Capitolo 2 - Misteriosi brividi (R)
Palermo - 21 marzo 2026
Kephas.
Potevo fidarmi di Kariot. Sembrava la persona che più delle altre era riuscita ad ambientarsi in questo mondo. E come biasimarlo? Non aveva nessuno prima dell'epidemia, nemmeno un amico per quanto ne sapessi. Viveva solo, faceva un lavoro monotono e ripetitivo e, quando la sera tornava a casa, trovava un posto umido, cupo e solitario. Dopo cena continuava il lavoro lasciato a metà nell'officina che il padre gli aveva affidato dopo la sua scomparsa, e non appena lo terminava, si sdraiava sul suo divano di pelle sgangherato, accendeva la tv e si perdeva nei meandri della sua mente, immaginando la sua vecchiaia.
Era riuscito a mettere da parte un bel gruzzoletto e, una volta in pensione, pensava di ritirarsi in un'isola circondata dal mare, con cocktail e donne in bikini striminziti, fino alla fine dei suoi giorni. Dopotutto le isole avevano tutto ciò che si potesse desiderare, ripeteva di tanto in tanto. Una natura tra le più incontaminate del pianeta, una tranquillità invidiabile, una totale assenza di criminalità e di inquinamento, e di conseguenza una qualità della vita migliore.
E come dargli torto; come non seguirlo tra le rugose pagine dei libri che aveva letto per allietare i cuori dei superstiti nelle più fredde sere d'inverno. Lì, dove tutto sembrava essere avvolto dalla magia e la speranza riempiva d'inchiostro le parole. E, mentre le sere passavano ad afferrare il senso di un cielo maculato di stelle e di una terra macchiata di dolore, e gli occhi viaggiavano all'orizzonte in cerca di risposte, avevo imparato a conoscere le sue gioie e le sue paure, i suoi desideri e le sue debolezze.
"Credo che Lux ti guardi in modo particolare" dissi con un leggero sorriso, strofinando le mani sul volante dell'automobile.
Il sole era sorto da un pezzo e l'atmosfera era avvolta in un chiarore violaceo. Il camioncino dei gelati aveva rallentato la nostra routine giornaliera.
"Dovresti sfruttare il tuo tempo diversamente," rispose Kariot, guardando fuori dal finestrino, "anziché analizzare gli sguardi delle persone."
Da qualche minuto percorrevamo una strada provinciale sopra la nostra Range Rover color grigio metallizzato. Parcheggiarla distante dal nostro rifugio era stata un'idea di Kariot; secondo lui, il rombo del motore avrebbe potuto trascinare i cannibali anche nella periferia. Ma la verità la conoscevamo entrambi; lui non voleva accettare l'idea che non ve ne fossero più, poiché questo ci avrebbe portato ad abbassare la guardia.
"Dico davvero, Kariot. Dovresti darti una chance."
L'erba alta fiancheggiava i lati della strada, stendendosi davanti a noi all'infinito. Ci avrebbe guidato e osservato fino all'arrivo in città, per poi far posto a tutt'altro scenario.
"Dico davvero, Kephas. Io sto bene così, ma grazie per l'interesse. Tra l'altro, se non l'avessi notato, Lux ha una cotta per Alessio."
Ogni tanto, lungo il tragitto, incontravamo qualche auto coperta di polvere; incendiata, capovolta o schiantata contro il guardrail. Ma il panorama testimoniava per di più il ritratto di un'umanità sofferente. Come quell'anziano che, ogniqualvolta imboccavo la strada extraurbana principale, seduto e legato sul suo sgabello, seguiva con gli occhi chiusi il passaggio del mio fuoristrada.
"E qui ti sbagli, vecchio mio!" dissi. "È Alessio ad avere una cotta per Lux, ma i tra i due non c'è mai stato niente. O forse qualcosa, ma niente di che. Dunque, a conti fatti, il tuo non sarebbe uno sgarbo nei confronti di Alessio."
