mette tutta per vincere lo sforzo e mantenersi in equilibrio.
«Sembri Ariel dopo la trasformazione da sirena a umana.»
«E tu non assomigli per niente al principe Eric.» Chloe mi fa una smorfia e io rido.
Si aggrappa a me e facciamo per due volte il giro della stanza.
«È imbarazzante dover ricominciare a camminare appesa a qualcuno dopo ventotto anni di autonomia.»
Sento le sue piccole dita affondare nella mia carne malgrado la stoffa della camicia.
«In effetti...» mormoro prima di girare il viso verso il suo. I nostri volti sono vicini, ci scambiamo uno sguardo che pare una bandiera bianca appena alzata, una specie di armistizio dopo la guerra che ci siamo fatti.
Sua madre irrompe nella stanza quando stiamo per raggiungere una poltrona dove Chloe mi ha detto di volersi sedere.
«Santo cielo, Chloe! No! Non sei pronta per camminare!» esordisce la signora Mary.
«E chi lo dice, tu o il mio fisioterapista?»
Si abbandona sul sofà esausta e prova ad accavallare le gambe aiutandosi con la mano per incastrare un arto sull'altro, poi alza gli occhi su di noi come per dire: "siete un patetico esempio di miscredenti".
Il fine settimana successivo rinvio il mio rientro in Italia, non so perché lo faccio, ma ho l'impressione che la mia presenza a Londra sia più importante.
Il sabato stacco dal lavoro all'ora di pranzo, mangio qualcosa al volo e decido di comprare dei dolcetti e presentarmi da Chloe.
Quando mi vede con la scatola in mano, le brillano gli occhi.
«Tua madre ti tiene a dieta?» la stuzzico.
«No, ma non è una fan delle pasticcerie, con la menopausa il metabolismo rallenta...»
Beviamo il solito tè, Chloe fa una scorpacciata di dolcetti e mentre è impegnata a gustarsi l'ultimo, mi chiede: «Ti andrebbe di accompagnarmi in un posto?»
Le sorrido, semplicemente. Lei capisce che il mio è un sì pronunciato in silenzio.
Quando raggiungiamo il cimitero non realizzo il perché di questa meta, e un brivido mi attraversa la schiena. Per un istante penso che Chloe voglia farmi uno scherzo di pessimo gusto. L'aiuto a sedersi sulla sedia a rotelle e spingo fino a che lei non mi dice di fermarci.
Sulla mia destra una lapide di granito bianco ha inciso il nome di Luke McLean.
«Aiutami a tirarmi su» comanda perentoria.
Ubbidisco, Chloe si mette in piedi con facilità, i suoi muscoli diventano ogni giorno più forti, spinge il busto in avanti e facendo leva sulle braccia poggiate sopra la lastra di granito, si mette in ginocchio.
«Ah, la terra è umida, Luke. Quanto mi sei mancato...» pronuncia accarezzando le lettere sulla lapide.
Segue qualche minuto di silenzio, io rimango impalato a osservare la scena.
Comprendo che Chloe vuole rimettersi in piedi quando alza il braccio muovendo la mano verso di me. L'afferro sotto le ascelle e tiro su il corpo leggero, la metto a sedere e mi accorgo, avvicinandomi al suo viso, che ha gli occhi lucidi.
«Lui è mio fratello» pronuncia.
Ingoio un blocco di saliva, sono totalmente incapace di gestire la situazione. Chloe lancia un bacio a Luke, poi fa marcia indietro con la carrozzella e prosegue in direzione dell'uscita. Corro verso di lei per aiutarla e nel breve tragitto che ci separa dall'auto, mi racconta la storia.
