1. Un nuovo inizio


Miami, Florida

Era appena iniziato un nuovo anno. Ormai ne avevo vissuti troppi di questi capodanni, li ritenevo noiosi e un'inutile perdita di tempo. Il rumore dei fuochi d'artificio era amplificato nelle mie orecchie e mi assordava mentre ero seduto sugli scogli, semi-nascosto nell'oscurità a respirare la brezza notturna che mi deliziava e inebriava.
L'anello dal quale non mi separavo mai, con su inciso il marchio della mia famiglia, brillava alla fioca luce della pallida luna che guardava, anch'essa annoiata, l'ennesimo anno venturo.
Il cielo era particolarmente scuro quella notte, così come la camicia e i pantaloni che indossavo. Non mi ero ancora unito ai festeggiamenti, non m'importava minimamente gioire per l'ulteriore anno che avrei dovuto vivere, preferivo il rumore del mare che s'infrangeva sulle rocce.

Il mio momento di pace e tranquillità fu interrotto dall'avvicinarsi di una ragazza bionda, con gli occhi azzurri e dai lineamenti sottili e graziosi. Il suo abito da sera era rosso fuoco e le arrivava poco sopra il ginocchio, mostrando le gambe snelle.
La giovane si avvicinò con un sorrisetto e mi porse un drink.

«Ehi, che ci fai lì tutto solo? È capodanno, divertiti, sei ancora giovane», mi disse con tono entusiasta, intenzionata a rendermi partecipe di quell'inutile festa. Presi il bicchiere, lo portai distrattamente alle labbra e mi rivolsi a lei con un tono beffardo, alzando un angolo della bocca.

«Mia cara, ho molti più anni di quanti tu creda», affermai con un sorriso enigmatico. In risposta, lei si sedette vicino a me e si presentò, tendendomi la mano.

«Piacere, sono Cassidy, e tu come ti chiami?» mi chiese curiosa.

Era visibilmente ubriaca, ma decisi di darle retta lo stesso.

«Piacere mio, sono Henry», le riferii, baciandole appena il dorso della mano.

Cassidy e io iniziammo a chiacchierare amabilmente, guardando a tratti il mare che si confondeva con il cielo nero, formando un unico ammasso di oscurità.

Spostai lo sguardo mentre la ragazza parlava e notai in lontananza il mio amico Rob.
Indossava una camicia bianca e dei jeans chiari: lo vidi alzare nella nostra direzione un bicchiere pieno di champagne, facendomi l'occhiolino mentre ballava con una tipa mora.

Era sempre stato così Rob: festaiolo, donnaiolo, giocatore d'azzardo, ma un buon amico visto che mi sopportava da tantissimo tempo.

La mia attenzione tornò all'istante su Cassidy: si era tagliata la mano con una parte sporgente dello scoglio su cui eravamo seduti e d'istinto si portò il palmo alla bocca.
Non capivo come mai venisse così spontaneo questo gesto di succhiare il proprio sangue dopo una ferita.
Appena la bionda scostò la mano dalle labbra, mi chinai verso di lei e la baciai appassionatamente. Lei sembrò gradire e ricambiò con foga. La afferrai dietro la nuca sentendo i suoi capelli lisci tra le dita e tirandoli con decisione. Con la mia lingua continuai a esplorare la sua bocca, avvertendo a tratti il sapore metallico del suo sangue, ma non posi fine a quel momento di passione.

Dopo quel bacio, Cassidy si alzò, si tolse le scarpe per non inciampare, dato il tacco alto su cui camminava, e mi prese per mano. Mi condusse più in basso, verso gli scogli inferiori, lontano da occhi indiscreti e riprese a baciarmi sbottonandomi piano la camicia.
Ci stendemmo su una roccia pianeggiante: lei si posizionò a cavalcioni sopra di me, si sollevò il vestito e armeggiò con la mia cintura fino a slacciarla del tutto.
Quello che accadde in seguito non dava molto spazio all'immaginazione.

Alla fine del piacevole scambio di opinioni, si rimise in ordine e io mi sistemai la camicia e i pantaloni, come se nulla fosse successo.
Cassidy si chinò a raccogliere qualcosa dalla borsetta e io la cinsi con le braccia da dietro, portando le mani sul suo ventre. Lei si voltò e mi baciò ancora, mordendomi il labbro inferiore fino a farmelo sanguinare copiosamente. Si coprì la bocca e si allontanò, disgustata e dispiaciuta.

