Capitolo 62 - Addestramento Aria (R)
Stella di David - Giorno Uno
Kephas.
Carponi, guardai alle mie spalle: il portale era scomparso. Nessun suono, non una voce, solo dei rochi lamenti sommessi... i nostri. Giacomo, al mio fianco, aveva il viso imperlato di sudore, le labbra tormentate dal respiro affannoso; rivoli d'acqua rotolavano giù dai corti capelli arancio rossastro, le vene pulsavano nel corpo massiccio. Lo sguardo preoccupato.
"La vedo dura" sussurrò, ansimando.
Erano passati un paio di minuti, forse ore o giorni dentro questa dimensione, e non ero riuscito a muovermi oltre il punto di partenza; la posizione carponi era stato il primo traguardo, sia per me che per Giacomo. La gravità del posto schiacciava ogni muscolo del corpo al suolo, comprimendo le ossa. L'aria rarefatta faceva fatica ad arrivare nei polmoni, e persino il sudore sembrava rigare lentamente le guance.
"Non è mai stato semplice" dissi a bassa voce.
L'unica cosa che allietava un principio di panico era la visione del paesaggio circostante. Il luogo, infatti, ospitava un'immensa terrazza naturale ricoperta da almeno dieci piante diverse; risaltavano petunie porpora e gerani lilla e rosa. In lontananza, le acque limpide di una cascata luccicavano come una costellazione composta da milioni di stelle.
"Qualcosa mi dice che dobbiamo raggiungere quella cascata" disse Giacomo.
"Già... Niente di più facile" risposi con sarcasmo.
Provai a sollevare una gamba e portarla davanti al bacino. Per quanto fosse semplice pensare di fare un gesto così basilare, la gravità lo rese esasperante, tanto da farmi perdere l'equilibrio e schiacciarmi al suolo, con la guancia pressata sui fili d'erba e i muscoli sfiniti.
"Tutto a posto?" mi domandò Giacomo.
"Sì!"
Spinsi le mani sul terreno e cercai di sollevarmi carponi con ogni muscolo del corpo; il movimento fu lento e macchinoso, stancante e fastidioso. Il cuore prese a battere più forte e il sudore inumidì la tunica. Il respiro piegò i fili d'erba e un velo appannò la vista per un istante. Sbattei le palpebre e le gocce di sudore rimasero impigliate alle ciglia; ebbi successo, ma la meta finale era ancora distante.
"Non riusciremo mai a raggiungere quella cascata!" sbottò Giacomo.
"Non ci siamo mossi di un millimetro e sono già stanco" replicai.
"Io sento addirittura il desiderio di riposare."
Sgranai gli occhi: quella frase mi attraversò la mente e scosse il circuito cerebrale delle riflessioni.
Che ne sapevamo noi del tempo? Qui le ore non passavano mai o scivolavano talmente in fretta da non rendercene conto. Le luci dell'alba si ancoravano dietro le montagne e forse la notte e il buio non esistevano nemmeno. La stagione primaverile sembrava scorrere in loop, troppo egoista o ingorda per lasciare spazio alle altre. Era una dimensione diversa, una di quelle in cui le emozioni duravano in eterno, dove gli istanti sembravano infiniti, allorché viverli equivaleva a riempirli dei più profondi significati.
Giacomo mi fissava con un leggero sorriso, le palpebre andavano chiudendosi. Fece un cenno con la testa come se, senza volerlo, gli avessi trasmesso i miei pensieri telepaticamente ed ora li stesse apprezzando in silenzio; allentò la tensione dei muscoli e si addormentò sull'erba. Istintivamente feci uno sbadiglio profondo, poi raccolsi una violetta adulatrice che cresceva flessuosa sul prato. Lentamente, mi gettai di lato e mi sdraiai sulla schiena; la morbidezza delle piante creava un lenzuolo che mi separava dalla terra dura.
"Forse non dovremmo riposare" sussurrai, senza ricevere alcuna risposta in cambio. "O forse questo fa parte dell'addestramento. D'altro canto il Maestro non si è fatto sentire, quindi aspetteremo di recuperare le forze, poi raggiungeremo la cascata... sempre messo che saremo in grado di rialzarci. Forse il riposo ci abituerà alla gravità."
Accarezzai i petali delicati e vellutati della violetta e ne respirai il profumo a occhi chiusi; esso mi trasportò giù per le colline, in un viaggio impressionante, sorvolando con la mente un susseguirsi di pendii dorati che sembravano galleggiare nell'aria. Quando il viaggio giunse al termine, ebbi un sussulto, e allora mi resi conto che la mia anima era rincasata nel corpo.
