Capitolo 7 - Pericoli in agguato (R)


In viaggio verso Genova - 23 marzo 2026

Kephas.


La pace di un'insolita notte, coccolata dalla culla dell'oceano, vide un nuovo nemico: inspiegabile, improvviso, paranormale. Aveva intrappolato lo scafo della nave in un'area circoscritta, castigandolo a mulinare su se stesso senza una meta. Con un preavviso fittizio, si era impossessato delle onde, del vento, del cielo e di ogni parte dell'imbarcazione; da prua a poppa, passando per il ponte di comando fino a serpeggiare tra le cabine dei dormienti, maltrattati e costretti ad abbandonare le loro soffici lenzuola con largo anticipo. Ovunque mi girassi tentavo di capire cosa stava accadendo, ma una serie di emozioni rantolanti offuscava la lucidità dei miei pensieri.

Mi trovavo sul ponte di comando, alla ricerca di un'idea che pareva sfuggente. Il mio cuore batteva ancora forte nel petto, nonostante il nemico mi avesse svegliato di soprassalto già da un paio d'ore. Eppure non si era comportato in egual misura con tutti; mentre Simone tentava invano di controllare la nave, Alessio di dargli inutilmente una mano, Lux di sostenere in malo modo i due fratelli, Kariot di tracannare per intero una bottiglia di whisky, e i due ingegneri di trovare una soluzione a un disastro imminente, il resto del gruppo era stato colpito da forti attacchi di nausea, e dunque costretto a rimanere nella propria camera.

Il mare che dapprima sembrava un grosso cane addormentato che ronfava sommesso, adesso pareva rabbioso e affamato, e le rapide onde orlate di bianco, che in passato apparivano e fuggivano come farfalle impazzite, al momento venivano gonfiate e appagate da un vento teso e ruggente, sollevando e abbassando la nave in un'altalena continua. Una tempesta di fulmini cadeva deforme dal cielo, disegnando un cerchio perfetto sul mare. La nostra nave raffigurava il centro della circonferenza, mentre i raggi venivano attraversati da onde impetuose.

Con dei possenti boati, incalzati da una serie di tuoni, una cupola elettromagnetica si era formata sopra quel cerchio, raggiungendo un diametro di oltre cento metri e un'altezza di chilometri e chilometri, visibile solo con il telescopio di navigazione. Nessuna luna, nessuna stella; grosse nubi nere come la morte possedevano ormai ogni infinita cavità del cielo.

"Non ho mai visto nulla di simile" aveva urlato Simone, poco dopo averci chiamato a raccolta sul ponte di comando.

La ruota del timone era bloccata. Il militare più grande cercava di spingerla con tutte le sue forze verso destra, poi verso sinistra. Scoraggiandosi dopo ogni suo vano tentativo, scagliava un potente calcio alla bussola fissata al centro del timone, fuori uso da un pezzo. E così la nave continuava a girare senza guida in tondo, in cerchi sempre più larghi; prima o poi avrebbe raggiunto la parete della cupola elettromagnetica, allora Dio avrebbe dovuto compiangere le sorti del nostro destino. Una cosa era certa: Simone si era reso conto, con disperata sicurezza, che la sua nave era perduta con tutti quelli che si trovavano a bordo.

"Se questa è la fine, voglio morire sbronzo!" aveva borbogliato Kariot, così ubriaco da barcollare avanti e indietro, con una bottiglia di whisky in una mano e un libro molto spesso nell'altra.

Kariot non era per niente d'aiuto; la sua presenza era inutile e fastidiosa come una schedina vincente del superenalotto in un'era post-apocalittica. Ogni tanto sfogliava il libro che teneva tra le mani, "Angelo, guarda il passato" di Thomas Wolfe, e leggeva alcuni versi con smoderata enfasi, manco fossero i passi della Bibbia.

"Non può essere opera del caso!" aveva esclamato Alessio, con gli occhi spalancati oltre il gigantesco e spesso vetro della plancia.