«Scusa, non volevo. Non sono mica una vampira assetata di sangue!» disse ridendo e abbracciandomi.

Un ghigno si dipinse sul mio volto mentre mi passavo la lingua sulla ferita perché in quel momento trovavo quella sua affermazione macabra e ironica allo stesso tempo.
Sapevo che stavo facendo qualcosa di sbagliato, cercavo di evitare questi comportamenti più che potevo. Era come una lunga astinenza, ne sentivo il bisogno urgente, come se Cassidy stesse offrendo una bottiglia di whisky a un alcolista che non ne beveva da troppo tempo.
L'occasione rendeva l'uomo ladro; più o meno la situazione era la stessa.

Portai lentamente una mano dietro la sua nuca e l'altra sotto il suo mento.

«Sono spiacente, ma io lo sono eccome, dolcezza», affermai con tono calmo e pacato, sussurrando vicino al suo orecchio e sfiorandolo appena con le labbra.

Le spezzai il collo velocemente. Il mio viso si trasformò mostrando l'oscura creatura che ero in realtà da più di un secolo: i miei occhi divennero rossi e i canini si allungarono. La vena giugulare, esposta dall'innaturale posizione in cui si trovava, era davvero invitante, così affondai i denti nella sua carne e iniziai a bere da quella fonte così calda.
Sentii affluire nella mia gola bramosa quella linfa vitale e l'assaporai fino all'ultima goccia. Dopodiché spinsi il suo corpo inerme giù dal dirupo, lanciandolo oltre gli scogli e osservandolo mentre l'acqua oscura lo inghiottiva. Respirai infine l'odore del sangue che si univa a quello del mare, mandando in estasi tutti i miei sensi.
Forse mi sarei pentito di quella scelta, ma l'impulso della bestia che tentavo di domare da oltre un secolo aveva preso il sopravvento su quella che era stata la mia umanità.

Sono Enrico Giusti, nato il 1852 a Firenze, in Italia.

Sono un vampiro, e questa è la mia storia.

Firenze, Italia

14 settembre 1876

Federica era seduta in mezzo alle sue due governanti che la adornavano a dovere a ogni festa importante. Delle domestiche le mettevano in ordine i capelli biondo cenere, che le ricadevano eleganti e morbidi sulle spalle, leggermente ondulati sulle punte. Altre le incipriavano il naso piccolo e lievemente all'insù, mentre alcune la abbellivano con i gioielli.
Adoravo guardarla mentre si faceva bella e anche quella volta, come accadeva spesso, ero appoggiato alla porta della stanza dove si preparava per le occasioni speciali. Per quell'avvenimento indossava un abito elegante che su di lei risultava ancora più regale.

L'indumento in questione era rosso chiaro e le copriva le spalle con ricami in pizzo di colore dorato: aveva una scollatura quadrata che lasciava intravedere di poco l'incavo del seno e fasciava perfettamente le sue curve sui fianchi, anche se la gonna era un po'ampia.

Quando le governanti finirono di sistemarle addosso gli ultimi gioielli, lei si alzò, mi venne incontro e mi baciò delicatamente con le sue labbra carnose e rosse come il sangue.

Io invece indossavo una camicia a collo alto di un bianco candido dalle maniche larghe, con un soprabito blu. Il doppio petto dal colletto rigido era decorato con bordature e bottoni in colore argento, e ricadeva morbido ed elegante sino alle ginocchia dove si apriva con uno spacco.

«Sono pronta: che la festa abbia inizio!» esclamò divertita Federica con un sorriso radioso.

Poi mi fissò con i suoi occhi verde smeraldo, mi prese a braccetto e ci dirigemmo nella sala principale della tenuta dei Marchese, dove si sarebbero svolti i festeggiamenti.

Molte delle donne di corte la invidiavano: era una delle più corteggiate di tutta Firenze, non solo per il suo aspetto, ma anche perché era la figlia di Lorenzo Marchese, in quel momento l'uomo che esercitava il maggior potere nella città.

