Capitolo 11

Buongiorno readers, il capitolo è arrivato ed è... lungo. Spero di non annoiarvi.

Buona lettura.💔

Giada


FLAVIO

Il risveglio successivo al Mid Season Party è stato devastante. Ho combattuto per l'intera mattinata contro un mal di testa lancinante, fiondandomi dentro lo Starbucks vicino al campus universitario. La cosa peggiore, però, è stato realizzare che quel bacio Cloe me lo ha dato davvero. I sensi di colpa mi hanno perseguitato per ore, causando in me la vaga consapevolezza che la mancata risposta di Giuditta alla mia chiamata, la sera del misfatto, non sia stata altro che un segno del destino. Non mi resta che mantenere il segreto, fingendo che non sia accaduto nulla, ma l'omissione della verità mi brucia dentro come alcol buttato sopra una ferita.

Non ho mai mentito a Giuditta, mai. Ma so per certo che se le raccontassi l'accaduto si scatenerebbe l'inferno. Io quel bacio non l'ho ricambiato. Io a quel bacio mi sono sottratto subito.

I giorni successivi alzo un muro di cemento armato tra me e la squadra, dimostrando a me stesso quanto sia importante piantare dei paletti ben definiti in ambito professionale. Basta poco, un lieve accenno di disponibilità, che tutti sono pronti ad approfittarsene.

Lo stesso lunedì comunico al professor Milligan la necessità di rientrare a Milano per un paio di giorni, prenoto il volo e continuo a comportarmi con Giuditta come mi ha indicato Gaia. Il problema è che la situazione mi sta sfuggendo di mano. Il mio rapporto con Giù sembra peggiorare di giorno in giorno, sembra demoralizzata, depressa e la cosa genera in me un opprimente senso di angoscia. Gaia mi rassicura, dicendo che rientra tutto nel suo diabolico piano, assicurandomi che non appena Giuditta mi vedrà non potrà che perdonare ogni cosa.


***


L'aereo è atterrato a Milano. La mia città, la mia città da quasi vent'anni. Ad accogliermi un sole inaspettatamente splendente, niente foschia, nessuna nuvola a ingrigire questa giornata. In venti giorni ho quasi dimenticato gli effetti benefici del cielo terso, a Londra il tempo è incostante, perennemente minacciato da repentine scariche di pioggia.

«Flavio, sono qui» Gaia alza le braccia per attirare la mia attenzione in mezzo all'andirivieni della folla.

La raggiungo in un attimo e lei non perde tempo ad abbracciarmi con foga. È decisamente elettrizzata. Io un po' meno a dirla tutta. Ieri era il compleanno di Giuditta e io mi sono limitato a farle gli auguri di compleanno con un messaggino che lei avrà di certo considerato banale e deprimente. Le ho scritto «Buon compleanno amore. So che sei molto arrabbiata con me, ma voglio ricordarti che mi manchi e non vedo l'ora di vederti.»

Ho provato l'insano desiderio di tagliarmi le mani subito dopo, lo giuro. Ho mantenuto un atteggiamento distaccato che mai avrei voluto avere con lei. Ma questo prevedeva il copione.

«Giuditta vuole uccidermi, ne sono certo.»

«Giuditta ti salterà addosso non appena ti vedrà, Flavio.»

Salgo sull'auto di Gaia e partiamo in direzione di casa.

Convivo con Giuditta dal 2012. L'estate di quell'anno fui proprio io a proporle di andare a vivere insieme, anche se ancora avevamo condiviso troppo poco per poterci permettere il lusso di investire tanto in una relazione. Soprattutto io. Soprattutto dopo che avevo, anni prima, sentito bruciare sulla mia pelle il dolore di un tradimento. Eppure c'era qualcosa in Giù che mi spinse ad azzardare, come se una voce dentro di me volesse indicarmi la giusta strada da seguire. Io non respinsi quella sensazione, l'assecondai, pensando che il fondo io l'avevo già toccato e nulla avrebbe più potuto scalfirmi tanto da provare dolore nell'animo.

