Capitolo 8 - Lui è tornato (R)
Genova - 23 marzo 2026
Kephas.
La tramontana soffiò fino alle prime luci dell'alba. Il cielo era terso; bave di nuvole striate sembravano incollate ad esso, la tempesta era ormai sepolta nell'oceano. La pesante imbarcazione saliva e scendeva sulle onde mansuete, trattenuta dall'ancora in una larga baia e noi, in piedi sulla terraferma, la guardavamo per un'ultima volta, prima di rivolgerle un affettuoso addio. Sulle sponde di cemento giacevano irrigiditi i corpi che erano stati sospinti a terra dalle acque; il mare sapeva essere molto cattivo. Respirai a pieni polmoni: ci attendeva un lungo tragitto.
"Chissà cosa il fato ci offrirà questa volta" pensai, con aria assorta.
Il vento si era acquietato da poco. L'aria era fresca, l'acqua e l'asfalto odoravano di salso. Genova non era poi così diversa dalla mia città natale: i negozi abbandonati, gli edifici fatiscenti, le strade in rovina. Tutto quanto ricordava giorni infelici. Simone vide un pullman e lo fece presente.
"Sarà meglio imboccare l'autostrada con quello. Viaggeremo tutti insieme e più protetti."
Un cenno con la testa era bastato per procedere verso la gigante autovettura. A ogni passo il panorama diventava sempre più deprimente, come se il cuore del degrado si facesse sempre più vicino. La zona era disabitata; gli edifici erano gusci anneriti o cumuli di macerie.
Vidi un palazzo che spiccava come un fiore solitario in un parcheggio, con le finestre e le tende di merletto, le eriche e le imposte dipinti a colori vivaci: un'isola di speranza in quella terra desolata. Inspirai profondamente. I nostri passi erano gli unici rintocchi che si udivano sulla terraferma, mentre in cielo i gabbiani lanciavano i loro rochi richiami, per poi scendere in picchiata e sfiorare le onde del mare. I nostri zaini, caricati sulle spalle, rimbalzarono un'ultima volta sulla schiena, emettendo un suono secco.
"Che schifo!" esclamò Lux.
I gradini del pullman erano sporchi di sangue e alcuni residui ossei erano sparsi sulla gomma che rivestiva l'entrata. Il volto dell'autista era spremuto contro il volante e i suoi larghi vestiti, in parte strappati e fatti a brandelli, fasciavano un corpo smilzo e sprovvisto di braccia. Taddeo lo afferrò dalla schiena e lo gettò fuori sull'asfalto, davanti gli occhi disgustati di Lux. L'aria fetida di quel cadavere condusse i più sensibili ad avere conati di vomito.
"Che uomo!" esclamò Alessio, con fare sarcastico. "Adesso sì che sembri un vero camionista."
Taddeo lo guardò con la coda dell'occhio, sorrise e si sedette sul sedile del conducente, pronto a far partire quell'ammasso di lamiera d'acciaio. Quando salimmo a bordo, Lux spazzò via i residui ossei sparsi all'entrata del mezzo, frugò frettolosamente nel suo zaino, prese un deodorante al muschio bianco e iniziò a spruzzarlo dappertutto.
"Inspirate aria buona, gente" disse felice, spaparanzandosi su un sedile anteriore.
Il resto del gruppo si sistemò in maniera sparpagliata lungo il corridoio del pullman, composto da due sedili per lato, occupandone metà per gli zaini. Kariot guardò Lux con la coda dell'occhio, quando le passò accanto.
"Devo creare un profumo al whisky" pensò ad alta voce, fermandosi in mezzo al corridoio. "Quella sì che sarebbe aria buona."
Lux chiuse gli occhi e cacciò fuori la lingua, stringendola tra le labbra. Kariot sorrise e si mise a sedere. Taddeo accese il quadro, azionò il tergicristalli per eliminare la condensa e la polvere formatasi sul parabrezza, e avviò il motore: il serbatoio era pieno. Prima di partire, il camionista fece riscaldare le tubature del mezzo per qualche minuto, affondando di tanto in tanto il pedale dell'acceleratore. Nel mentre raggiunsi l'ultima fila del pullman, composta da cinque poltrone libere in schiera.
Mi lanciai di peso sopra quella centrale, adagiando il mio zaino per terra. Decidi di dare un'occhiata al suo interno: provviste alimentari, farmaci e oggetti ludici. Afferrai il mio vecchio stereo portatile alimentato da un paio di batterie ricaricabili, incastrai l'auricolare destro all'interno del mio orecchio e sparai il suono al massimo, lasciando penzolare in basso l'auricolare sinistro.
"Tenetevi forte!" disse Taddeo con aria frizzante. "Si parte."
Il pullman sfiatò un attimo dopo e le sue ruote iniziarono a muoversi. In tutta la mia vita non ero mai uscito dalla mia città e non pensavo ci sarebbe voluta l'estinzione della razza umana per visitare il resto del Paese. Tuttavia non eravamo partiti per un giretto turistico; avevamo un obiettivo da perseguire e c'era ancora parecchia strada da fare. Imboccata l'autostrada, Taddeo spinse il pullman a una velocità elevata. Un silenzio misto di stupore pervase ognuno di noi quando ci accorgemmo che le carreggiate erano sgombre e che, al contrario, i guardrail erano tappezzati da cannibali privi di vita.