Il salone che ospitava l'evento era molto ampio, con soffitti alti e decorato elegantemente in ogni dettaglio: enormi e luminose finestre erano poste quasi su ogni parete e c'erano diversi tavoli imbanditi di ogni tipo di pietanza. L'immenso spazio della sala da ballo era occupato da tanti membri di spicco della scena politica e commerciale di Firenze, ma al momento nessuno ballava, dato che l'orchestra stava ancora accordando i suoi strumenti.
Di solito, era in questa grande villa che si celebravano gli avvenimenti e i balli più importanti di Firenze. Nonostante fosse rispettata e fosse ancora al centro delle vicende politiche, la famiglia Marchese aveva perso influenza da quando Firenze non era più la capitale d'Italia.

Io e Federica facemmo il nostro ingresso e fummo subito accolti da Roberto Saverini, il mio migliore amico, che ci porse un bicchiere ciascuno. Anche lui era in abito da festa con indosso una camicia molto simile alla mia, con sopra una giacca nera abbinata alla cravatta ampia del medesimo colore e ai calzoni scuri.

«Ce ne avete messo di tempo, manigoldi! Cosa stavate combinando lassù?!» esordì divertito il mio amico. Dopodiché si mise a ridere e si girò verso Carolina Sforzi, la sua fidanzata, contagiandola con la sua risata.

Roberto non era discendente da una famiglia nobile come me e Federica, ma grazie al suo fidanzamento con Carolina, anch'essa di buona famiglia, aveva accesso alle feste più prestigiose della nobiltà e si era ben inserito nelle sfere alte della società grazie anche alla nostra solida amicizia.

Aveva la mia età, non era tanto alto ma possedeva una buona prestanza fisica, merito di spalle larghe e braccia forti. Aveva capelli neri e occhi scuri, proprio come me, labbra sottili e un naso piccolo che figurava perfettamente sul suo viso dalla fronte alta e dalla mascella leggermente pronunciata. I suoi lineamenti affascinavano molto le dame di Firenze.

Carolina, invece, era la figlia di un ricco proprietario terriero, la cui famiglia era comunque rispettata, anche se nella politica e nel potere sottostava a livelli inferiori. Era perdutamente innamorata di Roberto sin dal primo giorno in cui lo aveva conosciuto.

Mora con gli occhi scuri, bassa e minuta, era, come Federica, una delle dame più corteggiate di Firenze.

Io ero discendente della famiglia Giusti, i più importanti banchieri della città, ed eravamo molto legati a quella dei Marchese.

La festa era di buon gusto, avevamo ballato, scherzato e ci stavamo divertendo molto, sino a quando arrivò Cosimo Nardini, accompagnato da quella serpe di suo figlio, Nicola. Puntai con disprezzo il mio sguardo verso quei due e mi ravvivai i capelli corvini con un gesto della mano.
Le nostre famiglie erano sempre state rivali perché, nonostante fossero ugualmente banchieri, la loro, a differenza della nostra, non poteva contare sui Marchese, di conseguenza rimanevano al secondo posto tra le famiglie più importanti di Firenze.
Mentre Nicola avanzava verso di noi, Roberto si voltò roteando gli occhi al cielo e parlò in direzione di Federica.

«Ti spiace se lancio quel rifiuto dalla finestra? Prometto che te la riparerò dopo», affermò con il suo solito sarcasmo, che trascinò tutti quanti a dimenarci in fragorose risate.

«Vi suscito tutta questa ilarità, idioti? Lieto di vedervi, Federica, noto che perdete ancora il vostro tempo con questo zoticone», si intromise acidamente Nicola, indicandomi con un gesto stizzito della mano e rivolgendomi il suo sguardo pieno di invidia e odio.

Lui era alto e magro con un fisico snello, aveva i capelli biondi e dei freddi occhi di ghiaccio.
I lineamenti squadrati e il viso leggermente allungato gli davano un'aria ancora più fastidiosa e irritante. Era arrogante, presuntuoso e credeva di poter fare ciò che voleva solo perché era spalleggiato da una milizia privata, che molto spesso andava in conflitto con i soldati di Firenze. Questa milizia privata era comunemente conosciuta col nome de "I Nardi".

Non avevano ufficialmente l'autorità delle guardie fiorentine, ma vantavano comunque molto potere e influenza sulla città.

