Capitolo 21 - Ad occhi aperti (R)



Milano - 21 marzo 2027
Kephas.

Era appena terminato un altro inverno, quando ripresi a vivere. Il dottor Goethe e Federico avevano svolto, nell'ultimo mese, un ottimo lavoro. Lo scienziato aveva suggerito al bodybuilder di basarsi su pratiche provenienti da antiche tradizioni sciamaniche; all'inizio del percorso di guarigione, infatti, Federico aveva bruciato alcune piante sacre all'interno dell'infermeria, e preparato la bevanda Arshan con acqua di sorgente, ginepro, fiori e alcol.

Il rituale era continuato affumicando il mio corpo con della salva bianca, adoperando una penna d'aquila e intonando alcuni canti dati dagli Spiriti. In seguito mi era stato spruzzato addosso l'Arshan, e infine avevo trangugiato la bevanda fino all'ultima goccia. Il processo era, poi, stato ripetuto più volte; tuttavia, dopo essere stato purificato dal male, sentivo di aver perso insieme ad esso una parte della mia vita.

L'inverno era trascorso senza che me ne accorgessi; gli alberi spogli, i prati avvolti dalla neve, i laghetti ricoperti di ghiaccio, il letargo di alcuni animali. Solo ricordi lontani, sfocati come nebbia evanescente. Come quel vento che sbatteva sempre più forte sui vetri della mia camera da letto, o quel manto bianco che cresceva con la bufera e si restringeva al sorgere del sole. Quel periodo in cui le strade si svuotavano; tutto somigliava a un deserto e solo qualche persona coraggiosa, e ben coperta, animava le vie della città.

A quei tempi il cielo opaco mi provocava tristezza, malinconia, sconforto; ma adesso avrei voluto acchiapparlo, stringerlo a me, custodirlo nell'anima come l'amore, la felicità, la speranza. Sentimenti che sbocciavano nel cuore come chiazze di colore di una natura incontaminata, seducenti come orchidee, intensi come il sangue raggrumato delle peonie, inebrianti come l'aroma delle bacche dei ginepri.

Senza controllo affioravano altri sentimenti accanto a quest'ultimi; si schiudevano nel cuore più in fretta, come macchie di colore di una natura selvaggia, inospitale, buia. Un luogo dove le farfalle cadevano a terra sbattendo le ali nella polvere, gli insetti deponevano uova nere dentro sacche ricoperte di muco e ragnatele, dove non c'erano uccellini, ma soltanto donnole, faine e corvi. La mia anima, d'un tratto, venne attraversata da venti forti, come se maestrale e libeccio si alternassero in modo inconsueto. Paura, rabbia, rimorso: Kariot. Non era rimasto più niente.

"Che bello riaverti tra noi, Kephas!" esclamò Giacomo alle mie spalle.

Distolsi lo sguardo dal cielo, che fissavo in piedi oltre la parete di vetro dell'infermeria, dove una coltre di ambra e di porpora, nell'argento della luna piena, navigava nel luccichio delle stelle. Mi voltai di spalle e mostrai un sorriso. I miei amici erano lì, uno accanto all'altro, felici di rivedermi.

"È un piacere anche per me!" risposi. "Adesso che il mio lungo riposo è terminato, voglio sapere tutto quello che mi sono perso nel frattempo."

Andrea si avvicinò e mi strinse in un lungo e caldo abbraccio. I suoi muscoli si contrassero a tal punto da farmi mancare il respiro per un istante. Poggiò la guancia sul mio petto e, con un filo di voce, disse: "Oh, Kephas. Mi sei mancato tantissimo!".

Portai le mani dietro la sua schiena, e ve le poggiai delicatamente in un abbraccio affettuoso.

"Mi siete mancati tanto anche voi. E adesso che sono tornato, non intendo più lasciarvi."

