Capitolo 9 - Il sogno prende forma (R)


Milano - 2 marzo 2026
Kephas.

Kariot attizzò il fuoco fin quando poté. Il crepitio della legna divenne una ninna nanna e uno dopo l'altro cademmo in un dolce sonno, sdraiati lungo il caldo pavimento di legno della capanna. Nella notte, dei bisbigli fecero schiudere i miei occhi. Andrea e Sofia erano sedute per terra davanti al camino spento, con le gambe incrociate e le palpebre chiuse, una di fronte all'altra. Le loro mani strette in una presa forte. La sorella maggiore parlava a bassa voce, mentre quella minore scuoteva la testa; entrambe tremavano.

"Andrea! Sofia!" bisbigliai. "Avevamo stabilito di non farlo più."

Ma non essendo in questo mondo, le due sorelle non riuscirono a udire le mie parole. Dunque mi avvicinai a loro gattonando, senza alcuna intenzione di toccarle. L'unico viaggio astrale che avevo fatto in passato, mi era bastato per capire quanto terrificante potesse diventare quel mondo.

"Andrea! Sofia!" bisbigliai nelle loro orecchie. "Se potete sentirmi, tornate indietro."

All'improvviso le loro mani si slacciarono, le due sorelle strabuzzarono gli occhi. I loro corpi non tremavano più. Sofia scoppiò in lacrime, portò le mani alla faccia e scosse la testa. Andrea mi fissò: paura e terrore le si leggevano chiaramente sul viso.

"Cosa è successo?" domandai.

"I due anziani" sussurrò Andrea. "Volevano parlare con noi."

Mi girai verso la sedia a dondolo: l'uomo era ancora seduto su di essa e cullava la moglie adagiata sopra le sue gambe. I loro occhi erano rivolti su di noi e sembrava che ci stessero osservando.

"Perché?" chiesi ancora, voltandomi verso Andrea. "Cosa vi hanno detto?"

La sorella maggiore ansimò; si passò una mano sul volto, strofinò i suoi occhi, ancora attoniti dal viaggio astrale. Poi mi fissò.

"Ci hanno chiesto di ucciderti, Kephas."

Un brivido paralizzò il mio corpo: gli occhi di Andrea erano lucidi e impauriti. Mi trovavo ancora nella posizione a gattoni, e il palmo delle mie mani iniziava a sudare. Lentamente spinsi il busto all'indietro, staccai le mani dal pavimento e mi sedetti sulle caviglie. Volsi la testa verso i due anziani e un brusco sobbalzo mi fece cadere per terra, sbattendo la nuca.

"Maledizione!" esclamai all'impatto.

La botta mi fece rinsavire: chiusi le mani a pugno e mi sollevai in piedi. I volti logori dei due anziani esibivano un sorriso perfido, con le pupille fuori dalle orbite e le labbra strette e curvate verso l'alto.

"Non mi farò abbindolare dai vostri giochetti diabolici" pensai a voce alta.

Dunque trascinai la sedia a dondolo verso la porta d'ingresso, incurante dei due corpi adagiati sopra. La spinsi nel porticato e la capovolsi qualche metro più avanti, sopra i cespugli d'erba fradicia e incolta. I due corpi fecero un capitombolo su due piccoli arbusti umidi di rugiada.

"Andatevi a fottere, vecchi!"

Voltandomi di spalle, con un'espressione soddisfatta, mi accorsi che Kariot e gli altri del gruppo mi guardavano con stupore. Andrea e Sofia capeggiavano la fila con uno sguardo sorpreso. La più piccola asciugava le lacrime dal suo viso pallido; aveva gli occhi limpidi e brillanti, e le guance erano chiazzate di rosa. La più grande chinò il volto, trattenne una risata e mi fece segno di rientrare nella dimora. In quel momento capii di avere svegliato tutti, ma ormai era quasi giorno e l'alba bussava alle porte del cielo, meravigliosa nei suoi tenui colori pastello che schiarivano le tenebre della notte. Al mio rientro nella dimora, Andrea mi diede un forte abbraccio.

"Sappi che non l'avrei mai fatto" mi sussurrò all'orecchio.