«È per lui che ho scelto il ramo della ricerca genetica, per dare il mio contributo e riscattare, per quanto possibile, il suo sacrificio. Mio padre finanzia il nostro dipartimento dall'anno in cui nacque Luke, la diagnosi fu veloce e senza speranza. Io sono cresciuta con la sua malattia e tutte le limitazioni che gli imponeva. Gli volevo un bene molto più che fraterno, la sua fragilità mi rendeva estremamente protettiva, e poi era dolce, di una dolcezza simile ai cherubini. Mi va di pensare che fosse destinato agli angeli, che il suo scopo ultraterreno fosse di gran lunga più bello della vita su questa terra. Ma la mancanza, Flavio, quella non la riempi con niente.»
«Mi dispiace, Chloe» mi limito a dire.
Si asciuga gli occhi con il dorso della mano, poi mi chiede di restare un altro po' all'aperto prima di andare via. Senza proferire parola, mi siedo su una panchina e restiamo a guardarci entrambi con le mani conserte, come se stessimo valutando con attenzione il tema della prossima conversazione.
Tutt'a un tratto, Chloe si passa le mani sopra le ginocchia sporche di terra, alza il viso e sorride prima di cominciare a parlare: «Luke stava spesso sulla sedia a rotelle, specialmente nell'ultimo periodo, quando la stanchezza era cronica e la bombola di ossigeno era fondamentale per la sua sopravvivenza. In questi mesi ho pensato molto alla sua condizione per trovare il coraggio di affrontare la mia che, tutto sommato, non è così grave. Voglio dire, guarda...» lentamente alza la gamba destra e poi la rimette a posto, «io posso muovermi e lo farò ancora, la mia situazione è reversibile, eppure basta davvero poco, un lieve cambiamento nella vita per sprofondare nella depressione».
«Sei una persona, Chloe, non sei una macchina. Non puoi razionalizzare tutto.»
«Ma dai? Sei proprio tu a dirmelo, il re della pragmaticità e della razionalità. Che ti è successo?»
Alzo gli occhi al cielo. «Se c'è una cosa che ho capito con te è che si può imparare molto dagli altri. Vivere di riflesso le esperienze di persone che ci stanno a cuore può essere illuminante, Chloe.»
«Ti sto a cuore, dottor Solina?»
«Sì, credo proprio di sì, dottoressa McLean.»
***
Diversi giorni dopo, mentre sono in laboratorio a discutere con John degli ultimi risultati delle ricerche, sento vibrare il telefono nella tasca del camice.
«Scusa un attimo...» Afferro il cellulare e leggo sul display il nome della signora McLean, allora esco dal laboratorio e rispondo.
«Dottor Solina, buongiorno.» Mi raggiunge la voce limpida e decisa di Mary.
«Lady Mary Anne, buongiorno a te. A cosa devo questa telefonata?» chiedo colto dal timore che possa essere accaduto qualcosa a Chloe.
«Hai già impegni per il pranzo?»
Guardo l'orologio al polso e rispondo: «Nessun impegno in particolare».
«Allora posso invitarti a pranzo fuori? Avrei bisogno di parlarti.»
«Spero nulla di preoccupante...»
«Puoi stare tranquillo, Flavio. Ti aspetto in un ristorante poco distante dal campus universitario, ti invio un messaggio con il nome e l'indirizzo.»
«Non credo di riuscire a liberarmi prima delle tredici, però.»
«Per me non ci sono problemi, ti aspetterò lì. A dopo.»
Riaggancio e torno a lavoro, per le restanti tre ore provo a immaginare quale potrà essere l'argomento di conversazione.
Alle tredici e venti mi ritrovo dinanzi all'entrata di un ristorante italiano. Il locale ha un'aria demodè, pavimento a scacchi e muri con piastrelle bianche dalla forma diamantata. I tavoli sono di legno grigio e le panche di diverse tonalità pastello.
Intercetto la figura di Lady Mary Anne al centro della sala, comodamente seduta mentre consulta la carta dei vini.
«Buongiorno, Flavio» mi dice non appena avverte la mia presenza di fronte a lei. Il viso le si illumina con un sorriso disteso che credo di non averle mai visto.
«Buongiorno a te.»
Tolgo la giacca e prendo posto.