Allontanò la guancia dal petto e mi fissò con quei suoi occhi verdi tendenti al grigio; le dita scesero come serpenti sul mio fondoschiena e lo strinsero con fare passionale. Poi, con un sorriso malizioso, mi strinse di nuovo la schiena, accostò le sue labbra sottili al mio orecchio, e sussurrò: "Ti vedo ancora un po' intorpidito... e io potrei darti una svegliata...".

Sgranai gli occhi. Un brivido mi irrigidì il volto per metà e corse giù per la spina dorsale. Annuii senza muovere le labbra, con il fiato sospeso in gola, mentre lei si allontanava ammiccando.

"Per qualsiasi cosa," mi disse "mi trovi nella zona relax."

Seguita da Sofia, che paonazza la spingeva oltre la porta, agitò le dita in segno di saluto, mentre con l'altra mano si arricciava una ciocca di capelli sopra il petto prosperoso.

"Kephas ha fatto colpo!" esclamò Federico, facendomi l'occhiolino.

Chinai il volto per nascondere l'imbarazzo, mentre sentivo le gote arrossarsi.

"Come stanno i bimbi sperduti?" sghignazzò Tommaso, spezzando la lastra di ghiaccio che mi aveva attanagliato. "E Capitan Uncino? Sei riuscito a sconfiggere i pirati?"

Mi grattai la nuca, mostrando un risolino.

"Oh, loro stanno bene!" dissi, sollevando lo sguardo. "Pensano sempre e solo a giocare, come qualcuno di mia conoscenza."

Tommaso mise il broncio e strinse il pugno davanti agli occhi.

"Cosa vorresti insinuare? Il mio è un lavoro, non uno svago."

Poi si voltò di spalle e si diresse verso la porta.

"Anzi," riprese a dire, agitando l'indice al cielo, "mi hai fatto ricordare che ho una missione di massima importanza da portare a termine. Per chiunque mi cerchi, sono nella stanza ricreativa." Varcò l'uscio della porta e scomparve in un baleno.

A quel punto Giacomino si schiarì la voce, richiamando a sé l'attenzione.

"Ho saputo" disse con aria seria "che per farti stare calmo, ti hanno somministrato più volte la morfina." Allargò le braccia e scosse la testa, e come un bimbo imbronciato arricciò le labbra. "Io ho cercato di convincere Goethe a dirmi dove la tiene nascosta, ma niente, non parla quello lì."

"Davvero!" esclamò Alessio, annuendo con uno sguardo frustrato. "Non vuole darcene nemmeno un po'."

Quest'ultimo barcollò verso di me fingendosi moribondo e, reggendosi sulla mia spalla, chiese con voce agonizzante: "Tu non potresti, magari, mettere una buona parola per me e per Giacomino?".

Portai una mano alla bocca e, a fatica, trattenni una risata dinanzi a quello spettacolo teatrale, che adesso vedeva anche Giacomino barcollare da una parte all'altra della stanza, in fin di vita. Furibondo, Simone acchiappò i due attori e li trascinò con forza fuori dall'infermeria, mentre loro frignavano e urlavano: "Povero me! Povero me! Poveri noi!".

Poco prima di varcare l'uscio della porta, Simone si voltò e fece un cenno con la testa, con uno sguardo sereno e gioioso. E questo, per l'uomo dalle poche parole, era il suo modo di dirmi: "Sono felice di riaverti tra noi".

Tutt'a un tratto Federico, che indossava una tuta, eseguì una serie di esercizi di stretching al centro della stanza.

"Se non ti dispiace" disse con voce strozzata "vado ad allenarmi nella sala attrezzi. "Ah! Abbiamo organizzato una festa al pianterreno. Ci vediamo lì per le 22."

Scossi la testa, colto alla sprovvista.

"Una festa?"

"Ma Federico!" esclamarono in coro Matteo e Bartolomeo, fissandolo con sguardo truce. "Doveva essere una sorpresa."

Il bodybuilder, noncurante di quel rimprovero, camminò verso di me e mi diede una pacca sulla spalla.

"Kephas, non te l'ha detto ancora nessuno? I lavori sono terminati stamani, è tutto pronto per la partenza." Piegò la testa di lato e mostrò un sorriso al cielo. "Bizzarro, non credi? Adesso che sei guarito, la navicella è pronta."