Quando entriamo in casa c'è un'insolita quiete, una calma e un ordine che avevo dimenticato. Sopra il tavolo del soggiorno spicca un enorme mazzo di rose rosse; per un secondo sento un fastidioso scricchiolio nella coscienza, come un palloncino che scoppia dentro, in qualche parte dello stomaco.

«Quei fiori?» domando a Gaia indicandoli con un cenno del capo.

Lei si precipita a posare i vassoi di dolci che tiene in mano. Esita un attimo a rispondermi e nel frattempo la raggiungo posando il resto del buffet accanto a quel vaso pieno di germogli rossi.

«Sono state un'idea mia, di Arianna e Sveva... gliele abbiamo fatte recapitare ieri mattina a casa» mi spiega.

Impieghiamo una mezz'ora a sistemare il tavolo, riempendolo di cibo e bevande. Dopo aver finito vago per casa, rovistando tra le mie cose, ripiegando sul comò i panni di Giuditta buttati sul nostro letto ancora da rifare. Sistemo anche quello pur di rendere perfetto il momento in cui ci ricongiungeremo questa sera. Dopo che tutti saranno andati via, quando potremo riappropriarci finalmente della nostra intimità.

Alle sette della sera iniziano ad arrivare tutti gli invitati, una manciata di colleghi e qualche coppia di amici, la madre di Giuditta, sua sorella, suo cognato, poi Arianna e Sveva, amiche storiche della mia fidanzata. Gaia mi spiega che Giù sta tornando da Bellagio dopo una giornata passata nella sua città natale in compagnia dei vecchi amici del liceo. La chiama più volte per estorcerle qualche informazione in più sul suo rientro a casa. Un'ora dopo siamo tutti immersi nell'oscurità della stanza ad aspettare l'arrivo della festeggiata; quando sento girare la chiave nella serratura del portone capisco che l'attesa è finita. Pochi secondi dopo la luce viene accesa e mi ritrovo Giuditta con gli occhi sbarrati.

«Tanti auguri, Giù» urliamo tutti.

La borsa che tiene in mano cade a terra, leggo nel suo sguardo uno smarrimento che non credevo possibile. La mia piccola Giù, con il suo aspetto che non lascia trapelare i suoi trentatré anni, le labbra carnose e un sorriso che potrebbe illuminare la giornata più cupa. Eppure quella sua naturale predisposizione al buonumore sembra non esistere più ora che la osservo da vicino. Le videochiamate devono essere davvero poco realistiche perché, a vederla ora, Giuditta sembra sfiorita, come se una grandinata le avesse strappato via la gioia di vivere.

«Ehi, amore» le dico avvicinandomi a lei con le braccia aperte pronte a stringerla. «Perdonami per essere stato tanto freddo in questi giorni, ma Gaia me lo ha imposto, altrimenti avresti capito tutto. Anche se con un giorno di ritardo, tanti auguri amore mio.» L'afferro per una mano e la trascino contro il mio corpo, stringendola forte. Sento il profumo dei suoi capelli, affondo la testa nell'incavo del suo collo per ritrovare l'odore di lei che tanto mi è mancato. Anche se non lo davo a vedere, anche se posso essere apparso ai suoi occhi come un uomo troppo preso dal suo nuovo lavoro, Giuditta mi è mancata. Mi è mancata davvero. E ora la sento tutta la sua mancanza, la sento addosso come un vestito troppo stretto. Poi Giuditta esplode come una bomba a orologeria, singhiozza, trema e sembra inconsolabile.

Dio, cosa ti ho fatto, Giù?

Ti ha ridotto così la mia assenza?

Si aggrappa al mio braccio per sorreggersi, la stringo più forte, affondando le dita nella sua pelle delicata.

«Giù, no. Ehi, calmati, sono qui. Sono qui» gli ripeto. Non alza neppure la testa, resta con il viso nascosto nel mio petto, stringe con le dita sulla stoffa della camicia, allora capisco che la mia lontananza deve essere stata per lei più complicata del previsto.