"Ma che succede?" disse Alessio, incollando i suoi occhi al finestrino.
"Non sembra per niente una casualità" rispose Kariot.
"Che intendi dire?" domandò Lux.
"Niente!" esclamai. "Sono passati circa tre anni dall'origine dell'epidemia... non possiamo sapere cosa abbia spinto gli abitanti di questa terra ad agire in questo modo."
Nessuno replicò. I nostri occhi rimasero fissi su quello scenario ancora per un po', poi distolsero l'attenzione altrove, come se d'un tratto si fossero abituati alla circostanza. Dopo un'ora e mezza di strada, si sentiva solo il rotolio delle ruote sull'asfalto, e si vedevano gli alberi delle campagne verdeggianti, simili a infinite pareti color mela acerba. Una farfalla si poggiò su un finestrino del pullman: le sue ali arcobaleno sbatterono una volta, poi si diressero altrove.
Rimasi estasiato da cotanta bellezza, ma allo stesso provai una sensazione di invidia: quanto sarebbe stato bello volare su quei paesaggi senza fine, assaporando ogni attimo della vita. Le palpebre si congiunsero lentamente, allietate da quei pensieri, fino a quando una manovra brusca mi portò il cuore in gola. Taddeo sterzò di colpo a destra, le gomme stridettero, i colori del panorama si mischiarono tra loro. Il pullman perse aderenza, sbandò e prese in pieno il guardrail. L'urto scaraventò il mio corpo lungo il corridoio centrale e il mio cervello divenne un frappé dentro la scatola cranica.
Il pullman si inclinò a destra, poi a sinistra, dopodiché un avvallamento di terreno lo capovolse di lato, facendolo strisciare per una decina di metri dentro la campagna. Il suono del metallo che sfregava l'erba, del vetro che andava in frantumi, e delle grida di terrore mi risuonarono nelle orecchie, mentre un susseguirsi di colpi e urti mi tolse il fiato. Lo schianto contro un albero arrestò la furia del pullman. Quando mi rialzai non ero più al mio posto, ma accanto al sedile del conducente. Mi sentivo così intontito e confuso che mi sembrava ci stessimo muovendo ancora. Barcollai un attimo; almeno le urla erano cessate. Sentivo solo un fischio nelle orecchie. Mi guardai intorno. Avevo la vista un po' appannata, qualcosa di caldo e umido mi colava tra le ciglia, provavo dolore alla spalla.
"Cribbio!" esclamò Giovanni. "Ma cosa è successo?"
I miei compagni erano coperti di tagli, ma per fortuna erano tutti vivi. Si sollevarono uno dopo l'altro, si scrollarono di dosso i pezzetti di vetro e si guardarono intorno, toccandosi le ferite sul volto. Taddeo, invece, non era più nell'abitacolo. Il parabrezza era in frantumi e lui giaceva immobile su una distesa di frammenti di vetro qualche metro più avanti. Un dolore devastante rimbombò nella testa, ma cercai di resistere e andarlo a soccorrere. Quando giunsi sopra il suo corpo, disteso sui prati fioriti, egli si rimise in piedi da solo. Non aveva nemmeno un taglio, non barcollava, non sembrava neppure intontito. Toccandosi le guance, guardò il parabrezza del pullman, e disse: "Sarei dovuto morire!".
Lo fissai con aria stupita, mentre con la mano destra tamponavo il sangue che fuoriusciva dalla mia fronte.
"Taddeo, cosa è successo?"
Egli mi rivolse uno sguardo disorientato. Nel frattempo il resto del gruppo scese dal pullman e ci raggiunse.
"Un uomo!" disse, con gli occhi strabuzzati e la bocca aperta. "Un uomo è apparso all'improvviso in mezzo alla carreggiata."
"Un uomo hai detto?" replicò Kariot. "Che tipo di uomo?"
Taddeo rifletté un attimo, sospirò e disse: "Un prete... sembrava un prete!".
Un brivido di freddo mi percorse la schiena. Kariot mi fissò, sorpreso. Poi si mise a correre verso l'autostrada e allora lo seguii, insieme al resto del gruppo. Uno scenario paradossale si estese davanti ai nostri occhi: non vi era alcun prete ad aspettarci. D'altra parte, i cadaveri adagiati in schiera sui guardrail adesso si trovavano, come per magia, distesi e ammassati sopra l'asfalto.
"Com'è possibile una cosa simile?" domandò Lux, con la bocca spalancata.
"Saremo costretti a continuare a piedi" sussurrò Kariot, con gli occhi strabuzzati.
"E se fosse un segno?" domandò Taddeo. "Un modo per dirci di non andare oltre?"
"Impossibile!" esclamai. "Non abbiamo altra scelta. Non ci rimane nient'altro che questo. Se quel prete ha qualcosa da dirci, che ce la venga a dire!"