Colto da un tumulto di emozioni, allargai le braccia ed emisi un verso di stupore. Le labbra aperte e gli occhi strabuzzati.

"E che aspettavate a dirmelo?" esultai con gioia. "È una notizia fantastica."

Federico sorrise con gli occhi, mi strinse la mano e infine disse: "Mancavi solo tu, il nostro capitano!".

Dopodiché mi diede un affettuoso pizzicotto sulla guancia e uscì fuori dalla stanza, dirigendosi verso la sala attrezzi, sotto lo sguardo minaccioso dei due amanti, ai quali fece una linguaccia.

"Vado con lui!" esclamò Taddeo, sbattendo le palpebre più volte.

Mi corse incontro, acchiappò le mie guance, le agitò come fossero onde del mare, e infine scappò via sorridendo.

"Ci vediamo stasera!" si lasciò alle spalle.

Rimasi di sasso, seguendolo con gli occhi. Tutti di fretta vanno oggi, pensai nella testa, inarcando le sopracciglia. Mi grattai la nuca, pensieroso, mentre Filippo lasciava trasparire un sorriso all'angolo della bocca.

"E dunque, ditemi!" esclamai, rivolgendo lo sguardo estasiato proprio all'ingegnere informatico. "Com'è la piattaforma temporale? L'avete provata? La posso vedere? Dove si trova?"

Giovanni alzò la mano come per interrompermi, si schiarì la voce e si sistemò gli occhiali con aria autorevole.

"Non così in fretta!" disse, spingendo le spalle indietro e il petto in fuori, con le mani conserte dietro la schiena. "Hai detto che volevi sapere cosa ti sei perso durante la tua assenza, giusto?"

"Mannaggia, Giovanni!" brontolò Filippo. "Non ho intenzione di stare qui tutta la sera." Diede uno scappellotto all'ingegnere elettronico, e gli occhiali di quest'ultimo volarono per terra. "Ecco! Così rimarrai occupato per un po'."

Giovanni, su tutte le furie, si mise a camminare a gattoni sul pavimento a specchio, e sembrava facesse una certa fatica a mettere a fuoco le immagini senza i suoi occhiali, tanto che per un istante si era voltato verso colui che pensava fosse Filippo, e che invece era Bartolomeo, ringhiando e urlando: "Sei morto! È meglio che scappi, ma anche allora io ti troverò, e ti ucciderò!".

La sua minaccia aveva suscitato l'ilarità generale e per un po' non si erano udite nient'altro che le nostre risate. A seguire, con le lacrime ancora agli occhi, Filippo affermò: "Ciò che voleva dire Giovanni è che la piattaforma temporale è stata collaudata molto tempo fa, ma per stasera non credo potrai vederla; Goethe l'ha spedita lontana da qui, nascondendola in un posto sicuro".

Si schiarì la voce e, dopo aver asciugato le lacrime incollate alle ciglia, assunse un'espressione seria.

"Diciamo che i veri problemi sono nati dopo il collaudo, durante la creazione del carburante, un liquido a base di plutonio in grado di far schizzare la navicella alla velocità della luce. E poi ancora quando capimmo che, per affrontare viaggi molto lunghi, la piattaforma sarebbe dovuta passare attraverso un campo elettromagnetico dieci volte superiore a quello di un fulmine. E così creammo una stazione in grado di generare un campo tanto potente, situata in una pista dell'aeroporto di Malpensa."

Rimasi strabiliato da quelle parole. Quante cose erano cambiate. Il discorso di Filippo era stato chiaro e conciso, e adesso non avevo alcun dubbio sul fatto che, in mia assenza, il gruppo avesse svolto un ottimo lavoro. Ero felice come mai prima d'ora; avrei rivisto la mia famiglia, i giorni radiosi della mia città, il mio studio di registrazione.

