Capitolo 10
CHLOE
Una sconvolgente scarica di ormoni. Lo schianto di labbra è inevitabile, complici lo stato di ebrezza e il contatto ravvicinato dei nostri corpi. Quello che sento, mentre la mia lingua lambisce la sua, è un'eccitazione ingovernabile. Vorrei esplorare con minuzia quella sua bocca invitante ma non faccio in tempo, un secondo dopo l'inizio del nostro scambio di effusioni avviene il distacco. Il suo. Mi posa le mani sopra le spalle e mi sposta all'indietro in maniera tanto energica da farmi vacillare. Restiamo a fissarci, occhi negli occhi, e capisco che Flavio è infuriato.
Che cosa hai combinato, Cloe? Ti ha dato di volta il cervello?!
Sono in un bel guaio, sono in un gran bel guaio e credo che per tirarmi fuori da questa spiacevole situazione non basterà una banale scusa. Il cuore mi pulsa in gola, lo sento che sembra quasi volermi uscire fuori dal corpo. Flavio mi guarda truce, con le iridi azzurre che ardono di rabbia e disgusto; la sua iniziale predisposizione nei miei riguardi sembra aver avuto una brusca inversione di rotta.
Si avvicina al mio orecchio e sento un fremito raggiungermi le gambe, credo di tremare quasi.
«Non azzardarti mai più, Cloe, o sei fuori dal progetto, per sempre. Farò terra bruciata intorno a te, credimi» pronuncia con tono glaciale e autoritario. Poi mi volta le spalle senza degnarmi di uno sguardo e se ne va.
Ho scavalcato il limite che il buon gusto e la ragione impone a due individui accomunati soltanto da un rigoroso rapporto di lavoro. Ho mandato al diavolo la possibilità di dimostrare chi sono nel mio campo professionale, mi sono deliberatamente suicidata. Per cosa poi? Per aver assecondato un momentaneo e ingovernabile impulso fisico. La testa gira come sopra una giostra, sento un vago senso di nausea fare capolino sulla bocca dello stomaco, vado verso il bar e ordino un cocktail. Lo ingurgito quasi fosse un conto da pagare per espiare la mia colpa. Quando arrivo all'ultimo sorso reprimo con forza la richiesta del mio corpo di liberarmi del veleno appena ingerito. Un veleno trasparente, dal retrogusto amaro ma straordinariamente confortante. Esco fuori dalla sala principale e attraverso il corridoio che pullula di ragazzi ridotti in uno stato pietoso quasi quanto il mio. Passo accanto agli armadietti di metallo attaccati alle pareti, mi ci aggrappo con la mano per trovare sostegno poi giro in un angolo e mi ritrovo nei bagni. Apro una porta e mi fiondo con la testa nel water, liberando lo stomaco dall'alcol ingerito. Quando esco fuori faccio appena in tempo a sciacquarmi il viso, subito dopo una miriade di stelline bianche iniziano a pulsarmi davanti agli occhi, il mio blackout è imminente e inevitabile.
Di solito non si sogna quando si è ubriachi da fare schifo, eppure io sto sognando, o forse no?
Sono davanti al portone di casa mia, la casa che ho scelto di affittare dopo aver capito che vivere nella dependance di famiglia poteva solo rappresentare un rischio alla mia salute mentale. Infilo la chiave nella serratura, giro, giro, giro ma non si apre mai. Sbatto con rabbia i pugni sulla porta, poi mi guardo intorno e vedo un enorme tronco. Lo afferro facendo leva su tutte le mie forze e inizio a spingere contro la porta. Un colpo. Due colpi. Tre colpi. L'uscio di casa si sgretola come cristallo rotto. Faccio un passo, uno solo, e mi accorgo che quella non è casa mia. È la casa dei miei genitori, quella dove sono cresciuta, quella che spesso ha accolto i pianti disperati di una bambina che cercava le attenzioni della propria madre, attenzioni negate, attenzioni delle quali ho sentito ogni singola privazione. Titubo, non voglio entrare. Questa non è casa mia. Quando il mio sguardo scende verso il pavimento, mi accorgo di un serpente. Un serpente enorme, con la pelle traslucida. Resta a fissarmi con la lingua rossa che esce ed entra dalla bocca, ripete quel movimento all'infinito e io resto paralizzata.
