Capitolo 18 - Non è rimasto più niente di noi (R)


Roma – 7 giugno 2026
Kephas.

Kariot giaceva per terra con la faccia rivolta al cielo, pallido e privo di sensi; il sangue colava pigro dalla spalla. A fatica mi alzai in piedi, barcollando. Un senso di spossatezza mi scombussolò lo stomaco, così mi piegai sulle gambe e rigettai la cena sull'asfalto. Vomitai tutto quello che avevo in corpo, cercando invano di eliminare il male insieme al cibo. Sentivo lo stomaco piccolo, vuoto e dolente. La gola stretta come se una corda mi fosse stata legata attorno al collo.

"Devo andare" mi dissi.

Asciugai le labbra con il dorso della mano e feci un lungo respiro che sapeva di lacrime. La luna era una brutta macchia sbiadita nel cielo, e le stelle piccoli scarabocchi sparsi su una tela nera. Mi tolsi la maglietta, la strappai a metà e poi in strisce larghe, avvolgendole intorno alla ferita che la vedetta mi aveva inflitto sul braccio. Poi, piegandomi sulle ginocchia, fasciai la spalla di Kariot.

"Devo andare."

Clemente V, al di là del binario del cancello, fece un lungo sbadiglio e congiunse le mani in preghiera. Dopodiché, fischiettando una melodia allegra, prese a camminare verso di me, mentre i suoi sudditi lo guardavano immobili. Fissai il capo dei Nuovi Redentori negli occhi, e mi rialzai in piedi lentamente.

"Avrei voluto dirti grazie," disse con un sorriso, che poi mutò in un ghigno di disprezzo, "ma hai fatto uccidere Geremia, Cristo Santo!" Fece uno sbuffo ironico e alzò entrambe le mani per placare gli schiamazzi improvvisi dei suoi uomini. "Per tua fortuna lo odiavo, anzi, lo disprezzavo."

Clemente V serrò le labbra e mi fissò. La sua espressione era severa. I nostri sguardi incrociati.

"Adesso va'!" esclamò a gran voce. "E non farti più rivedere."

Sollevò una ricetrasmittente dalla mano e me la sbatté sul petto. Poi socchiuse le labbra in un risolino irritante e disse: "Prendila, su. Ti concedo la possibilità di metterti in contatto con i tuoi amici prima di andartene. Voglio essere clemente".

Spalancò la mascella al cielo in un sogghigno reboante e un attimo dopo tornò serio.

"Hai capito la battuta, Kephas?"

I suoi uomini esplosero in una risata fragorosa, sbattendo le mani sulle gambe. I visi rossi e le vene di fuori. Una fievole fiamma si accese nel mio basso ventre. Lo sguardo sprezzante su quei volti malvagi e deformi.

"Io..."

Clemente V aprì il palmo della mano e lasciò cadere la ricetrasmittente per terra, tra i nostri piedi. "Prendila!" mi disse. "Prendila e mettiti in contatto con i tuoi amici."

La fievole fiamma esplose in una vampata di calore; dal basso ventre si dilatò su per il petto e scintillò nel collo, adesso rovente. Sentivo le vene pulsare sulla faccia, il sangue caldo corroso dalla rabbia. Lentamente strinsi le dita a pugno, fino a sentire le unghie conficcarsi nei palmi delle mani. "Io... ti..."

Il capo dei Nuovi Redentori fece uno schiocco con la lingua.

"Mantieni la calma..." sussurrò. "Tu, cosa? Non vorrai mica perdere il controllo proprio ora?"

Si avvicinò al mio fianco con uno sguardo alto e sicuro di sé, piegando la testa di lato come per volermi sussurrare un segreto all'orecchio.

"Cosa ti eri messo in testa? Di comandare a casa mia? Kariot si è schierato con la fazione giusta. Ognuno di noi, adesso, potrà andare per la sua strada, senza rancore."

Clemente V girò intorno al mio corpo, con passo lento e minaccioso. Scalciò qualche pietra e, fischiettando la stessa melodia allegra di prima, prese a camminare verso i suoi uomini. Ordinò di chiudere il cancello e fece un cenno di saluto con la mano, rivolgendomi le spalle.

"Dimenticati di me, Kephas!" esclamò a gran voce. "Io l'ho già fatto."

I suoi uomini urlarono il nome di 'Clemente V' con i pugni al cielo per diverse volte, dandosi pacche sulle spalle e sorridendo con le bocche spalancate. Il cancello automatico stridette e, quando alla fine sbatté contro la parte di ferro, e il conseguente tonfo segnò la sua chiusura, quei corpi e quelle urla svanirono nell'oscurità, non lasciando altro che un'amara sensazione di vuoto, rabbia e rancore.

Avrei voluto esplodere in una sfilza di improperi e aggressioni verbali. Avrei voluto essere a Palazzo Montecitorio, tirare giù dal letto tutti quanti, scuoterli dal loro torpore e costringerli a seguirmi fino a queste mura. Incitare l'ira nei loro cuori, distruggere Il Vaticano e fare a pezzi i suoi abitanti. Ma non lo feci. Allentai la collera e raccolsi la ricetrasmittente da terra.