Nelle due ore successive Simone e Alessio si presero la briga di medicare tutti i presenti. Il sole era ancora tiepido e osservava la natura risplendere nel suo giallo paglierino. Le acque del Ticino luccicavano davanti ai nostri occhi e ci informavano di aver percorso gran parte del nostro viaggio. Non rimaneva altro che armarsi di pazienza e coraggio, prendere gli zaini e proseguire a piedi.
"Mancheranno sì e no trenta chilometri" dissi, guardando l'orizzonte. "Che le gambe siano con noi."
Durante la marcia, interrotta da frequenti soste, parlammo del prete e del suo ritorno inaspettato. Taddeo confidò a tutti noi di non averlo mai visto prima, cosicché pensai che, quella vista da lui, potesse non essere la stessa persona che avevo conosciuto a Palermo.
"Sei riuscito a vedere il suo volto?" domandai al camionista.
"Sì, diciamo di sì" rispose.
"Potresti disegnarlo sul tuo album?"
"Posso provarci, Kephas."
In passato, Taddeo ci aveva mostrato la sua innata capacità nell'arte della pittura. In quell'occasione ci aveva raccontato quanto, sin da piccolo, amasse guardare la scia di stelle che splendevano nel cielo, immaginando e dipingendo mondi lontani dalla sua realtà. Quale modo migliore di sfruttare la sua abilità, se non in questa circostanza, avevo pensato benignamente. Dopo l'ennesima sosta e uno spuntino al volo, Taddeo iniziò a disegnare quel volto misterioso e tutti quanti, curiosi e impazienti, restammo in silenzio a guardare. Quando finì il suo lavoro e lo fece vedere ai presenti, ogni dubbio svanì come un peso affogato in acque profonde.
"Lui è tornato."
Un brivido serpeggiò sulle mie braccia: adesso ne avevo la certezza. Ma non potevo fermarmi, non adesso. L'intontimento dello schianto era stato grave a tal punto da farci procedere a passo molto lento. Le gambe erano molto stanche, così come gli occhi. Gli alberi disegnarono lunghe ombre sull'erba scompigliata dal venticello, e protesero i rami carichi di foglie verso un cielo che si preparava al tramonto. Nonostante avessimo raggiunto una buona meta, e mancassero ormai una quindicina di chilometri, dovevamo trovare una sistemazione per la notte. Avremmo raggiunto il Duomo di Milano all'indomani. Kariot prese il binocolo che aveva appeso al collo, fece un giro su stesso e protese un braccio verso est.
"Vedo una fattoria a cinquecento metri."
Poi lasciò cadere il binocolo sul petto e mi guardò.
"Bene!" dissi. "Raggiungiamola. Passeremo la notte lì."
Sebbene eravamo sicuri di non trovare anima viva all'interno di quell'abitazione, ognuno di noi impugnò la sua arma e la protese in avanti, camminando a passo sostenuto. Da lontano vidi una capanna di legno circondata da un campo adibito per le coltivazioni; alla sua destra vi era un recinto volto a contenere pecore, capre e vacche, adesso inerti al suolo, mentre alla sinistra vi era una stalla per metà nascosta dalle erbacce. Tuttavia la natura, per quanto incolta, alta e rigogliosa, non sembrava essere stata abbandonata da molti mesi.
Gli ultimi cinquanta metri li attraversammo correndo. Simone scavalcò le erbacce, attraversò un portico di legno e con un calcio buttò a terra la porta d'ingresso. Entrai dopo di lui e a seguire tutti gli altri. All'interno vi era solo una coppia di anziani: l'uomo era seduto su una sedia a dondolo e cullava la moglie adagiata sopra le sue gambe. Entrambi avevano i vestiti logori, la schiena ricurva e gli occhi che, per quanto aperti, sembravano assorti in un dormiveglia. Avrei voluto crederli addormentati, sepolti qui dentro, a custodire questo che era il loro mondo meraviglioso. La capanna, composta da un'unica grande stanza, era acconciata da una vecchia poltrona malridotta, un tavolo di legno sporco di sangue, un materasso macchiato dalla muffa, qualche cuscino e un piccolo camino ad angolo.
Kariot posò per terra il suo zaino e accese il fuoco con il poco legname che i due vecchi avevano lasciato prima di morire. Sarebbe bastato per qualche ora, dopodiché l'oscurità avrebbe avvolto ogni cosa. Ben presto però la grande luna dorata sarebbe sorta dagli orli del mondo, per inondare di luce la terra; allora avrebbe potuto attraversare con il suo tocco delicato le finestre della dimora. Ognuno di noi si sistemò sul pavimento per la notte, utilizzando gli zaini come cuscini.
Arrivata la sera, mi sedetti su una vecchia sdraio nel portico, a guardare il cielo. Il bel tempo assolato era finito, e il calar del sole portava con sé il freddo. Adesso il paesaggio sembrava più lunare che terreno e in quel momento, con solo i miei ricordi, lo osservai oscurarsi e cambiare. Il mio ultimo pensiero con un tonfo al cuore fu un saluto alla mia nonna, la donna più dolce del mondo.
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