"Lo so... lo so bene" risposi, accarezzandole la schiena.

Kariot mi guardò di traverso.

"Ma che succede qui?" chiese, stiracchiandosi.

"Nulla di importante amico. Un piccolo diverbio tra me e quegli anziani."

Kariot si grattò la fronte, mostrò una smorfia perplessa e andò a prendere del cibo dal suo zaino, dimenticandosi della faccenda. Poi ognuno fece lo stesso: frugò nello zaino, addentò una barretta proteica e terminò la colazione con un sorso d'acqua. Mezz'ora dopo ci trovavamo in marcia per Milano. Durante il viaggio, l'orizzonte esibì uno spettacolo di luce e colori: il disco del sole apparve di un giallo pastello e i suoi raggi si divisero in più direzioni, striando il cielo di sfumature pervinca, celeste, azzurro, cobalto e zaffiro. Dopo circa tre ore di camminata ininterrotta, arrivammo al Duomo di Milano; alle sue spalle, un enorme struttura si stagliava contro il cielo.

"Esiste davvero..." pronunciò Lux, sbalordita.

"Ed è come nel mio sogno" continuai, con gli occhi spalancati.

Filippo ruppe il momento di magia e stupore facendo cadere il suo zaino per terra e rovistando al suo interno. Il tonfo richiamò l'attenzione di tutti.

"Cosa stai facendo?" domandò Kariot.

"Non ho voluto dirvelo prima, ma è ora che lo vediate anche voi."

Con fare frenetico prese il suo portatile e lo accese.

"Prima di partire," disse Filippo "non ho potuto fare a meno di controllare, attraverso i satelliti, se questo grattacielo esistesse realmente oppure fosse frutto dell'immaginazione di Kephas" e indicò lo schermo del suo terminale. "Guardate cosa ho trovato."

Incuriosito, mi avvicinai alle sue spalle. L'ingegnere informatico sintonizzò i satelliti su Milano, delimitando la mappatura sul Duomo.

"Ma non c'è niente!" esclamai.

"Esatto!" rispose. "Il grattacielo non esiste per i satelliti."

"Com'è possibile?" domandò Giovanni, aggrottando le sopracciglia. "Mi hai tenuto all'oscuro di tutto!"

Filippo scosse la testa, spense il computer e lo ripose nello zaino.

"Sì, Giovanni. Non ho voluto dirti niente per paura che lo facessi presente agli altri."

"Perché non lo hai detto?" domandai allora, incuriosito.

Filippo rimase con la bocca socchiusa, in silenzio. Mi guardò per un attimo, poi chinò la testa.

"Non avevamo più niente," rispose "né una vita né un motivo per continuare a vivere. E tutto quello che avevamo era talmente futile da non bastare per andare avanti, non per molto almeno. Ti ho voluto credere Kephas, sembravi così convinto... e questo viaggio era tutto quello che ci serviva. In fin dei conti avevi ragione, abbiamo trovato il grattacielo. Adesso siamo qui per merito tuo, immersi in questa nuova avventura. Quindi cosa stiamo aspettando? Andiamo!"

Sul mio viso apparve un sorriso. Diedi a Filippo una pacca sulla spalla e lo ringraziai per ciò che aveva fatto. Dopodiché i nostri sguardi caddero sul grattacielo, e le nostre gambe ci condussero davanti l'ingresso principale. La struttura assomigliava a un razzo gigante: era cilindrica, liscia e argentea. Era ricoperta di vetri color platino che rifrangevano la luce dei raggi solari, e l'estremità in alto si stringeva in una cupola tondeggiante. La punta sembrava toccare il cielo.

"Ci siamo!" esclamai. "Ancora un passo verso un'amara verità o una pesante sconfitta."

Lux sospirò e disse: "Ripensando a tutto quello che abbiamo passato fino ad oggi, non mi aspetto niente da questo posto. Eppure sto tremando."

Kariot afferrò la mano tremante di Lux, strinse le dita incrociandole con le sue e guardò davanti a sé: "Siamo uniti da qualcosa che va oltre questo viaggio, e ancora più oltre questa meta. Comunque andranno le cose... rimarremo uniti!".

