Capitolo 23
FLAVIO
Raggiungo l'ospedale e mi precipito al Triage a chiedere informazioni, ma non sono autorizzati a darmene. Impreco come un pazzo cercando di spiegare all'infermiere che sono un medico e che lavoro anche io lì. L'operatore mi snobba e passa alla persona dietro di me.
Allora mi raggiunge
un'illuminazione: chiamare il professor Milligan. Lui può aiutarmi, persone della sua elevazione sociale e culturale hanno sempre qualche asso in più nella manica da sfoggiare nel momento del bisogno. E io ho un bisogno disperato di vedere Chloe, di sapere che non è in pericolo di vita, di avere la certezza che quell'incidente non le causerà danni permanenti.
«Flavio, buonasera, che succede?»
«Professor Milligan, la dottoressa Mc Lean ha avuto un incidente. Sono in ospedale ma non riesco ad avere informazioni. La prego, mi dica che può aiutarmi.» Il mio tono trasuda disperazione e paura. Per la prima volta nella mia vita non riesco più a essere padrone delle mie emozioni, mi sento non solo responsabile dell'accaduto ma anche dannatamente impotente. Non ho il controllo della situazione e io non sono abituato a non averne.
«Santo cielo, Flavio, fammi fare una telefonata. Ti richiamerò appena saprò qualcosa.»
Mi abbandono sulla prima sedia che mi capita a tiro, le braccia smorte, lo sguardo vitreo. Quando sento arrivare una donna chiaramente agitata e sul punto di avere un crollo nervoso, mi avvicino. Pronuncia il nome di Chloe, a quel punto mi precipito accanto a lei. È un'elegante signora intorno ai cinquant'anni dalla corporatura esile e l'andamento sofisticato. Gli occhi sono verdi, più verdi di quelli della figlia, ma con lo stesso taglio, i capelli color del grano.
«Signora McLean?» mi azzardo a sfiorarle il braccio sfidando tanta austerità. La donna si volta e mi resta a guardare senza comprendere chi possa essere.
«Sono il dottor Solina, lavoro con Chloe.»
Quel volto teso non tradisce emozione, resta fermo, impenetrabile, però il terrore riesco a leggerglielo nello sguardo.
«Mia figlia...» balbetta e il suono che le esce dalla bocca è in netto contrasto con la solennità che la sua figura manifesta.
«Lo so, ero con lei. Ho bisogno di sapere come sta, la prego mi faccia salire ...» la supplico.
Annuisce, subito dopo le squilla il telefono e si allontana più in là di qualche passo.
Quando arriviamo al piano indicato dall'operatore del Triage, ci accoglie un medico.
Chloe ha subito un grave trauma cranico e al momento è in sala operatoria. Ha riportato diverse fratture e una lesione della spina dorsale di cui non sono ancora in grado di stabilire l'entità, per ora la priorità è quella di arrestare l'emorragia interna.
Al suono di quelle parole, la signora McLean sbianca e l'espressione austera si smorza in un attimo. Resta solo il ritratto di una madre debole e angosciata.
Trascorrono cinque ore. Cinque ore di silenzio e tormento. Poco prima che Chloe esca dalla sala operatoria, ci raggiunge il signor Paul McLean, suo padre. Era fuori città e una volta appresa la notizia, ha preso il primo volo disponibile.
«L'intervento è stato complicato, le lesioni interne erano estese, al momento la prognosi è riservata. Restiamo a vedere come si evolverà la situazione, le prossime ore saranno le più importanti.» Queste le parole del chirurgo.
Restiamo avvolti in un silenzio che fa paura.
Cosa si prova a restare in bilico tra la possibilità che una persona viva o muoia?
Ve lo dico io. Si prova un orrore acuto, un dolore che manda in tilt il cervello, in quel momento qualsiasi altro tipo di pensiero, di problema, di priorità diventa una bazzecola, una sciocchezza uno stupido capriccio. La speranza si trasforma nell'unica ragione di vita.
***
Il giorno dopo vengo a sapere che Chloe è entrata in coma.
Dopo la notizia provo il desiderio di scappare e assentarmi dal lavoro fino a data da destinarsi, per custodire in silenzio e solitudine il senso di colpa che, davvero, non mi lascia tregua.
Ma so che non posso farlo.
Le ore in laboratorio scorrono nel più completo mutismo. Nessuno parla, nessuno chiede ma io leggo sulla bocca di tutti le domande: "È stata colpa sua, dottor Solina?"; "Chloe si riprenderà?"; "E se non dovesse svegliarsi dal coma?"
Tutte le responsabilità si concentrano su di me e il senso di colpa mi schiaccia.