"Giacomo!" esclamai secco.

Seguì un silenzio snervante.

"Giacomo!" ripetei ad alta voce.

Un leggero fruscio risuonò dall'apparecchio.

"Kephas?" rispose qualcuno, la cui voce sembrava metallica e deformata. "Sei tu?"

Scossi la testa, chiudendo le palpebre.

"Preparate la capsula di Kariot e impostate le coordinate per il grattacielo. Stiamo tornando."

In quell'istante lasciai crollare la ricetrasmittente per terra, che rimbalzò di lato, mentre qualcuno pronunciava frasi che percepivo come strane parole di una lingua sconosciuta. Sollevai Kariot da terra e lo caricai in spalla. Mi aspettava un lungo viaggio faticoso, ma l'adrenalina scorreva ancora a fiumi nelle vene e nulla avrebbe potuto fermarmi.

Feci il primo passo e sospirai amaramente; sarebbe stata l'ultima cosa che avrei fatto per lui. All'alba, non ci sarebbe stato più nessun noi. Iniziai a contare i passi e, arrivato a mille, decisi di fermarmi per riprendere il fiato. Sentivo le braccia formicolare, le spalle tremare, le gambe pesanti, e la mente dissociata dal resto del corpo.

"Posso farcela" pensai.

Feci altri mille passi e mi fermai ancora una volta. Il respiro era affannoso e il cuore martellava nelle orecchie. Era notte fonda, e tutt'a un tratto gli alberi ai lati della strada si accesero uno dopo l'altro. Quel buio profondo che, fino ad allora, aveva soggiogato la città, fu spezzato dall'arrivo delle lucciole, piccoli insetti volanti simili a stelle cadute dal cielo. Adesso l'umida notte non era più buia, ma brillava di verde e di giallo.

"Cosa volete da me?" rimuginai. "Andate via!"

Feci altri mille passi e ripresi il fiato. Il cielo iniziò a schiarirsi, ma era ancora presto per il primo saluto del sole. Le stelle, sbiadite dalla tela notturna e dal mio cuore a pezzi, disegnarono il viso di mia madre, giovane e bella. I suoi occhi brillarono, mi fecero il solletico al cuore, sorrisero al volto di un bambino disegnato accanto al suo. Quel bambino ero io.

"Mamma, perché le persone che amiamo ci deludono?" chiese il bimbo.

"La delusione, così come la sconfitta e la disperazione, sono gli strumenti che Dio usa per mostrarci la via."

Quelle parole tuonarono nella mia anima. Le lettere si torsero in una calda spirale che travolse ogni fibra del mio corpo. Feci altri mille passi e l'alba sorse timida in un cielo dai colori ancora opachi. Ero stanco: le gambe sembrava volessero spezzarsi da un momento all'altro, la gola era secca e il fiato rauco e corto. Barcollavo. A ogni passo quasi indietreggiavo di due. Non sentivo più le braccia e neppure le spalle. Giacomo, che mi vide arrivare da lontano, mi corse incontro con gli occhi sgranati e prese il corpo di Kariot.

"Santo cielo!" esclamò, ansimando. "Che gli è successo?"

Rimasi in silenzio. D'istinto avrei voluto tanto rispondere: "Quello che si meritava!", ma infine decisi di tenere per me quel commento, e dunque dissi: "Ha bisogno di cure mediche. Mettilo nella sua capsula e spediscilo da Goethe. Lui saprà cosa fare".

In quell'istante arrivarono Matteo e Bartolomeo che, in preda al panico, afferrarono la ricetrasmittente dalla cinta dei jeans di Giacomo e riferirono a Lux l'accaduto, la quale dispose l'occorrente per l'atterraggio. Nel mentre, Filippo e Giovanni stavano preparando la capsula antigravitazionale per la partenza. Al mio arrivo, mi fissarono con aria stranita, come fossi un intruso, un estraneo, diverso. Chinai il volto, intimidito, mentre esausto arrancavo tristemente verso la mia stanza da letto. Filippo si avvicinò di fretta e mi bloccò la strada.

"Cosa ti è successo?" domandò, poggiando una mano sulla mia spalla. "Sei pallido come un cadavere... sembri un morto che cammina."

Forse aveva ragione. Forse ero morto. Mi sentivo uno spettro, un'ombra separata dal suo corpo, incapace di manifestarsi, di toccare il mondo reale anche solo con un dito.

"Devo dormire" risposi, riprendendo a camminare.

Filippo, alle mie spalle, pronunciò delle frasi che si frantumarono nell'aria ancor prima di giungere alle mie orecchie, mentre a fatica trascinavo le gambe dentro Palazzo Montecitorio. Arrivato nella stanza da letto, mi gettai sul mio materasso e chiusi gli occhi. Un gran peso sembrò gravare sulla schiena, e i flashback della serata non tardarono ad arrivare. Dopotutto avevo acquisito altre esperienze, altre ferite, altre delusioni. Altri incubi da aggiungere alla scaletta della notte.

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