«Ti ricordo il nostro incontro di questa sera, Nicola. Voglio vedere se farai ancora lo spavaldo quando ti avrò steso a terra come il tappeto sotto i nostri piedi», gli risposi a tono, alzando un angolo della bocca per poi scambiare uno sguardo di intesa con Roberto, che annuì complice.
Infatti, Nicola ed io avevamo deciso di comune accordo di avere la resa dei conti dopo tanti conflitti: un duello tra me e lui senza i Nardi a proteggerlo e senza i miei fedeli amici a sostenermi.

Miami, Florida

Guardai nella borsetta di Cassidy in cerca di qualcosa per pulirmi il volto dal suo sangue, e trovai delle salviette profumate.

Inarcai il sopracciglio destro sul quale si trovava una piccola cicatrice e feci una smorfia disgustata: il tutto era tremendamente triste.

Ebbi un attimo di esitazione: potevo andare alla festa con il volto sporco di sangue, dicendo che avevo battuto il muso sugli scogli. Ma alla fine le adoperai per togliere dalla mia faccia il liquido rossastro di cui poco prima mi ero nutrito. Mi strofinai le labbra leggermente carnose e poi passai la salvietta sul mento e sulla mascella squadrata. Dopodiché, presi e lanciai la borsetta, con tutto ciò che conteneva, nel mare, a raggiungere la sua proprietaria.
Il mio amico non doveva sapere della fine che aveva fatto la povera Cassidy, bastava dirgli solo che mi ero nutrito. Uccidere, a volte, era un bisogno frenetico che non riuscivo a controllare e lui non lo tollerava minimamente.

Così tornai alla festa, e trovando Rob lo avvicinai.

«Accetto che tu ti prenda qualche svago, ma ricordati che siamo qui per svolgere un lavoro», mi sussurrò nell'orecchio, incredibilmente serio. Era strano che fosse lui a concentrarsi di più sui nostri compiti, di solito ero io quello più diligente e attento ai contratti.

Io e Rob eravamo in affari dal 1998, quando decidemmo di occuparci di lavori che includevano il sovrannaturale. Non importava chi fosse il cliente, l'importante era avere informazioni dettagliate su cosa fare e una buona ricompensa. All'inizio era stato molto faticoso perché eravamo solo in due, ma, nel corso degli anni, avevamo incontrato le persone giuste e i contatti che ci servivano per migliorare la nostra posizione.

Miami, Florida

31 Ottobre 1998

Era la notte di Halloween.

I bambini erano per le strade, festanti e vestiti da vampiri, lupi mannari, streghe e mostri vari, ignari del fatto che molti di questi esseri esistessero veramente. Rob mi guardava con una sigaretta appena accesa in bocca, ma stava in silenzio. Il vociare assordante dei bambini e l'odore del fumo distraevano i miei pensieri. Era dall'inizio degli anni '90 che vivevamo rubando denaro e svaligiando appartamenti. Ero stanco e, a dirla tutta, anche lui lo sembrava. Eravamo in America da più di cinquant'anni: durante la seconda guerra mondiale eravamo emigrati, ritrovandoci qui, come molti altri italiani.

Ruppi il silenzio per primo.

«Che ne pensi di metterci a fare qualcosa che abbia a che fare con il nostro mondo? Per tutto questo tempo abbiamo fatto in modo di insabbiare chi siamo veramente, abbiamo limitato la nostra natura e basta. Perché non sfruttare tutto ciò che sappiamo sul sovrannaturale?».

Lui mi fissò e gettò a terra la sigaretta, per poi spegnerla col piede.

«Non possiamo mica mettere un cartello con su scritto: "SIAMO VAMPIRI CHE CERCANO LAVORO NEL CAMPO SOVRANNATURALE"», esclamò lui allungando le mani e aprendole come per mostrare il titolo di un film.

Scoppiai a ridere e scossi la testa, ma subito dopo ripresi la parola: «No, questo è certo! Ma potremmo aprire un'attività di investigatori privati un po' particolari», replicai mentre salivamo in macchina.

Ne parlammo a lungo e infine pronunciò le tre parole da cui poi scaturì tutto: «Ci può stare».

In un mese riuscimmo a trovare un posticino tranquillo e chiamammo l'attività "H&R Supernatural Investigation". All'inizio si presentarono solo svitati, ma dopo qualche tempo si fece avanti gente che veramente sapeva cosa ci fosse là fuori.

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