Sussultai un'altra volta e mi levai a sedere, spalancando le palpebre; il respiro era regolare, la sudorazione sotto controllo, i muscoli rinvigoriti. Giacomo era sveglio e ritto in piedi, al mio fianco. Le sue dita erano tese verso un albero carico di arance, distante una ventina di metri; con la forza del pensiero desiderò un frutto maturo, e questo si sganciò dal ramo appesantito e roteò nell'aria. Quando giunse nelle sue mani, egli sgusciò l'arancia dalla sua buccia e le diede un morso.
"Molto succosa!" esclamò. "Ah... bentornato, Pietro."
Preso d'invidia mi sollevai in piedi con estrema facilità e telepaticamente chiesi allo stesso albero di concedermi uno dei suoi frutti più deliziosi. Le foglie verdi danzarono come scosse da un brivido, dopodiché una delle arance si staccò da un ramo, fece un volteggio e roteò nell'aria. Quando giunse nella mia mano, la sbucciai e le diedi un morso.
"Che buona!" esclamai, con la bocca piena. "Ma quanto tempo sarà passato?"
"E chi lo sa" rispose. "Qui sembra tutto immobile..."
Mi guardai intorno. La brezza effondeva un suono ipnotico e ridondante; ogni tanto si intravedeva qualche creatura del cielo spiegare le ali con versi striduli, altre volte il vento smarriva la sua pigrizia e divorava il paesaggio con raffiche che facevano vibrare gli alberi. Quando mandai giù l'ultimo boccone, feci qualche passo in avanti e lasciai cadere sull'erba la scorza dell'arancia.
"Pietro!" esclamò Giacomo con una nota di stupore. "Hai camminato."
Mi voltai e lo fissai negli occhi, meravigliato tanto quanto lui.
"Non ci ho prestato nemmeno attenzione" dissi.
Rivolsi lo sguardo per terra e meditai; lo scorrere del tempo, per quanto ingannevole, aveva assuefatto i nostri corpi alla gravità della dimensione.
"Possiamo raggiungere la cascata, adesso" considerò Giacomo.
"Sembrerebbe di sì" risposi, ancora sorpreso.
Giacomo si alzò in volo e mostrò un ghigno di sfida.
"Facciamo a chi arriva prima!" disse, agitando un pugno davanti al corpo.
Distesi gli angoli della bocca, poi con uno scatto affondai le gambe al suolo, mi diedi uno slancio verso l'alto e mi staccai da terra. Ci guardammo negli occhi, entrambi sospesi a mezz'aria, intenti a sfrecciare all'orizzonte.
"Uno, due, tre!"
Neanche il tempo di prendere il volo e percorrere un paio di metri, che la gravità ci trascinò violentemente al suolo. Gli steli d'erba strappati e le guance in fiamme.
"Sembrava tutto fin troppo facile" borbottò Giacomo, dolorante.
Sputai saliva e granelli di terra, dopodiché mi levai in piedi con un balzo.
"Già!" dissi, stringendo i pugni. "Se vogliamo raggiungere quella cascata, dobbiamo allenarci."
Giacomo si sollevò in piedi a fatica, quasi controvoglia, e grugnì. Alcune diapositive a colori presero forma nella mia mente, venute in soccorso per favorire lo svolgimento dell'addestramento. Adesso mi era tutto chiaro.
"Segui le mie mosse!" esclamai.
Giacomo mi lanciò uno sguardo accigliato; allora attivai il contatto telepatico in modo da trasferirgli le immagini che mi erano apparse nella testa.
"Ora capisco..." mi comunicò con il pensiero.
Fissai un punto a caso del paesaggio e mi sistemai in una posizione eretta, con le braccia distese lungo i fianchi. Chiusi gli occhi e mi concentrai; il respiro era lento e profondo. Piegai appena gli arti inferiori, spostando tutto il peso sul piede sinistro. Sollevai lentamente i gomiti, mentre il ginocchio destro saliva davanti a me, fino a raggiungere l'altezza dell'anca. Poi tesi le braccia come per spiccare il volo.
Da lì feci un passo indietro in diagonale, e una torsione del busto mi portò nella direzione opposta. Incrociai i polsi davanti al torace, con il destro all'esterno e il sinistro all'interno. Non appena il sangue fluì rapido nelle vene, alzai di poco la gamba sinistra per dare la spinta alla destra. Quest'ultima si issò altissima, calciando l'aria in un movimento fulmineo.