Il militare più giovane sembrava avere i nervi a pezzi. Girava nella sala comandi aprendo cassetti e sportelli in cerca di qualcosa; forse un pacco di sigarette o magari un po' di marijuana per alleggerire la presenza oscura della morte. Nonostante fossero passati circa due anni da quando aveva smesso di fumare, le sue palpebre sbattevano in continuazione per effetto di un tic nervoso, e le sue mani tremavano come quelle di un drogato in piena crisi di astinenza. Di sicuro, l'incapacità di controllare la direzione della nave non faceva altro che alimentare in lui una crescente frustrazione.

"Simone, Alessio. La vita di tutti noi è nelle vostre mani!" aveva espresso Lux con grande angoscia, addossandogli con prepotenza tutto il peso della circostanza.

Il suo corpo era teso come se sotto la pelle pallida avesse una molla d'acciaio tirata con una forza spropositata. Forse pensava che se la nave fosse affondata, lei sarebbe stata la prima a morire, dal momento che non sapeva nuotare. La sua schiena era appoggiata, in segno di resa, contro uno scaffale a più ripiani, colmo di strumenti, manuali e libri inerenti la navigazione. Le sue parole dure e pesanti avevano solo peggiorato lo stato d'animo dei due fratelli. Il suo forte senso di ottimismo si era smarrito al porto di Palermo, poco prima di partire. Più mi giravo attorno e più vedevo essere umani vuoti, la cui speranza veniva soffocata dalla paura e boccheggiava con un filo di fiato a tratti strozzato.

"È come se fossimo intrappolati all'interno di un gigantesco campo elettromagnetico" aveva esposto Giovanni con incredulità, davanti al suo portatile, assorto nella lettura di nozioni di fisica, elettronica e magnetismo.

Con fare nervoso tamburellava l'indice sull'asta dei suoi occhiali, strofinava il palmo della mano sulla superficie lucida della sua calva chioma, e distoglieva lo sguardo dallo schermo, sbuffando.

"Questo scenario fantascientifico mette i brividi" aveva sussurrato per ultimo Filippo, seduto per terra con il suo portatile sopra le gambe, e lo sguardo perso sul soffitto.

Al contrario dei presenti, lui non sembrava affatto terrorizzato, e conoscevo bene il perché. In passato, in un periodo di forte sconforto, mi aveva detto: "Il desiderio di morire è un enorme buco nero che sembra risucchiare tutta la mia energia. Tutti si oppongono a questo mio impulso, ma non capisco il perché. Chissà se un giorno la morte arriverà anche per chi la cerca, ma non la trova".

La tempesta di fulmini crebbe di intensità, creando arabeschi di luce nell'oscurità della notte. In alcuni istanti, il cielo sembrava esplodere in vampate di luce roventi, seguite da sfarzosi tuoni reboanti.

"Serve un'idea!" avevo esclamato dopo di loro, stringendo i pugni. "Una buona idea! Anche folle, non importa. Ne usciremo vivi solo se saremo tanto pazzi da saper osare."

Il ponte di comando ero ormai un luogo simile a qualsiasi altra parte della nave: inutile. Le dotazioni nautiche e le apparecchiature elettroniche come il timone, la bussola, il radar e i controlli del motore erano fuori uso. Ogni tanto tutto tornava in funzione, ma solo per un minuto, dopodiché il campo elettromagnetico alterava di nuovo i valori dei dispositivi della sala, fino a farli impazzire.

"Lux!" borbogliò Kariot, ubriaco. "Amica mia! Dove sei?"

L'archeologa, anche se indispettita dal suo atteggiamento arrogante e presuntuoso, si precipitò sopra di lui. Kariot era disteso per terra, e stringeva una bottiglia di whisky ormai vuota. La testa piegata di lato e adagiata sulla spalla. Lux si chinò sulle gambe e si avvicinò al suo viso.

"Cosa c'è, Kariot?" chiese con tono premuroso.

"Stringimi forte, Lux!" strillò Kariot. "Ti aiuterò io a nuotare."

Filippo si alzò da terra e camminò dritto davanti a sé, con in mano il suo portatile. Attraverso il vetro frontale della plancia fissò il cielo.