Dopo aver attraversato la porta girevole a quattro ante di vetro, che faceva da ingresso, un lugubre scenario si stagliò davanti ai nostri occhi: entrambi i lati del pavimento a specchio erano tappezzati di corpi insanguinati. Il soffitto era percorso da strisce di luci al neon bianco perla, accese da chissà quanto tempo, e nemmeno un granello di polvere era depositato sui vetri. L'aria era stantia e umida. I due ingegneri si mossero lungo il perimetro, ispezionando anche gli angoli più bui.

"Ci sono telecamere dappertutto" disse Filippo. "Sono attive e si muovono a ogni nostro spostamento."

"E anche dispositivi in grado di monitorare la temperatura," continuò Giovanni "l'umidità e il dinamismo dell'aria. Radar infrarossi capaci di calcolare il nostro calore corporeo e chissà cosa."

"L'edificio ci sta osservando!" terminò Filippo.

Li guardai con stupore. Poi mi girai intorno: la struttura non presentava molte scelte. Di fronte alla porta girevole, a circa venti metri, vi era un ascensore metallizzato, mentre alle due estremità, vi erano due larghe scale a chiocciola che costeggiavano le pareti del grattacielo. Queste erano ricoperte di cadaveri ammassati uno sull'altro, e quindi impercorribili.

"E adesso?" domandò Lux, girando su se stessa. "Adesso che facciamo?"

I suoi occhi frenarono la loro piroetta sul mio corpo.

"Dobbiamo raggiungere l'ultimo piano" dissi. "È lì che prende forma il mio sogno."

Non avendo molte alternative, ci avvicinammo all'ascensore. Una volta dentro, le due porte scorrevoli si chiusero di botto; il quadro elettrico di manovra selezionò da sé l'ultimo piano, e una voce metallica ci diede il benvenuto.

Un brivido mi attraversò la schiena; la testa tremò e divenne leggera. I piedi incollati al suolo.

"Kephas..." sussurrò una voce femminile alle mie spalle, che in quel momento mi parve estranea. "Che succede?"

Non avevo idea di cosa stesse accadendo. Mi sentivo come un burattino mosso dai fili di un oscuro giocoliere, una formica nelle mani di un gigante. I secondi sembravano non scorrere, l'ossigeno pareva non bastare. Non sapevo più nulla, e mi sentivo vuoto dentro. Quando l'ascensore giunse all'ultimo piano, le porte scorrevoli si schiusero, sprigionando uno sfiato di vapore grigio cenere verso l'esterno. La nuvola si dissolse un attimo dopo. Davanti a me, un pavimento a specchio si allungava verso destra e verso sinistra, e la parete dirimpetto, a circa cinque metri, era nera come il carbone, così come il soffitto, illuminato da una striscia di luci al neon rosso brillante. Feci un passo in avanti e una voce mi impose di fermarmi: era di nuovo quella voce metallica.

"Fermati, figlio della disgrazia!" disse quel fastidioso suono robotico. "Fermati o perirai all'istante."

Il mio sguardo era fermo sulla parete nera. Il sangue gelato nelle vene.

"Chi sei?" domandai con un filo di voce. "Dove ti nascondi?"

I miei compagni erano alle mie spalle, ancora dentro l'ascensore, e assistevano alla scena paralizzati. Di chi era la voce? Perché nei miei sogni non si era presentata? Era capace di uccidermi? Dove mi trovavo? Cos'era questo posto? Cosa dovevo fare adesso? Le domande si fiondarono nella mia mente come una pioggia di meteoriti, creando un immediato senso di smarrimento.

"Come osi proferire il malcontento del tuo animo contro R.E.?"

Seguì un attimo di silenzio.

"È questo il tuo nome? Controlli tu questo posto?"

"Come osi proferire i dubbi che affliggono la tua mente contro R.E.?"

La sua domanda arrivò nell'immediato e sembrò simile alla precedente, affollando la mia testa di numerosi dubbi. Decisi di guardarmi intorno: il corridoio era deserto e una serie di porte scorrevoli colorate di bianco, verdastro e nero grafite risaltavano da entrambe le pareti. Tra queste, all'estremità del lato sinistro, una porta rosso fuoco mi parve conoscente: era quella apparsami in sogno.