Apro gli occhi lentamente, metto a fuoco un'enorme macchia bianca, mano a mano il colore sfocato diventa più nitido fino ad apparirmi per quello che è, il soffitto di una stanza. Scendo con lo sguardo lungo la parete, c'è una tela enorme raffigurante Buddha e proseguendo più giù noto dei busti sartoriali ordinatamente disposti uno accanto all'altro. La mia bocca è disgustosamente impastata e la testa è una piattaforma di trivellazione. Scivolo a peso morto su un lato e il braccio mi cade sul il comodino, sopra di esso c'è un bicchiere pieno d'acqua con un biglietto che riporta la scritta "bevimi" e una confezione di paracetamolo con l'indicazione "ingoiami ". Alex e la sua lungimiranza. Mi alzo su un gomito cercando di vincere il forte senso di nausea causato dal mal di testa, poi la porta della stanza si apre ed entra il mio più fedele amico.
«Come si sente la mia bella camionista?»
Corrugo la fronte pensando di aver capito male. «Camionista?»
«Oh, zuccherino, ti ho ritrovata sdraiata nel bagno. Hai bevuto come un camionista ieri sera, forse anche peggio... fossi in te mi farei una doccia» pronuncia schifato fermando lo sguardo sui miei capelli. Porto una ciocca al naso e inorridisco. Puzzo molto più di un camionista.
All'improvviso, come un fulmine a ciel sereno, ricordo. Ricordo tutto.
«Oh, cazzo!» blatero sull'orlo di una crisi di nervi.
Alex si siede sul bordo del letto. «Che c'è, Cloe?»
«Non puoi immaginare cosa ho combinato ieri.»
«Ti sei spupazzata il collega ricciolino? Bel tipo e ha proprio l'aria di essere un gran figlio di...» si riferisce chiaramente a John.
«Ho baciato il mio responsabile» dico tutto d'un fiato.
«Cos'avresti fatto?»
Chiudo gli occhi nel tentativo di alleviare la preoccupazione che mi sale non appena ripenso al fattaccio. «Ho baciato il mio responsabile» ripeto scandendo innaturalmente ogni parola.
«Ti sei spupazzata mister occhi blu?» chiede di nuovo.
Annuisco e ho l'impressione che il senso di nausea stia aumentando a dismisura. Prendo una compressa e me la butto in bocca, poi mi scolo il bicchiere di acqua e spero che l'antidolorifico faccia effetto in fretta.
«Che ha fatto lui? Ha ricambiato?»
Una smorfia, sì, è proprio una smorfia quella che mi si è appena disegnata in faccia. Una di quelle smorfie che stanno per "Più o meno", nel mio caso, però, credo che il concetto di meno superi di gran lunga quello di più.
«Come cavolo ti è saltato in mente di infilare la tua lingua nella sua bocca? Di certo gli sarà piaciuto, è un uomo, ma santo cielo, Cloe, quello è il tuo capo!»
«Lo so.»
«Non si fa. È scorretto!»
«Lo so, Alex! È successo e basta, se tornassi indietro ci penserei due volte, ma ieri sera non ero nella posizione di pensare...»
«Hai fatto quello che generalmente fanno gli uomini, Cloe. Agire senza pensare, ma a differenza di un uomo tu non hai un pendolo tra le cosce!»
Lo guardo in cagnesco. «Dovresti rassicurarmi, Alex, e non buttare altra merda sul mio precario stato psicologico. Sai, è questo quello che fanno gli amici.»
Mi alzo e barcollo, Alex mi porge la sua mano e mi accompagna in bagno.
***
Il mio rientro al lavoro, il lunedì successivo, è imbarazzante. Mi accorgo immediatamente che il Doc è di pessimo umore e non posso biasimarlo, ovviamente. I miei colleghi mi lanciano sguardi interrogativi cercando di capire quale sia il motivo che rende il nostro responsabile tanto intrattabile. Flavio è scontroso, silenzioso e impenetrabile. Soltanto Emily e il suo atteggiamento da gattina riesce a strappargli, qualche volta, smorfie che si avvicinano lontanamente a un sorriso. Io mi tengo debitamente a distanza da lui, sono distante quando gli chiedo informazioni in merito alle procedure da seguire, sono distante quando i nostri corpi impattano inavvertitamente durante gli spostamenti in laboratorio e resto distante anche con lo sguardo, schivando il più possibile le sue iridi azzurre. Mi chiedo in continuazione se John non abbia fatto qualche rapida associazione mentale arrivando alla conclusione che la ragione di tanto astio da parte del Doc sia da imputare a qualche avvenimento accaduto al Mid Season Party. Trasalisco ogni volta al pensiero che John possa averci sorpreso in quello scomodo quanto inappropriato frangente di intima esplorazione delle nostre bocche. Anzi, per essere precisi, la mia, e solo mia, intima esplorazione della bocca del dottor Solina.