"I satelliti!" pronunciò secco.

Giovanni si sollevò dal pavimento e si aggrappò a un tubo di metallo che sporgeva dalla parete della sala, lasciando il computer sul pavimento. Poi, con l'aria agitata di uno che stesse per formulare una nuova teoria scientifica, disse: "Potremmo utilizzare il tubo catodico della costellazione satellitare per sparare un flusso di elettroni sulla cupola elettromagnetica che ci tiene imprigionati, e sperare che questa si annulli e ci lasci liberi".

Lo guardai con un'espressione stupita. Giovanni fece qualche passo in avanti, poggiando la mano contro il mento.

"Sono un genio!" esclamò.

Le sue guance si gonfiarono, mostrando due fossette ai lati della bocca. Filippo aggrottò le sopracciglia, la fronte s'increspò di conseguenza, e gli occhi emersero lucidi come quelli di un cucciolo appena abbandonato.

"Ma lo stavo per dire io!"

Giovanni ammiccò con un lampo d'ironia nello sguardo, sollevando il pollice della mano destra chiusa a pugno.

"Sì, ma l'ho detto io!"

Filippo storse la bocca.

"Ma non vale, mi hai fregato l'idea."

Giovanni mise il broncio, come se qualcuno gli avesse rotto il giocattolo preferito.

"Sei arrivato tardi, vecchio mio."

I due si avvicinarono, incrociando i loro sguardi.

"Sei un impostore da strapazzo e un ladro di idee" disse Filippo.

"E tu una lumaca piagnucolosa" rispose a tono Giovanni.

"E tu una testa vuota come la tua chioma."

"E tu un professore supplente di ginnastica."

"Basta!" urlai, afferrando i due per il bavero della maglietta. "Vi sembra questo il momento di litigare?"

I due ingegneri continuarono a guardarsi con un'aria di sfida, sebbene mi trovassi in mezzo. Non capivo più se quei due stessero scherzando oppure facessero sul serio, ma in ogni caso il loro era un comportamento ingiustificabile.

"Assurdo!" dissi. "Ma avete visto cosa c'è là fuori?" Le mie mani sciolsero la presa dai loro baveri e scesero lungo i fianchi, chiudendosi a pugno. "Cercate di collaborare, non di fare a gara a chi ci salverà per prima... ammesso che ci riusciate."

Filippo mostrò un sorriso imbarazzato.

"Volevo sdrammatizzare Kephas, scusami...", poi diede una pacca sul braccio di Giovanni, mostrando una smorfia. "Forza testa pelata, dobbiamo portare questa nave a Genova."

L'ingegnere elettronico rinnovò il suo broncio e distolse lo sguardo da Filippo.

"I miei capelli sono caduti in anticipo a causa della mia eccessiva saggezza", poi raggiunse di nuovo il suo portatile e si chinò per terra, sedendosi sul pavimento con la schiena poggiata a una parete della sala. "Ma che te lo spiego a fare, non lo capiresti nemmeno se il buon Dio decidesse di darti un po' della mia intelligenza."

Filippo sghignazzò senza replicare. Dopodiché si andò a sedere accanto a Giovanni, poggiò il suo portatile sopra le gambe e iniziò a pigiare a raffica una serie di tasti.

"Dici di utilizzare il tubo catodico per sparare un flusso di elettroni sulla cupola elettromagnetica, eh?" domandò l'ingegnere informatico, con un'aria improvvisamente seria.

"Non vedo alternative" rispose Giovanni.

"Bene!" replicò Filippo. "Non funzionerà, ma se dovesse funzionare... saremo salvi."

Lux emise un verso di stupore.

"Come non funzionerà?"

Giovanni distolse lo sguardo dal suo portatile e la fissò.

"Punto primo: il campo elettromagnetico non ci permette di sintonizzarci con i satelliti. Per procedere, dobbiamo aspettare il periodo di tempo in cui la sua intensità si normalizza. E, da quanto abbiamo notato in precedenza, questo periodo dura poco più di un minuto, dopodiché i valori tornano ad alterarsi. Punto secondo: tutto ciò è solo una teoria, non abbiamo mai affrontato nulla di simile."