Mi immobilizzai in quell'espressione dinamica e rimasi a lungo in equilibrio su una sola caviglia. Nel frattempo, Giacomo eseguiva le mie stesse mosse, che ripetemmo per una decina di volte. Finalmente, il pieno possesso dell'equilibrio era un altro traguardo raggiunto.
"Proseguiamo via terra!" esclamai con aria severa. "Avremo modo di allenare il volo in seguito."
Giacomo annuì e disse: "Forza, alla cascata!".
Il disco del sole lambiva il crinale dei monti e i raggi dorati erano tiepidi. Procedevamo a passo tranquillo; l'erba sfiorava le caviglie e dei ciuffetti di primule gialle macularono il sentiero fino alle porte di un bosco. Qui la vegetazione era fitta e la luce del giorno affievolita; con le mani cercavo di spostare le fronde e liberarmi un varco tra i rami che ostruivano il passaggio, scavalcando sassi inchiodati nella terra e radici robuste di alberi giganti.
Con il cuore pesante e perso nella semioscurità, il bosco si aprì in una piccola radura sotto la volta del cielo azzurro. Questa si estendeva ai piedi di un promontorio spaccato a metà da un fiume, che sfociava nella famosa cascata luccicante, le cui acque si schiantavano sulla superficie di un laghetto turchese. Sembrava un'oasi in mezzo alla giungla, palme da dattero, bacche e germogli vivaci circondavano le sponde.
"Ce ne avete messo di tempo!" esclamò il Messia attivando la comunicazione telepatica.
"Maestro!" sussultò Giacomo. "Dove sei stato?"
"Vi stavo osservando."
"Abbiamo sbagliato qualcosa?" domandai.
"Non è questo il punto" rispose il figlio di Dio. "Vi ho lasciati soli per vedere come ve la sareste cavata con la gravità di questa dimensione. Vi informo che sono passati duecentoquindici giorni dal vostro arrivo."
Mi voltai verso Giacomo, fissandolo negli occhi. Un rivolo di sudore mi scese dalla nuca.
"Duecentoquindici giorni, hai detto?" chiesi.
"Sì, Pietro. D'ora in poi non saranno ammesse perdite di tempo."
Il silenzio mi attanagliò la mente e si levò al cielo. Dei brividi di timore mi fecero vacillare. Per qualche attimo, anche lo scroscio insistente della cascata fu sommerso dal capitombolo dei miei pensieri. Non riuscivo a credere alle parole del Maestro; la maggior parte del tempo era trascorsa solo per abituare il corpo alla gravità della dimensione. Seppur demoralizzato, mi presi di coraggio e ruppi il silenzio.
"Maestro!" esclamai telepaticamente. "Cosa dobbiamo fare?"
"Dovrete imparare a essere immobili come uno stagno e travolgenti come una cascata" rispose. "Dovrete saper mantenere la calma e, allo stesso tempo, dare sfogo alla vostra potenza. Ci saranno tre prove; ognuna delle quali vi aiuterà a plasmare la natura con l'aiuto del vostro elemento, l'aria. Al termine dell'addestramento, l'energia assopita che risiede in voi sprigionerà un potente grido nell'universo, e ogni creazione di Dio acclamerà il vostro avvento."
Al termine di quelle parole un brivido di eccitazione mi attraversò le braccia.
"Qual è la prima prova?" domandai, impaziente.
"Osservate la cascata!" esclamò il Maestro. "Dovrete utilizzare l'aria per fermare il tempo e rendere immobile il suo flusso d'acqua."
Giacomo mostrò un sorriso combattivo e protese i pugni davanti al corpo. Fece un cenno con la testa e si preparò a eseguire il compito lasciato dal Messia. Dunque sollevai entrambe le braccia in direzione della cascata. L'adrenalina cominciò a elettrizzarmi in quell'istante. Schiusi i palmi delle mani e vidi Giacomo ripetere gli stessi movimenti. Abbassai le palpebre, inspirai ed espirai con le labbra che lasciavano solo uno spiraglio, e mi concentrai.
Il calore dei raggi solari scomparve pian piano, così come la brezza che soffiava ai piedi del promontorio. I versi degli insetti che correvano sopra la terra o sorvolavano intorno alla palme da dattero si ammutolirono e, nello sfondo nero della mente, la figura della cascata apparve solitaria. Era luccicante, imbufalita, possente. Una sola onda arrivava a pesare tonnellate, e la sua furia schiacciava le acque del laghetto.
Sprigionai l'aura color platino in una serie di fulmini a ciel sereno, poi la placai lentamente facendola aderire al corpo, in un bagliore continuo ed evanescente. Concentrai la mia energia vitale dentro i palmi delle mani e, solo quando ebbi la certezza di averla raccolta tutta, sgranai gli occhi e ordinai alla cascata di immobilizzarsi.