Ogni giorno, dopo il lavoro, vado in ospedale. Resto per minuti interi a guardare Chloe stesa sul letto di una camera sterile, attaccata a fili e tubicini, monitor accesi, una sequenza continua di bip, righe verdi, numeri, pulsazioni.
Chiedo alla signora Mary Anne di tenermi aggiornato, le lascio il mio numero pregandola di chiamarmi a qualsiasi ora del giorno e della notte, per qualsiasi necessità.
Lei non pone obiezioni, mi ringrazia persino.
La sera, quando rientro nel mio alloggio, mi torturo in solitudine chiedendomi che cosa io abbia fatto per meritare tutti i drammi che negli ultimi due mesi si sono scatenati nella mia vita.
Sono trascorsi cinque giorni dall'entrata in coma di Chloe e io non riesco più a tollerare il peso di questo fardello che tengo sulle spalle. Chiamo la signora McLean e le propongo di vederci, ho bisogno di parlarle.
Ci incontriamo in un bar poco distante dall'ospedale, la signora Mary Anne arriva puntuale. È vestita con cura e truccata meno del solito, nonostante io la conosca da pochi giorni mi sono accorto di un repentino mutamento, i suoi occhi sono velati di un alone grigiastro, la pelle spenta, il sorriso solo di circostanza.
«Le devo parlare dell'incidente, signora McLean» esordisco una volta seduti.
«Che succede? E ti prego, chiamami Mary, non serve darci del tu.»
«Mi sento colpevole per quello che è accaduto a Chloe. Io l'avevo umiliata davanti a tutti, punendola per non avermi consegnato un compito nei tempi previsti. Be', sua figlia mi aveva fatto arrivare una lettera di dimissioni, il giorno dell'incidente ero andato da lei per chiederle scusa e dissuaderla dalla decisione di rinunciare al progetto. Chloe si era agitata e pur di liberarsi in fretta dalla mia presenza, aveva attraversato la strada senza guardare.»
Lo sguardo di Mary, in prima battuta accigliato, si distende al termine della mia rivelazione che, a quanto sembra, non l'ha scossa nella misura in cui credevo.
«Flavio, non è colpa tua» pronuncia allungando le mani a raccogliere le mie. Le osservo con attenzione pur di tenere sotto controllo la mia emotività che rischia di essere messa a dura prova ogni minuto di più. Scruto le sottili vene che traspariscono dalla pelle chiara, le efelidi che ne ricoprono la superficie e qualche solco che rende nota l'età della donna.
Alzo gli occhi senza allentare la rigidità delle labbra. «Non avrei dovuto, se non fossi stato tanto severo con lei tutto questo non sarebbe accaduto» ammetto.
«Con i se e con i ma non si fa la storia. Me lo diceva sempre Chloe quando era un'adolescente e io non ho mai preso in considerazione quelle parole come invece avrei dovuto. Aveva ragione e lo direbbe anche a te ora, se potesse.»
Non so cosa rispondere. Questa reazione accondiscendente, però, non riesce a tranquillizzarmi come vorrei.
«Ci sono cose, Flavio...» si schiarisce la voce prima di continuare. «Ci sono cose che non sai, Chloe è sempre stata una ragazza dalla vivacità spiccata, difficilmente si riesce a controllarla. È una sua peculiarità che io ho sempre cercato di domare in qualche maniera. Non potrei mai accusarti di nulla, non è colpa tua dell'accaduto. Ora possiamo solo pregare che si risvegli e credimi, non faccio altro.» Una lacrima le riga il volto, io resto con gli occhi fissi in quelli di Mary con la speranza di lenirle il male che sente, anche se questo scambio di sguardi stanchi e addolorati, forse, è una consolazione per entrambi.
Un pomeriggio, due giorni dopo quella chiacchierata, mentre mi trascino in laboratorio con una svogliatezza che mai avrei creduto possibile, sento squillare il telefono.
«Flavio, si è svegliata! Si è svegliata!» La voce di Mary mi arriva più alta di qualche tono, riecheggia nelle pareti della mia testa come il suono di campane in un giorno di festa.
«Arrivo subito» rispondo.
Poi mi blocco, con il camice ancora tra le mani e gli occhi persi nel vuoto.
Se Chloe non volesse vedermi?
«Doc, tutto bene?» John mi poggia una mano sulla spalla.
«Chloe si è svegliata» annuncio.
C'è una sorta di boato generale al quale resta immune solo Emily, congelata in fondo alla stanza.
Sembra una statua marmorea, bellissima ma fredda come la morte.
«Ragazzi, andiamo a trovarla, che ne dite?» propongo in un impeto di entusiasmo.
Lasciamo tutto com'è in laboratorio, poi ci incamminiamo in direzione dell'ospedale.
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