Lux rimase in silenzio e si fece da parte. Le onde, già violente, diventavano più forti a ogni assalto del vento, e l'oceano si era trasformato, come il dottor Jekyll, nella furia di Mister Hyde. L'archeologa sapeva che le sue domande fossero una perdita di tempo per i due ingegneri, e lo sapevano anche Simone e Alessio. I due fratelli, infatti, scrutavano da tempo il mare attraverso il gigantesco vetro della plancia, rassegnati a qualsiasi destino ci sarebbe toccato. Kariot, invece, si era addormentato per terra, rannicchiato. Avvolto da un velo di preoccupazione, mi avvicinai ai due ingegneri, sedendomi sul pavimento accanto ai loro terminali.

"Quali sono i rischi?" domandai.

"Direi diversi" rispose Filippo. "Le nostre sono teorie campate per aria."

Il vento crebbe fino a ululare: le onde combattevano le onde, cozzavano insieme, si spezzavano, diventavano matte sprigionando bava anziché sangue, con un frastuono da far tremare qualunque uomo.

"Non preoccuparti, Kephas" disse Giovanni, con tono rassicurante. "Siamo sopravvissuti talmente tanto a lungo, da sapere che questa non sarà la fine."

Filippo pigiò un tasto e rimase in silenzio a contare a bassa voce.

"Io sono pronto!" esclamò dopo tre secondi.

"Io aspettavo te" rispose Giovanni, sistemandosi gli occhiali. "Non appena l'intensità del campo elettromagnetico si ristabilirà, tu metterai in funzione il tubo catodico e ti assicurerai che tutti i valori siano nella norma, mentre io inserirò le coordinate e sparerò il flusso di elettroni sulla cupola che ci tiene imprigionati."

I nostri sguardi rimasero sospesi nel vuoto, così come le nostre anime. Per diversi minuti, il silenzio venne deturpato soltanto dai continui schiaffi della tempesta, la cui furia fece piegare quasi del tutto la nave verso destra, e poi verso sinistra, rendendo arduo il nostro lavoro.

"Adesso!" urlò Giovanni, voltandosi verso Filippo.

Alla velocità della luce, l'ingegnere informatico pigiò una serie di tasti sulla tastiera del suo terminale. Sullo schermo apparve la costellazione di satelliti artificiali che orbitava intorno al pianeta Terra, e poco sotto una serie di informazioni che riguardavano lo status della struttura. Ogni messaggio, proveniente dallo spazio, compariva sul monitor colorato di verde. Filippo arrestò il movimento rapido delle sue dita, fissò lo schermo e, un istante dopo, premette invio.

"Tocca a te!" esclamò, voltandosi verso Giovanni.

Come un fulmine, l'ingegnere elettronico si sistemò gli occhiali, e iniziò a inserire una serie di dati numerici sulla tastiera del suo terminale. Dopo una dozzina di secondi, immobilizzò le dita, trattenne il respiro e strizzò gli occhi. Le sue guance si raggrinzirono, e delle grosse vene apparvero sul collo. Poi gettò tutta l'aria accumulata nel torace, spalancò le palpebre e premette con forza il tasto dell'invio. Filippo e Giovanni si guardarono negli occhi, impazienti di assistere al frutto della loro folle idea. Con un balzo poderoso raggiunsero il vetro della plancia, portando con sé i loro portatili. Un attimo dopo ogni presente fissava il cielo, a parte Kariot che, ubriaco come una spugna, dormiva indifferente a ciò che stesse per accadere.

Le acque impazzite del mare scagliarono correnti ancor più impetuose contro la nave, sferrando colpi implacabili da direzioni diverse. I venti raggiunsero una velocità inaudita, con onde che toccarono i dieci metri d'altezza. All'improvviso, un raggio luminoso perforò le tenebre del cielo. Il mio cuore perse un battito, il respiro si fermò in gola. Stupore misto a paura pervase gli occhi.