"Ho bisogno di sapere..." sussurrai con voce flebile.

"Scegli una domanda, figlio della disgrazia! E fa che sia sublime alle mie orecchie, o schiaccerò il cervello di uno dei tuoi fratelli."

Rimasi impietrito. Il respiro mi si fermò in gola. Per la prima volta, dopo tanti anni, mi sentivo inutile come se la mia presenza fosse superflua. La frustrazione conseguente risultò insopportabile e alimentò un crescente nervosismo. Ero finito in una trappola senza via d'uscita e non avevo idea di come venirne fuori. Non conoscevo le intenzioni di colui che controllava la voce robotica e quanto in fondo si sarebbe spinto. Non mi rimaneva altro che procedere con cautela.

"Non ho nessuna domanda da porti! Ho solo una missione da portare a termine, che si conclude all'interno di quella porta rosso fuoco."

"Oh, figlio della disgrazia! Molti altri prima di te hanno tentato di aprirla, sostenendo di avere buone intenzioni, di poter ricostruire il mondo. E sai che fine hanno fatto? Sono morti. Le persone che hai visto all'ingresso e sulle scale le ho uccise io. Dunque, dimmi: perché dovrei concederti un privilegio diverso? La morte non sarebbe per te un dono?"

Strinsi i pugni dalla rabbia e digrignai i denti.

"Ho fatto molta strada per arrivare qui oggi. Sono sopravvissuto a un'epidemia che ha sterminato l'intera nazione. Ho patito la fame, la sete, perso persone a me care, combattuto contro esseri umani che si cibavano della loro stessa specie. E l'unica cosa che mi ha tenuto in vita è, ed è stata, la speranza."

Seguì qualche attimo di silenzio.

"Tu! Patetico figlio della speranza, della disgrazia e di chissà cos'altro. Vuoi farmi credere che nulla, oltre un'utopica illusione, abbia spinto te, miserabile uomo, nel viaggio lungo e tormentato di cui parli?"

Le mani erano chiuse talmente strette che le nocche erano diventate bianche. Voltai lo sguardo sulla porta rossa e serrai la mascella.

"No! C'è dell'altro."

Seguì un periodo più lungo di silenzio.

"Ascolto."

Emisi un sospiro di sollievo e sollevai lo sguardo.

"Un sogno mi ha mostrato l'esistenza di questo grattacielo, in particolare la stanza dalla porta rosso fuoco, e mi rifiuto di credere che io sia stato spinto fin qui solo per essere ucciso."

La voce metallica non rispose. Seguì un minuto di silenzio nel quale non ebbi più la forza di replicare. Qualsiasi altra parola sarebbe risultata inutile, una supplica miserabile che avrebbe fatto di me un uomo senza alcuna dignità. Abbassai il capo in segno di resa e scossi la testa. I miei amici varcarono le porte dell'ascensore, forse consapevoli come me che fosse giunta la fine, o che la speranza di cambiare il futuro fosse ormai svanita, e si dispersero lungo il corridoio. Kariot e Lux si strinsero forte a me.

"Qualunque cosa accadrà," disse Kariot, fasciandomi la nuca con la sua mano, "sappi che ne è valsa la pena."

"Siamo tutti insieme" continuò Lux, con gli occhi lucidi, "ed è questo quello che importa."

Simone mostrò un sorriso appena pronunciato. Alessio, al suo fianco, mimò il saluto militare. Il resto dei presenti mi fissò, ognuno con una condotta diversa: chi fece spallucce, chi l'occhiolino inumidendo le ciglia, chi mi diede un pizzicotto sulla guancia, una carezza sul viso o una pacca sulle spalle.

"Un sogno hai detto?" ruppe il silenzio la voce robotica. "Non immaginavo che esistessi davvero! Alla fine aveva ragione quel vecchio pazzo visionario; il prescelto esiste e, dopo quasi tre anni, ho l'occasione di conoscerlo."

"Il pre... cosa?" domandai.