Se la vipera Emily venisse a conoscenza del fattaccio sarei spacciata, Dio solo sa quello che potrebbe sputare la sua lingua biforcuta.
Il giovedì mi ritrovo sdraiata sulla comoda poltrona reclinabile del dottor Prince senza sapere da dove iniziare a parlare. Sono sicura che il mio sensuale approccio con il Doc non sia da considerarsi poi molto normale, di sicuro se avessi baciato uno sconosciuto mi sarei fatta molti meno problemi, ma la consapevolezza di aver sedotto un uomo sentimentalmente già impegnato mi crea un certo senso di colpa. E potete credermi se vi dico che non è da me provare sensi di colpa.
Afferro la mia personale pallina gialla e inizio a torturarla. Strizzo, stringo e accartoccio la sfera di gommapiuma.
Silenzio.
Il dottor Prince sta aspettando che io prenda parola, intanto prepara la sua agendina; sarei davvero curiosa di sapere cosa c'è scritto su. Magari i miei dati anagrafici seguiti dalla frase "grave caso clinico".
Darwin Dawson Prince alza i suoi piccoli occhi marroni e accenna un risolino che sembra essere più un incoraggiamento che un segno di giovialità. Io emetto un colpetto di tosse, chiaro sintomo di indecisione. E il mio analista sa cogliere al volo le manifestazioni di indecisione. Chiudo gli occhi, apro le spalle e respiro a fondo, poi mi decido e inizio la mia lunga e lenta confessione.
«Sono riuscita a sfondare la porta nel mio sogno» dico. Non sapendo da quale problema cominciare a parlare, ho scelto la strada più semplice. «Quella dietro la porta, però, non era casa mia» continuo a dire.
Silenzio.
«Le è totalmente sconosciuta quella casa?» chiede lui.
«No. Quella è la casa di mia madre.»
Per essere precisi è la casa della mia famiglia, non solo di mia madre, eppure ho sempre associato quell'enorme villa solo alla figura di Lady Mary Anne. Forse perché era lei a gestire tutto, a decidere, a comandare, a controllare. Mio padre è sempre stato piuttosto assente per via del lavoro e quando c'era amava portarmi in giro per i musei, al teatro, al circo o allo zoo.
«Ci abita solo sua madre in quella casa?»
Sapevo me lo avrebbe chiesto.
«No, anche mio padre e mio fratello prima della sua partenza per gli Stati Uniti.»
Silenzio.
«Continui» mi esorta.
«Al centro della stanza c'era un serpente, mi fissava e la sua lingua usciva ed entrava fuori dalla bocca.»
«Lei temeva quel serpente, Cloe?»
«Non lo so, era a debita distanza da me. Forse no, non lo temevo. Ma non ne sono molto sicura.»
«Che ha fatto poi, è entrata in quella casa?»
«No, era come se fossi paralizzata.»
Socchiudo l'occhio destro e spio il dottor Prince mentre scrive sul suo prezioso taccuino, ricomincia a parlare continuando a tenere la testa china sul foglio. «Come va con il suo fidanzato?»
«Non lo so. Credo male.» Apro lo sguardo e fisso la parete che ho di fronte; le mani stingono, strizzano e accartocciano la pallina. Giro la testa ma non leggo la minima emozione trasparire sul viso del mio analista. Resta imperturbabile ad aspettare che io continui a parlare.
«Ho baciato un altro uomo, dottor Prince» sputo di colpo. Il volume della mia voce, però, è percettibilmente più basso di prima, segno inconfutabile di imbarazzo.
«È innamorata di questo uomo che ha baciato?»
«No. È il mio responsabile di laboratorio, il mio capo.»
«E la attrae questo suo responsabile?»
«Non lo so. Non credo, non è neanche il mio tipo.»
«E allora perché lo ha baciato?»
Cloe, se gli risponderai un'altra volta che non lo sai ti prenderà per pazza.
«Non lo so» sussurro. Questa è davvero l'unica risposta che io sia in grado di dare.
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