"Eccoli!" esultò Giovanni, che si rialzò da terra all'improvviso, con gli occhiali al loro posto. "E adesso a noi due, ingegnere da quattro soldi."

Filippo non replicò nemmeno, ma si voltò di spalle e corse via a gambe levate, inseguito dalla furia di Giovanni. I due ingegneri mi ricordarono Beep Beep incalzato da Willy il Coyote, e non potei fare a meno di sorridere.

All'improvviso mi ritrovai da solo con i due amanti, Matteo e Bartolomeo, che si tenevano per mano. Mi avvicinai a loro e gli diedi una pacca sulla spalla, e in quel momento uno strano vuoto mi attanagliò lo stomaco, come se mancasse qualcuno all'appello.

"Lux!" esclamai, sbarrando le palpebre. "Dov'è Lux?"

I due volsero gli occhi altrove, fischiettando.

"Matteo e Bartolomeo!" dissi con aria di rimprovero. "Dov'è Lux?"

Bartolomeo sospirò chinando il volto, e mi indicò la porta.

"Si trova in biblioteca" mugugnò. "Promettimi però che non ti arrabbierai."

"In che senso?" domandai.

Matteo diede una gomitata al compagno e i due non aprirono più bocca; così, con aria accigliata, mi incamminai verso la biblioteca, e al mio arrivo trovai Lux e Kariot concentrati a scambiarsi effusioni, chinati su un tavolo di legno. Un brivido mi tolse il respiro e il corpo divenne di marmo. Le palpebre spalancate.

"Lux!" pronunciai con un filo di voce. "Cosa stai facendo?"

L'archeologa sussultò per lo spavento e spinse Kariot all'indietro, asciugandosi le labbra. Abbassò lo sguardo, imbarazzata, e indietreggiando si appoggiò a un altro tavolo.

"Non avresti dovuto scoprirlo in questo modo" disse con voce tremante.

Kariot, nel frattempo, mi lanciò uno sguardo severo e si avvicinò al mio fianco.

"E così ti sei ripreso!" esclamò con tono duro. "Beh, vi lascio soli! Immagino avrete un po' di cose da dirvi."

Prese a camminare lungo il corridoio e si diresse verso la sala da pranzo. A quel punto, avvolto da un leggero disagio, varcai la porta della biblioteca e mi avvicinai all'archeologa.

"Tu e Kariot..." dissi con voce strozzata.

"Sì, Kephas!" rispose lei, stringendosi nelle braccia. "Io e Kariot stiamo insieme."

Quelle parole mi lasciarono di stucco.

"Io..." sussurrai. "Io sono confuso. Perché adesso?"

Le sopracciglia di Lux si abbassarono per poi avvicinarsi l'un l'altra. Le palpebre erano tese, gli occhi fissavano duramente il pavimento. Le labbra serrate.

"Lui non vuole partire!" esclamò. "Si è confidato con me tanto tempo fa, e quando ho riferito la verità al resto del gruppo, loro lo hanno isolato."

Lux sollevò lo sguardo con le lacrime agli occhi, e mi fissò con rabbia.

"Kariot ha solo me!" gridò. "Non è forse questo quello che volevi?"

Inarcai le sopracciglia, scrollando la testa.

"No!" esclamai. "Ma se adesso ha te, è più di quanto io avessi mai immaginato."

All'improvviso Lux mi tirò uno schiaffo in pieno viso e urlò: "Era il tuo migliore amico!".

Portai una mano alla guancia e la massaggiai, aprendo e chiudendo la mandibola dolorante.

"Hai detto bene, Lux. Era! Io credevo in lui, nella sua lealtà, nella nostra amicizia. Ma ha ucciso delle persone innocenti, e il mio migliore amico non lo avrebbe mai fatto."

Mi afferrò per il bavero della maglietta e chinò il volto con aria afflitta.

"Ricordi la sera in cui dicesti di aver sognato questo grattacielo?" mi chiese. "Eravamo seduti attorno al fuoco, e io ti proposi di ricostruire una nuova società in questo mondo. Allora Kariot si infuriò contro di me, dicendo che dovevamo fidarci del tuo istinto, della tua premonizione. Ha sempre fatto di tutto per te, anche uccidere delle persone innocenti."