«Scusami» bisbiglia singhiozzando.

Chino la testa sulla sua baciandole il capo, mi sposto di lato e scendo a sfiorarle l'orecchio con le labbra «Amore, scusa di che? Lo sai che mi sei mancata, vero?» le sussurro.

E mi sento colpevole.

E mi sento infinitamente egoista.

Qualcuno mi posa una mano sulla spalla, quando mi volto incrocio lo sguardo pimpante di Gaia. Mi fa l'occhiolino, poi si allunga verso Giuditta afferrandole il braccio.

«Giù, tesoro. Vieni con me» dice asciugandole con le dita il viso inondato di lacrime. «Ragazzi, voi cominciate a mangiare, io la faccio calmare un secondo. Non se lo aspettava proprio... è incredibilmente emozionata!» continua rivolgendosi a tutti noi. Io non mi sento tranquillo e le seguo fino alla porta del bagno, una volta lì Gaia mi liquida, dicendomi di aspettare con gli altri; giusto il tempo che occorre a Giuditta di riprendersi dallo shock.

Torno in soggiorno e provo a distrarmi colloquiando con gli invitati, ringraziando tutte le volte che mi ritrovo a ricevere congratulazioni per il dottorato. Passano svariati minuti e Giuditta non è ancora tornata, vado di nuovo verso il bagno e busso con una certa insistenza «Gaia, tutto ok?» chiedo mosso da una certa inquietudine.

«Sì, ecco, stiamo per uscire» mi rassicura lei. Effettivamente dopo qualche minuto la porta si apre. Giuditta sembra essersi ripresa, le porgo un bicchiere di prosecco e passo il resto della serata appiccicato a lei.

È l'una di notte quando la casa si svuota e io non vedevo l'ora. Sento il bisogno di toccare Giù, accarezzarla, spogliarla e farla mia. Inizio subito, le mie dita scivolano sotto la stoffa della sua maglietta, sento la sua pelle sotto i miei polpastrelli. La sua calda insenatura tra le clavicole mi manda in estasi, e mi chiedo come io abbia fatto a privarmi per tanti giorni del suo profumo, delle sue mani, della sua bocca invitante e voluttuosa. Questo corpo dalle forme sinuose, i fianchi rotondi al punto giusto e la pelle pallida come alabastro. La bacio, la bacio avidamente poi la sollevo e la porto in camera da letto tenendola tra le mie braccia.

La spoglio piano, senza fretta, gustando ogni singolo centimetro di pelle. Giuditta resta immobile, non partecipa, sembra assente. Non demordo, insisto, certo che la sua sia una tattica per farmi scontare la distanza che ci ha separati per queste tre settimane. Quando è ormai nuda dinanzi a me la spingo delicatamente sul letto, costringendola a sdraiarsi, mi spoglio frettolosamente, lasciando cadere a terra i vestiti. Le salgo sopra intenzionato a riprendermi tutto ciò che di lei mi è mancato. Ma Giuditta non riesce a rilassarsi, sembra che stia lottando contro una forza invisibile. Allora mi fermo, non la forzo e mi sdraio accanto a lei, accarezzandole il volto accigliato.

«Giù, sei strana, che succede?»

«Niente, sono solo stanca» dice.

Mi da le spalle e capisco che vuole essere coccolata. L'avvolgo con le braccia, incastrando le mie gambe tra le sue, lei si rannicchia e io la stringo di più custodendo quel suo corpo stranamente estraneo stanotte.

Impiego molto tempo a prendere sonno e quando ci riesco il mio riposo è tormentato dai ricordi di quella maledetta festa. Sembra quasi che la mia coscienza mi stia mettendo in guardia e inevitabilmente mi ritrovo a pensare che il comportamento di Giuditta potrebbe essere un chiaro segno di sfiducia nei miei confronti. Rifletto sul mio lavoro e sull'incapacità che ho di rinunciare a quelle che sono le mie priorità professionali. Per la mia carriera sarei pronto a sacrificare molto più di quanto non sacrificherebbe Giuditta; a questo punto mi chiedo se non stia azzardando troppo. Se, forse, le mie rinunce non si stiano spingendo oltre il limite consentito dall'amore.