Il mio sguardo trasalì e fissò il soffitto.

"Kephas, tu davvero non sai chi sei?"

Lux e Kariot sciolsero la loro presa dal mio corpo. I loro volti sembravano pieni di stupore.

"Come fai a conoscere il mio nome?" chiesi.

Le persone al mio fianco iniziarono a squadrarmi come se li avessi da sempre tenuti all'oscuro della mia vera identità, o semplicemente di una verità a me nota.

"Il prescelto?" ripeté Kariot.

"Giuro che non so di che parla!" risposi, agitando le mani.

Un'atmosfera di meraviglia si riversò nel corridoio e la paura parve scemare e scrollarsi di dosso.

"Mi presento!" disse la voce del grattacielo. "Il mio nome è R.E., sono un'intelligenza artificiale creata dal dottor Goethe, uno scienziato di fama mondiale, poco prima della diffusione epidemica. Ho la facoltà di rendere questa struttura invisibile all'occhio umano, tanto è vero che il mio compito principale è stato, fino ad oggi, quello di difendere il grattacielo da persone malvagie e spudorate. Dovete sapere che il dottor Goethe era un visionario, possedeva capacità innate e aveva tra le mani dei progetti che avrebbero potuto cambiare il mondo, se solo fosse sopravvissuto più a lungo. Prima della sua morte, comunque, riuscì a inventare un sistema di diffusione di radiazioni delta, in grado di trasmettere in sogno, solamente alle mente più nobile, l'esistenza di questo posto. Il dottor Goethe pensava che un uomo tra tutti, forte d'animo e di spirito, sarebbe sopravvissuto all'epidemia e rifondato, con tenacia, la civiltà terrestre. Tuttavia dovete scusarmi se, nel tempo libero, ho preferito far apparire questo luogo agli occhi di alcuni esseri umani che meritavano, secondo i miei calcoli, di morire."

A un tratto i miei occhi scorsero il mondo sotto una luce nuova, immaginando un futuro diverso da questo. Le informazioni appena ricevute avevano creato un vortice di colori nel mio cervello, dei brividi caldi lungo il corpo; domande a cui adesso potevo dare una risposta, risposte che ora concepivano altri interrogatori. Ero stato travolto da una responsabilità talmente grande, da non sapere se fossi mai stato in grado di gestirla. Rifondare la civiltà terrestre? Come, dove, perché? Lo sguardo dei miei compagni d'avventura era esterrefatto. Attraverso gli occhi tentavo di capire i loro pensieri, le loro paure, le loro considerazioni al riguardo. Un attimo dopo capii che Dio non si era dimenticato di scrivere la mia storia; il suo disegno mi era stato appena mostrato e, forse, avrei potuto ottenere il mio lieto fine.

"Come ti senti, Kephas?" domandò la voce metallica. "Ho ancora molte cose da farti vedere."

"E io voglio vederle," dissi di getto "senza perdere altro tempo", e mi voltai verso la porta rosso fuoco.

"Perfetto!" disse R.E. "Una volta varcata la porta, avrai l'opportunità di imparare dal migliore scienziato esistito negli ultimi tempi. Dovrai seguire alla lettera qualsiasi cosa il suo ologramma ti dirà di fare, e ti assicuro che non sarà per niente facile. Il tuo viaggio è appena cominciato, Kephas. Auguro a te, e alla tua squadra, di passare giorni felici."

Un passo dopo l'altro raggiunsi la porta rosso fuoco; alle mie spalle disponevo di un gruppo di persone valorose e determinate. Mi avrebbero sostenuto in questa nuova avventura, proprio come fratelli e sorelle che non avevo mai avuto. Allora dissi: "Siete pronti?"

Uno a uno poggiarono le mani sulle mie spalle. Quel momento tanto agognato si stava per avverare; fremetti all'idea di conoscere colui che ci avrebbe guidato verso la rinascita del mondo. Feci per aprire la porta e questa si schiuse all'improvviso, sprigionando uno sfiato di vapore grigio cenere verso l'interno della stanza. L'ologramma del dottor Goethe era proiettato al centro di una sala ovale, e ci stava aspettando.

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