Il raggio energetico sbucò dal nulla dietro le nuvole nere, le spazzò via disintegrando la loro consistenza e cadde sopra la cupola elettromagnetica. Nell'oscurità della notte, priva di luna e di stelle, il bagliore di quel raggio rischiarò l'oceano. La cupola elettromagnetica iniziò a ondeggiare su se stessa, ma la sua densità non sembrò subire alcun danno.

"Che succede?" domandai, voltandomi verso i due ingegneri.

Granelli di sudore solcavano i loro volti.

"Non funziona!" rispose Filippo.

Le sue palpebre si socchiusero, le labbra spalancate mostrarono i denti digrignati.

Il raggio energetico continuò a scagliarsi contro la cupola: la circonferenza si aggirava intorno ai cinque centimetri, mentre la lunghezza sembrava infinita. La cupola tremava, ondeggiava, si plasmava come acqua percossa di continuo da piccoli sassi. All'improvviso emanò una luce particolare: più intensa, accecante, paurosa. L'intensità del suo campo elettromagnetico si alterò di colpo, facendo impazzire i valori di ogni strumento della nave. Le lancette delle bussole disegnarono cerchi completi, la radio si accese da sola ed emise un fruscio sommesso, i radar si annerirono eliminando la nave dalla faccia della terra.

Giovanni piegò lo sguardo sullo schermo del suo portatile e la fronte si increspò insieme alle sopracciglia. Filippo, al suo fianco, guardò prima il suo monitor, poi quello dell'amico ingegnere. I suoi occhi si spalancarono come se fosse stato colpito da un fulmine.

"Oh, oh!" disse. "I dati numerici immessi da Giovanni stanno aumentando a dismisura."

"Che vuol dire?" domandai con un filo di voce allarmato.

Il mio volto divenne di un pallore spettrale.

"Che molto presto diventeremo cenere" rispose l'ingegnere elettronico.

Filippo distolse lo sguardo dallo schermo e mi fissò con le palpebre tremolanti e le labbra asciutte. Il raggio energetico, emesso dal tubo catodico della costellazione satellitare, raddoppiò la sua circonferenza in un baleno, spazzando via sempre più nuvole dal cielo. Poi, contro ogni previsione, la cupola elettromagnetica iniziò a riportare dei piccoli fori lungo la superficie circolare.

"Cosa succede, adesso?" chiesi.

La mia voce risuonò stridula e attonita.

"Non capisco" rispose Giovanni. "Le coordinate del raggio non sono variate, mentre la scarica elettrica sta raggiungendo valori altissimi. La cupola sta cedendo."

Filippo poggiò il suo terminale per terra e si avvicinò ancor di più al vetro della plancia. Il suo sguardo alto viaggiò verso destra e verso sinistra, accigliandosi e stirandosi.

"Forse non tutto è perduto."

Il raggio quadruplicò la sua circonferenza e si estese sulla cupola formando uno strato spesso di energia. I piccoli fori in superficie si dilatarono, emisero uno stridio acuto, si accesero come ponti verso il paradiso. La cupola elettromagnetica sembrava una lastra di vetro circolare, e i fori in superficie piccole schegge di cristallo. Quando il raggio energetico raggiunse una circonferenza pari a dieci volte quella originaria, assistemmo a un'implosione silenziosa quanto accecante.

Lame di luce colpirono l'oceano, la nave e il cielo. I miei occhi si chiusero d'istinto, le mani coprirono il volto, eppure un riverbero bianco accecò lo stesso la mente. Allora contai fino a dieci, poi schiusi le palpebre. La prua si abbassò beccheggiando, sommersa da un'ultima onda che invase i ponti scoperti.

La nave rollò di trenta gradi, sprofondando sott'acqua fino alla battagliola di dritta. Dunque si raddrizzò lentamente, quasi con indolenza, lasciandosi alle spalle la tempesta peggiore che l'oceano avesse mai ospitato. Vidi accendersi la prima stella nel cielo e poi attesi il risveglio delle altre, mentre con corpo e anima mi abbandonavo alla magia della speranza.

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