Il mattino dopo mi alzo con cautela, silenziosamente, lasciando che Giuditta continui a dormire.

Penso al mio dottorato mentre sistemo il soggiorno, butto i piatti di plastica sporchi e i bicchieri e passo l'aspirapolvere alla minima velocità.

Penso al fatto che dovrei rinunciare alla mia carriera all'estero se questo rappresentasse una minaccia alla mia relazione con Giuditta.

Sistemo il tavolo per la colazione lasciando al centro un vassoio di pasticcini avanzato dalla festa di ieri.

Mi convinco che una scelta tanto drastica sia davvero indispensabile.

Prendo la caffettiera e la riempio di acqua, aggiungo qualche cucchiaino di caffè e continuo a chiedermi se perseverando in una direzione o nell'altra, mi ritroverò a odiare me stesso. Non voglio rimpianti legati a scelte affrettate, ma neppure rimorsi per aver preso decisioni che infrangono il mio modo d'essere e i miei sogni. La scelta è davvero difficile. Nella mia testa si materializza una bilancia e sopra i piatti entrambe le opzioni pesano allo stesso modo.

È più importante la mia donna o la mia carriera?

La caffettiera borbotta, spengo il fornello dopo aver controllato che sia uscito il caffè, poi sento dei passi dietro di me. Quando mi giro sorprendo Giuditta ancora assonnata che mi guarda appoggiata allo stipite della porta.

Il piatto della bilancia pende un pochino più da un lato, il lato dell'amore.

Studio la sua figura per qualche istante «Buongiorno, amore» dico stampandole un bacio sulle labbra. La prendo per mano invitandola a sedersi, lei afferra un pasticcino e lo addenta svogliatamente mentre io riempio le tazzine di caffè.

Questo mi sembra il momento più appropriato per parlare del mio futuro, del suo futuro, del nostro futuro.

«Devo parlarti» le dico accomodandomi accanto a lei.

«Che succede?» chiede con una smorfia disegnata in viso che credo di non averle mai visto in tanti anni di convivenza.

«Senti, io non immaginavo che tu stessi soffrendo tanto. Ieri, però, quando ti ho vista reagire in quel modo, ho avuto paura. Non voglio rischiare di perderti e se la mia lontananza rappresenta per te un ostacolo così grande, be', posso rinunciarci. Mi sei mancata, Giù. Credimi, tutta la mancanza di queste settimane è esplosa non appena ti ho rivista.» Allungo la mano sulla sua sfiorandogliela. Lei si alza di scatto e si precipita in direzione del bagno, le corro dietro sorprendendola mentre si piega sul water e vomita. Mi metto accanto a lei per tenerle la fronte con le mani e sollevarla dai violenti conati che le scuotono il corpo. Sto iniziando a preoccuparmi sul serio; questa non la mia fidanzata, questa versione di Giuditta sembra essere il fantasma della mia fidanzata. Quando i conati sembrano essersi placati, l'aiuto a rialzarsi e le sciacquo il viso e la bocca. Il mio stomaco è stretto in una morsa di sensi di colpa. Non ho più dubbi ora, la scelta migliore che io possa fare è ritirarmi dal progetto.

Tornato in cucina afferro il portatile e lo accendo, deciso a comunicare la mia decisione al professore Milligan subito, immediatamente.

«Che fai?» mi chiede Giù con la voce fioca.

«Mando una mail al professor Milligan.»

«Cosa? No.» Ribatte lei come svegliata dallo stato di trance avuto finora.

Alzo gli occhi e resto a fissarla disorientato. «Perché no?»

Si alza freneticamente e comincia a girovagare per la stanza senza trovare tregua e io inizio a stufarmi di tanto incomprensibile mistero. Mi alzo, la raggiungo e la blocco posandole con fermezza le mani sopra le spalle. «Giù, vuoi spiegarmi che hai?»