Kariot accese il lettore cd dell'auto, pigiò qualche tasto e scelse una traccia: Fryderyk Franciszek Chopin, Nocturne op.9 No.2. Poi si voltò verso di me e, con aria sciolta e disinvolta, sollevò il suo dito medio. Le dolci note del piano cominciarono prima basse, poi più sonore, finché riempirono l'auto di brividi e vibrazioni, annullando la cruda realtà che stagnava al di là dei finestrini.
Dopo aver percorso circa venticinque chilometri, il fiume Oreto apparve davanti ai nostri occhi. Con fare silenzioso e vigile ci appostammo dietro alcuni cespugli, scrutando il comportamento degli animali da una distanza di oltre trenta metri. Nulla era cambiato rispetto a ieri. Tutto sostava inflessibile come il risultato di un magico incantesimo.
Così, dopo aver camminato su ampie distese pianeggianti intorno al fiume, il sole raggiunse il punto più alto nel cielo. Le gambe divennero pesanti come tronchi d'albero e il sudore inzuppò i vestiti. Allora decidemmo di accamparci nei pressi di un ruscello, in modo da potere recuperare le forze e rimetterci in viaggio prima del tramonto. A quel punto schiusi la cerniera del mio zaino e presi due porzioni di pane e di carne secca, trovata nella cambusa di una nave mercantile qualche giorno prima. Porsi a Kariot la sua razione, mangiammo e poi mi sdraiai sull'erba.
"Se potessi tornare indietro," sussurrai, guardando il cielo punzecchiato dai rami degli alberi, "farei migliaia di cose in modo diverso."
Kariot si sdraiò al mio fianco.
"Ti ascolto..."
Il suono della boscaglia si ammutolì per un istante. Non si udì nulla. Solo il silenzio inquietante di quel luogo graziato dal cielo, ma maledetto dall'uomo. Un silenzio che pesò sul mio corpo come un manto nero e appiccicoso.
"Prima di tutto, comprerei una casa in periferia. Niente armi, niente munizioni, niente tv o cellulari. Chiederei a mia moglie di preparare un pranzo meraviglioso, come fosse il giorno di Natale. Comprerei il più bel regalo del mondo a mio figlio, e tornerei a casa pieno di gioia. Dopo mangiato abbraccerei mia moglie, stringerei mio figlio. Leggerei a lui una storia fantastica, fatta di gnomi e folletti. Non piangerei. Non avrei paura. Direi loro che li amo."
Kariot si voltò verso di me con uno scatto.
"Cosa stai cercando di dirmi? Che sei stanco di vivere?"
Mostrai un impercettibile e riservato sorriso, che via via divenne sempre più accentuato.
"No, Kariot. Sto solo dicendo che io la mia anima gemella l'ho trovata, ma è scomparsa tra le mie mani. Ogni tanto la rivedo in uno dei miei tanti ricordi, ma non è più lo stesso. Tu, invece... non vivere questa vita come se fosse tutto perduto."
Kariot rimase in silenzio, immobile, pensieroso. Lentamente sistemò di nuovo le mani dietro la nuca e tornò a fissare il cielo.
"L'amore è una debolezza, Kephas. E in questo mondo... chi diventa debole, muore."
Kariot non capiva, non ancora, ma lo avrebbe fatto. Stanco di pensare, spensi la mente. Gli uccelli cinguettavano in lontananza; da un arbusto di sorbo si levava un ronzio sordo, mentre il sibilo di alcuni insetti, simili a zanzare, diventava onnipresente. La monotonia di quei suoni e lo sguardo fisso al cielo mi procurarono una sorta di autoipnosi e così presi a sonnecchiare. Tutto intorno parve ondeggiare e danzare, curiosamente distorto.
Un ramo secco si spezzò, e di colpo mi svegliai, e subito dopo anche Kariot. Guardai l'orizzonte: il sole, sotto la cima dei grandi alberi, allungava le sue dita per proiettare misteriose e lunghe ombre. In quel momento mi resi conto che erano volate diverse ore, e il tramonto bussava alle porte del cielo.