«Mi sono permessa di ordinare un calice di vino anche per te, Flavio.»
«Oh, grazie.»
Sto aprendo la salvietta e posizionandola sopra le gambe, quando arriva il cameriere con i menù. Mary apre subito il suo e lo sfoglia distrattamente, poi parla: «Voglio ringraziarti per tutto quello che hai fatto».
Io rimango a guardarla sorpreso, non credevo di meritare dei ringraziamenti.
«Non ho fatto nulla in più di ciò che avrei dovuto. L'unica differenza è che l'ho fatto con piacere e non solo spinto dal senso di colpa nei confronti di Chloe.» Emetto una voce delicata, quasi spaurita. La verità è che non ho mai davvero ammesso a me stesso il fatto che il mio aiuto nei confronti di Chloe fosse nato come un dovere, evolvendo poi in qualcosa che faccio ancora fatica a catalogare.
Tenerezza? Affetto? O semplice amicizia?
«Lo so, proprio per questo ho sentito il bisogno di dirtelo. Temevo che Chloe non si sarebbe ripresa così, è sempre stata una ragazza particolare, esuberante e testarda. Questo incidente l'ha cambiata molto e francamente ho avuto paura che non si riprendesse.»
«A me sembra che la vecchia Chloe non sia mai andata via, solo che aveva bisogno di... non saprei, attenzioni? Magari premura dopo il distacco dal lavoro e dai suoi punti di riferimento...»
Arriva il cameriere pronto per l'ordinazione; improvvisiamo, su due piedi, scegliendo entrambi un secondo a base di carne e verdure grigliate.
«Non sono molto brava a interpretare mia figlia, ci sono cose riguardo al nostro rapporto che non sai e che ho persino paura ad ammettere io stessa.» Lo sguardo della signora McLean vira verso il basso e in quell'istante ho l'assoluta certezza che le mie sensazioni in merito alla presenza di tensioni nel rapporto tra madre e figlia non siano delle semplici supposizioni prive di fondamento.
«A dire il vero, Mary,» e nel pronunciare queste parole intreccio le dita delle mani e mi sporgo in avanti verso di lei, «avevo avvertito una certa tensione tra voi. Non so di cosa si tratti ma credo che Chloe abbia bisogno di lei più di quanto non voglia ammettere.»
Lo sguardo di Lady Mary Anne si spalanca mettendo in bella mostra due gemme luccicanti.
«Ti ha parlato di... me?» Il tono che usa sembra quello di una mamma incerta e preoccupata, più che per le sorti della figlia, di sé stessa, di ciò che avrebbe dovuto affrontare dopo una mia eventuale confidenza.
Torno con le spalle sullo schienale della panca. «No, di lei non mi ha detto nulla, però mi ha raccontato di Luke.»
Al solo sentire quel nome la signora McLean deglutisce a fatica, come se la malinconia le si fosse condensata tutta in gola, ma subito dopo subentra un'espressione delusa. Probabilmente si aspettava che io le rivelassi altro.
«Non sono un esempio di madre modello, ho sempre agito con rigore e severità per cercare di crescere Chloe nel miglior modo possibile. Lei mi è sempre sfuggita di mano, deviando la direzione che io avrei voluto prendesse.»
«Permettimi di dirti una cosa, Mary, i figli appartengono alla vita, più che ai genitori...» pronuncio, lasciando di stucco persino me stesso.
La donna sposta le braccia dal tavolo e lascia che il cameriere poggi davanti a lei il piatto, poi alza lo sguardo per incrociare il mio e abbozza un sorriso che non sembra poi molto convinto di ciò che mi sono permesso di dirle un attimo fa.
«Vuole andare via di casa. Vuole tornare a vivere da sola, ma non credo che sia ancora pronta. Ha ricominciato a camminare da poco e ho paura che non possa farcela.» Devia il discorso.
«Ce la farà, invece. Buon appetito, Mary» pronuncio.
«Buon appetito a te» risponde lei.
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