Scoppia in lacrime e sgrullando le braccia si libera dalla mia presa. Sbuffo, alzo gli occhi al cielo e mi domando se dietro questo suo atteggiamento così sconclusionato ci sia qualcosa di più. Qualcosa che non conosco, qualcosa che Giuditta mi sta arbitrariamente tenendo nascosto. Va ad accoccolarsi sul divano, poi inizia a parlare fiaccamente senza scollare lo sguardo dal pavimento.

«Flavio, non puoi restare, tu non devi restare per me.»

È rabbia quella che sento dentro?

No, credo sia frustrazione.

Mi avvicino al divano con cautela, ho la sensazione che dietro a tanta indecisione, la sua indecisione, si nasconda qualcosa di spiacevole.

«Io ho fatto qualcosa di terribile questi giorni. Io non merito neanche un briciolo della tua pazienza, della tua stima e delle tue rinunce» dice con il tono tipico di chi sta per confessare il peggiore dei reati.

Il mio cuore si ferma e ho paura di non riuscire ad aspettare che lei continui. Ci sta impiegando troppo tempo a parlare e io sono un tipo impaziente a volte.

«Non avrei mai pensato di potermi macchiare di un tale peccato, Flavio. Tu sei l'ultima persona sulla faccia della terra che merita di essere presa in giro. Non posso permetterti di rinunciare alla tua vita per me, per una donna che ha ripetuto l'errore di Viola.»

Il mio cuore si rompe.

La vista sembra appannarsi.

La stanza intorno a me rotea come su una giostra.

Sento uno spasmo all'altezza dello stomaco; non può essere vero.

Mosso da un istinto che non credevo più di avere mi fiondo su di lei e le afferro il viso con la mano, affondando le mie dita nelle sue morbide guance. Giuditta alza lo sguardo lentamente e quando lo incrocia al mio capisco che ha paura di me, di quello che potrei farle se ciò che ha detto fosse davvero la realtà.

«Che cazzo stai dicendo, Giù?»

«Ti ho tradito, Flavio.»

Ti ho tradito, Flavio.

Ti ho tradito, Flavio.

Ti ho tradito, Flavio.

Questa frase mi rimbomba nel cervello. È un eco insopportabile. È una sensazione raccapricciante in grado di trasformarmi nell'uomo peggiore del mondo. Le dita scivolano via sulla sua pelle umida di lacrime; non riescono più a stringere, non hanno più la forza per poter contrastare una scarica tanto violenta di delusione.

E dopo la delusione sopraggiunge la rabbia.

E dopo la rabbia arriva l'odio.

Mi allontano da lei e da quel suo corpo sporco, tendo le braccia sopra il tavolo e mi ci nascondo in mezzo.

Ti ho tradito, Flavio.

Mi sembra di impazzire, vorrei piangere di dolore e rompere ogni cosa. Poi sento la rabbia esplodere dentro di me come un vulcano in eruzione. Lapilli fatti di ricordi, fumo denso che trasfigura il mio raziocinio in follia. Mi volto, quella che era la mia fidanzata è andata a rifugiarsi in un angolo del muro, a debita distanza da me.

Ma la distanza che ci separa è poca e la mia rabbia è tanta.

La raggiungo, la blocco, mando indietro le lacrime che minacciano di uscire e sento gli occhi bruciare.

«Dimmi che stai scherzando...»

Perché voglio sperarlo fino alla fine che il suo sia solo uno stupido, volgare scherzo.

«Non scherzerei mai su una cosa del genere» balbetta, prova a spostarsi ma glielo impedisco. Poso la mano sopra il suo fianco e lentamente, risalendo, raggiungo il suo petto, il suo collo e la sua mascella. Le mie dita avvolgono di nuovo quel viso così dolce. Vorrei romperlo, disintegrarlo, vederlo cadere pezzo dopo pezzo.

«Chi è?» tuono.

«Non è importante» dice lei.