"No!" urlai, afferrando le sue mani. Chiusi le palpebre e voltai la testa di lato, mentre una morsa mi stringeva lo stomaco. "Non puoi farmi questo. Tu non eri in Vaticano, non hai visto quello che ho visto io."

Lux sciolse la presa dalla mia maglietta e fece scivolare le braccia lungo i fianchi, fissandomi con aria triste. Lentamente tirai indietro le mani e mi voltai di spalle. Le palpebre tremarono.

"Sei davvero disposta ad accettare tutto questo per lui?" le chiesi. "Hai pensato alle conseguenze?"

Lei sospirò e all'improvviso mi abbracciò da dietro, stringendomi forte come per dirmi addio.

"Kephas..." sussurrò, premendo la testa contro il dorso. "Tu per la tua famiglia hai creduto a una premonizione, attraversando tutta la nazione senza alcuna certezza. Se c'è qualcuno che mi ha insegnato cos'è l'amore, quello sei tu."

Le sue calde lacrime impregnarono di profonda malinconia la mia schiena, le guance pulsavano, le mani stringevano il mio ventre. Le fasciai con delicatezza tra le mie e chinai il volto, mentre pian piano il silenzio avvolgeva quella stanza.

"Sarà meglio che tu vada da Goethe, adesso" disse con voce sommessa. "Non preoccuparti per me. Kariot sta costruendo una seconda piattaforma temporale. Qualora decidessimo di tornare, potremmo farlo. Adesso va', io ho tutto quello che ho sempre desiderato."

Strinsi le sue mani un'ultima volta, serrai gli occhi e morsi le labbra.

"Addio..." pensai tra me e me.

Dopodiché inspirai a pieni polmoni e mi incamminai verso il corridoio.

"Ti auguro di poter riabbracciare la tua famiglia" disse lei prima che potessi varcare la porta.

Di colpo arrestai i miei passi. Una lacrima scese sulla guancia; mi voltai indietro e le corsi incontro, abbracciandola un'ultima volta. Le carezzai i capelli, le strinsi la nuca, affondai il viso nel suo collo.

"Prenditi cura di te!" esclamai, guardandola negli occhi.

"Lo farò, Kephas..."

Dunque varcai la porta con un magone nello stomaco e mi diressi nella stanza del dottore, cercando di far sparire il dispiacere dal mio volto.

"Bentornato tra noi, Kephas!" disse lui allegramente, non appena mi vide arrivare.

"Ti ringrazio, Goethe" risposi. "Ho saputo che la piattaforma temporale è pronta e nascosta al sicuro."

"Proprio così. Immagino che tu sia venuto a salutarmi e a conoscere la tabella di marcia."

"Sì! Non c'è stato modo di parlarne, dati gli ultimi inconvenienti."

"Perfetto!" rispose con tono raggiante. "Il funzionamento della piattaforma è molto semplice. L'unica cosa a cui bisogna prestare attenzione è la quantità di plutonio da immettere nel recipiente del carburante, di cui se ne è già occupato Giacomo questa mattina. Per ogni evenienza, comunque, ho fatto trascrivere delle formule matematiche in un foglio accanto al quadro comandi. In base alla lunghezza del viaggio, esse vi aiuteranno nel calcolo del dosaggio del carburante. Domani tornerete indietro di 6 anni, nel 2021, anno in cui mi fecero prigioniero. Dovrete liberarmi insieme ai volontari della Resistenza, e tutti insieme eviteremo lo sterminio della specie umana. Adesso va' a divertirti con il tuo gruppo. Domani sarà un grande giorno."

Mostrai un sorriso compiaciuto, desiderando di stringergli la mano per tutto quello che aveva fatto per me e per i miei amici. All'improvviso però un dubbio sbucò nella mente.

"E tu?" domandai. "Tu ti ricorderai di noi?"