"Abbiamo dormito un sacco" dissi, stiracchiando le braccia. "Sarà meglio andare, dobbiamo ancora passare in città e prendere un po' di cibo e bevande."
Kariot fece un cenno con la testa, ancora assonnato. Durante il tragitto nella Range Rover non parlammo molto, e nessuna melodia di sottofondo riempì il nostro silenzio. A distanza di mezz'ora parcheggiai la macchina di fronte a un piccolo supermarket. Da fuori, il luogo emanava un fetore di spazzatura mista ad aceto; il tutto unito a qualcosa di dolciastro e selvatico. Era simile al puzzo che proveniva dalla carcassa del gabbiano che una volta avevo trovato lungo una spiaggia, con un'ala mozzata, il ventre piluccato dai vermi, e sciami di insetti che gli ronzavano intorno.
Caricammo un paio di casse d'acqua e vario scatolame nel portabagagli dell'auto, dopodiché ci rimettemmo in marcia. Nella strada di ritorno, Kariot poggiò la testa contro il finestrino e osservò il paesaggio, e in quell'istante un pensiero affacciò nella mia mente.
"Sai..." dissi, guardando l'asfalto. "Pensavo a una cosa..."
"Dimmi..." rispose, con aria assorta.
"La vigilia di Natale... quando ci siamo incontrati dentro quel casinò... mi sono presentato col nome di 'Kephas', e non pensavo che stessi al gioco anche tu. Adesso, mi chiedevo: come mai hai scelto 'Kariot'? Che io ricordi, non mi hai mai detto il tuo vero nome."
"È una lunga storia..." disse.
Lo guardai per un attimo; i suoi occhi erano ancora rapiti dal paesaggio.
"Sono curioso di sentirla" risposi.
Egli incrociò le mani dietro la nuca e poggiò la testa sullo schienale dell'auto, distogliendo lo sguardo dal finestrino.
"Diciamo che è stato il primo nome che mi è venuto in mente, per stare al gioco, intendo. Un vecchio prete pazzo, qualche tempo prima, mi aveva detto che, se mai qualcuno avesse chiesto il mio nome, io avrei dovuto dare questo."
Un brivido serpeggiò sulla mia pelle e mi scosse le braccia.
"Un vecchio prete pazzo, hai detto?" domandai con un tono di voce più alto. "E che aspetto aveva?"
Kariot, incuriosito, mi puntò gli occhi addosso.
"Sembri agitato" disse. "Perché lo vuoi sapere?"
Non senza imbarazzo, mandai giù la saliva che avevo in gola e cercai di calmarmi.
"È una lunga storia anche questa."
Non contento, mi squadrò ancora per un po'. Poi, con dei movimenti lenti, poggiò nuovamente la testa sullo schienale, incrociando le mani dietro la nuca.
"Aveva la sua tonaca da prete" disse con tono sarcastico "e usava parole da prete. Un po' come tutti i preti, insomma."
Scossi la testa con un sospiro scocciato.
"Kariot, sii serio una volta tanto. Hai trentun anni, maledizione! Perché ti sei fidato di quel prete?"
Kariot esitò per un istante, poi assunse un'espressione severa. Lo sguardo perso nell'asfalto ridondante di grigio con macchie di sangue sparse qua e là. Avrei potuto giurare che la mia domanda lo avesse riportato indietro nel tempo, nel luogo di quell'incontro.
"Conosceva il mio passato" sussurrò a distanza di tempo. "Sapeva come fossi arrivato a Palermo. Credeva che in futuro avrei incontrato delle persone che sarebbero diventate mie amiche, di cui mi sarei potuto fidare. Insomma, sapeva un bel po' di cose e ne farneticava altrettanto. Ora che ci penso... quell'uomo metteva i brividi."
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