Non è importante?! È cosa lo è? Cos'è importante, Giuditta?

Nulla, ormai nulla è più importante.

Non riesco a contenermi, non riesco a evitare di spingere con forza la sua testa contro il muro per farle sentire il dolore fisico che provo. Il mio dolore, però, quello che sento dentro, è davvero poca cosa in confronto a ciò che sta provando lei ora.

«È stato bello scopare con lui, eh? Che cosa ti ha dato che io non avrei potuto darti?» urlo in preda all'ira. Giro il suo corpo obbligandola a darmi le spalle, le sono addosso e posso sentire il suo corpo tremare sotto la pressione del mio. Piange senza opporre più resistenza e le sue lacrime mi fanno imbestialire a dismisura.

Cosa piangi ora, Giù? Cosa cazzo piangi dopo che hai demolito definitivamente la dignità dell'uomo che ti amava?

Che ti amava.

Perché ora di quell'amore sento solo dei frammenti appunti che si spingono dentro, in profondità e riaprono una ferita che mi porto da anni. Una ferita cauterizzata male che sta tornando a sanguinare.

«Non ci sono andata al letto, Flavio» bisbiglia singhiozzante.

Allento la pressione, forse per un istante smetto anche di respirare.

«Ti prego smettila» la sua sembra una supplica. Ma su di me non sortisce alcun effetto quella sua voce compassionevole. Vado verso un mobile del soggiorno, un mobile sopra il quale sono disposte tante cornici con le nostre foto.

Le nostre foto di quando pensavo che l'amore fosse ancora un sentimento degno di attenzione.

No, l'amore è un sentimento inflazionato, almeno per quanto mi riguarda.

Afferro una di quelle cornici e la lancio a terra. Poi ne afferro un'altra e un'altra ancora, e continuo finché non le vedo distrutte a terra.

Lo sguardo mi ricade sopra il tavolo, lo vedo quel vaso, l'osservo e capisco che anche quello non è altro che una misera, patetica fonte di bugie.

«Ora sono certo che le tue amiche non ti avrebbero mai regalato un mazzo di rose.»

Lo scaravento a terra. Godo nel sentire il rumore del vetro rotto, vedere l'acqua che schizza tutt'intorno e quei boccioli rossi ormai distrutti.

Poi è la volta dei magneti sopra il frigorifero.

Vacanze, ricordi scolpiti nella memoria che ora non desidero altro che disintegrare. Strofino il braccio sopra la superficie del frigo e con forza spingo verso il basso, in pochi secondi di quelle pittoresche calamite non rimane che un mucchietto di cocci frantumati.

Vado in camera, mi cambio in fretta senza neppure farmi la doccia, il mio unico desiderio è vedere Giuditta scomparire dalla mia vista, dimenticare questa casa e tutto quello che ha significato per me in questi cinque anni di relazione.

Cinque anni, mi rimbomba nel cervello.

Cinque anni durante i quali ho rimesso in discussione me stesso, amando una donna che consideravo l'unica in grado di farmi battere il cuore; quel cuore che tanti anni prima aveva subìto lo stesso trattamento di oggi. Il tradimento scotta come un'ustione, il tradimento è un avvelenamento dall'unico sentimento per il quale si è disposti a tutto.

Quando mi sento pronto, dopo aver placato in parte la rabbia sconfinata che mi ribolle dentro come lava incandescente, torno in soggiorno. Lei si accorge di me, dirotta immediatamente lo sguardo sul trolley ed evita abilmente di guardarmi in viso. Proseguo verso la porta, poi mi blocco e torno indietro per sputarle la mia ultima sentenza.

Quella che le tuonerà nel petto tutte le volte che mi penserà.

Cammino sopra i vetri rotti e lo scricchiolio di quelle cornici sotto i piedi è un godimento perverso.

«Ti amavo, Giù. Ti amavo come non ho amato nessuna.» Dire questo mi costa molto più di quanto si possa immaginare; sento gli occhi pizzicarmi di nuovo. La donna che ho davanti non ha più un nome per me, lei ha smesso di essere Giuditta non appena ha confessato l'accaduto.