Come un orologio sincronizzato sullo stesso secondo, Giacomo spalancò le palpebre in quell'istante, con le mani nascoste da una luce accecante. Davanti a noi, le acque che si schiantavano sul laghetto si erano paralizzate, le goccioline sospese nell'aria, lo stupore inciso negli sguardi.
"Ottimo lavoro!" esclamò il figlio di Dio.
D'un tratto la vegetazione cominciò a prendere fuoco. Piccole fiamme, sparse tra gli arbusti e le piante che circondavano il lago, si dilatarono in fretta crescendo in altezza. L'odore acre del fumo serpeggiava sotto le narici. Il colore verde e lucente venne un po' alla volta sostituito dal rosso acceso e dal grigio della combustione.
"Cosa state aspettando?" domandò il Messia. "Presto! Spegnete l'incendio e salvate la foresta."
Quelle parole mi fecero sussultare come di ritorno da un intontimento fugace. Abbandonai la presa che teneva immobile la cascata, e così fece anche Giacomo. Il flusso d'acqua riprese a precipitare con violenza, dunque mi levai al cielo come un fulmine, al fianco di mio fratello. Dall'alto la visuale era migliore e potevamo tenere sotto controllo l'oceano di fuoco che andava espandendosi senza controllo.
"Dobbiamo usare di nuovo la cascata!" esclamò Giacomo. "Non c'è altra soluzione."
"Sono d'accordo!" dissi. "Facciamo in modo che funzioni."
La radura fu travolta da una folata di vento che piegò le fiamme, allungandone l'ampiezza; prima o poi avrebbero invaso il bosco, e allora l'inferno si sarebbe impossessato della natura. Il mio corpo aleggiava di fronte alla sommità del promontorio, il sudore scendeva a grappoli slittando sulla pelle. Alzai entrambe le braccia al cielo, evocando l'elemento color platino dell'universo.
Come polvere di fata scese su di me, avvolgendomi della sua essenza folgorante. La feci scorrere libera nelle vene, l'aura intorno alla tunica scintillava. Feci un cenno con la testa a Giacomo, i palmi delle mani si rivestirono di uno strato di luce abbagliante, dopodiché plasmarono due sfere di energia. Prima che diventassero più grandi di una noce di cocco, li scagliammo contro la cascata, che esplose in un boato pazzesco, sommergendo la radura. Il muro di fumo e fiamme scemò in un baleno. Era tutto finito.
Placai la mia aura e distesi le braccia lungo i fianchi. Il respiro affannoso rivelava l'esaurimento delle forze, ma gli occhi lucidi manifestavano un sentimento di gioia. Osservai lo sguardo di mio fratello: stremato, ma entusiasta. Non ci rimaneva altro che riprendere il fiato in attesa della terza e ultima prova.
"Avete compiuto un lavoro egregio, quest'oggi" pronunciò il Messia. "Potete trascorrere i vostri ultimi cinquanta giorni come meglio credete, non ci sarà nessun'altra prova."
La sua voce risuonò profonda e autoritaria dentro la testa.
"Come mai, Maestro?" chiesi, titubante.
Il contatto telepatico si interruppe in quel momento, il figlio di Dio non rispose alla mia domanda. All'improvviso scese un silenzio sinistro e un senso di immobilità pervase ogni molecola nell'aria. Il sole scomparve sotto la linea immaginaria dell'orizzonte, l'alba fece posto al tramonto in un batter d'occhio, e il cielo si dipinse di colori caldi e ipnotici.
Scesi di quota con le braccia appena distaccate dai fianchi. Giacomo, invece, rimase su nel cielo, fissando con scrupoloso interesse il fiume, ora asciutto, che divideva il promontorio. Quando atterrai sopra un masso piatto, il rumore secco del contatto echeggiò nell'aria.
"Pietro, attento!" urlò Giacomo.
Un fruscio accarezzò le mie orecchie e mi girai di scatto. Una foglia acuminata viaggiava a mezz'aria dal bosco e puntava il mio viso. Non ebbi nemmeno il tempo di alzare le braccia che me la ritrovai davanti agli occhi. Li chiusi d'istinto ma non accadde nulla. Con il cuore in gola, allentai la pressione sulle palpebre aprendo uno spiraglio, la foglia era sparita; mi voltai di spalle e la vidi galleggiare sul laghetto, tagliata a metà.
"Sei stato tu!" esclamò Giacomo dal cielo. "Ci sei riuscito con la forza del pensiero."
Tremai.
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