Lo scienziato sorrise e mi indicò il tavolo.

"Quasi dimenticavo" disse. "Prendi quel biglietto, conservalo con cura e non aprirlo finché non sarai tornato indietro nel tempo. Mi raccomando, è di vitale importanza che tu faccia così. Capirai a tempo debito."

Mi avvicinai al tavolo e afferrai il biglietto, conservandolo nella tasca dei jeans.

"Ah, Goethe!" esclamai. "In Vaticano mi hanno parlato di un altro grattacielo, soprannominato 'Arca di Noè', nei pressi del Colosseo. Come mai non ce ne hai mai parlato?"

Il dottore portò le mani dietro la schiena e guardò il soffitto con fare pensieroso.

"Non ho pensato che fosse necessario, sinceramente."

Annuii e lo fissai con aria soddisfatta.

"Come immaginavo!" risposi.

Tutt'a un tratto un altro pensiero sbucò nella mente e questa volta mi provocò un senso di rabbia e agitazione.

"Goethe!" dissi allora. "Lux mi ha parlato di una seconda piattaforma temporale. Esiste davvero?"

"Sì!" rispose, guardandomi con stupore. "Kariot l'ha quasi terminata."

Portai una mano al mento, inquieto.

"Mi prometti che cercherai di convincerli a tornare nel passato? In Vaticano sono sopravvissute delle persone poco affidabili."

Lo scienziato meditò con aria assorta.

"Non credo si faranno mai vedere. Da quando hai lasciato quel posto, non hanno mai dato segni di vita."

Mi grattai la nuca, perplesso.

"Meglio così!" esclamai. "È stato un piacere averti conosciuto. Ci rivediamo nel passato."

Lo scienziato fece un cenno con la testa e sorrise. Dunque varcai la porta e, percorrendo il corridoio, mi accorsi che Lux era ancora in biblioteca e leggeva un libro, mentre Kariot, seduto al tavolo della sala da pranzo, aveva in mano un foglio e una penna. Mi fermai davanti alla porta e lo guardai con più attenzione; sembrava fosse impegnato a disegnare frettolosamente qualcosa.

Quando si accorse della mia presenza, balzò dalla sedia accartocciando il foglio, attraversò la stanza con un'espressione impassibile e mi sbatté la porta in faccia. Digrignai i denti e strinsi i pugni dalla rabbia, e per un attimo desiderai di sfondare quella porta e saltargli di sopra. Il buon senso, per fortuna, mi suggerì di chiudere gli occhi e di placare l'ira, decidendo infine di raggiungere la festa.

Così presi l'ascensore e scesi al pianterreno, dove le pareti erano decorate da lunghi festoni verdi e rossi, e ghirlande di agrifoglio intrecciato. Un lungo tavolo rettangolare era adibito per il rinfresco, e accanto vi erano salatini e patatine. Un urlo festoso echeggiò al mio arrivo e lo stereo sparò una musica caraibica al massimo del volume. Andrea mi corse incontro e mi trascinò al centro della sala, invitandomi a ballare con lei.

Era avvolta da un lungo vestito rosso e le sue labbra sorridevano gentili. La musica era alta e rimbombava nelle orecchie, l'alcol scorreva a fiumi e sembrava non dovesse finire mai, e d'un tratto ci ritrovammo in fila indiana a fare il trenino come fosse l'ultimo dell'anno. Quando la stanchezza iniziò a farmi barcollare a destra e a sinistra, presi di nuovo l'ascensore e mi buttai nel letto della mia stanza, con gli occhi rivolti al soffitto.

Nella mia mente apparve un cielo azzurro chiazzato di nuvole bianche, simili a batuffoli di zucchero filato. Due di queste disegnarono i visi angelici di mia moglie Marie e di mio figlio Ettore; erano sereni, gioiosi, luminosi. Levai le braccia al cielo e volai verso di loro brillando come una stella. Non ero più il vecchio Kephas, un uomo vittima dei suoi incubi; adesso potevo anch'io sognare ad occhi aperti.

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