«Se ti ho detto la verità, Flavio, è perché ti amo anche io. Ti amo nonostante l'errore che ho commesso e se ti lascio libero lo faccio in nome di questo amore per il quale non ho combattuto abbastanza» dice.

Le sue parole scivolano via su di me come olio, il perdono prova ad aggrapparsi sulle mie gambe ma slitta in basso verso il pavimento.

Il perdono è inconcepibile.

Il perdono è fuori dalla mia portata.

La fisso per qualche istante con il disgusto disegnato in viso, poi pronuncio lapidario: «Prova a fare una cosa, Giuditta. Raccogli una scheggia dopo l'altra dei vetri frantumati a terra, prova a ricostruire quelle cornici, prova a riportarle allo stato originario e ti accorgerai che è impossibile rimettere insieme qualcosa che è andato in pezzi. E anche se tu dovessi riuscirci, ricorda che basterà una piccola vibrazione per romperli di nuovo. Ecco, questo è tutto quello che resta di noi, il nostro amore ora scricchiola sotto i tuoi piedi. Addio.»

Vado via con il crepitio dei vetri calpestati, forse, però, quel crepitio viene da dentro, viene dal cuore, dal mio.


***


Male.

Male dentro.

Male che separa parti di uno stesso corpo. Fa male anche il solo respirare.

Pianto.

Pianto che in silenzio bagna le guance.

Pianto che scava la pelle.

Silenzio.

Tutto il silenzio di questo aereo che mi riporta in fretta a Londra dove ventiquattro ore fa ho congelato tutto, sospendendo la mia vita professionale per tornare a quella che mi apparteneva prima. Quella vita che consideravo più importante perché era intrisa di lei.

Lei, che ora non ha più nemmeno un nome.

Lei, per lei avrei rinunciato a me. Per lei avrei messo in discussione le mie certezze. Lei era una maledetta certezza, e vorrei urlarlo, urlarlo a tutti. Anche alla signora che mi siede accanto, con i suoi grandi occhiali, i capelli incanutiti dall'età e la pelle raggrinzita dall'inesorabile scorrere del tempo.

Lei, signora, che farebbe? Come si rimarginerà una ferita così profonda? Qual è il segreto per sopravvivere a tanta sofferenza?

La signora si volta e incrocia i miei occhi stanchi e lucidi, ingoio ancora una volta il groppo che ho in gola e volgo lo sguardo dalla parte opposta, verso il finestrino, verso le nuvole e il cielo.

Domani andrà meglio, Flavio, mi ripeto.

A Londra piove e io non ho l'ombrello.

Piove e lascio che tutta l'acqua che cade dal cielo avvolga il mio corpo, ristorandolo, ripulendolo.

Raggiunto il mio alloggio mi sembra di provare una temporanea, magra consolazione. È assurdo arrivare alla consapevolezza che questo monolocale sia l'unico posto nel quale entrando io mi senta al sicuro. Mi butto sopra il letto ancora zuppo di pioggia; sento freddo e una marea di altre sensazioni spiacevoli, ma mi riempio di esse come fossero l'unico appiglio per reagire, come rappresentassero il mezzo per trovare la forza di tirare avanti. In questo momento vorrei che la vita si bloccasse per un po', lasciandomi in sospeso il tempo necessario a dimenticare.

Mi addormento per qualche minuto, o forse qualche ora, quando riapro gli occhi e realizzo che non è un sogno quello con il quale sto combattendo, decido di attaccarmi alle lattine di birra ancora in frigo. Tanto a toccare il fondo non manca molto, e io voglio toccarlo il fondo. Ne bevo diverse e ne lancio altrettante sul muro.

Credo che io stia urlando in silenzio.

Credo di non riconoscermi più nell'immagine riflessa sullo specchio.

Credo di vedere un Flavio diverso, molto più fragile e decisamente più incazzato.

Credo che per tornare quello che ero prima non basterà tutta la vita.

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