Capitolo 17 - Attimi di terrore (R)


Roma – 6 giugno 2026
Kephas.

Ismaele mi presentò uno degli anziani del Vaticano.

"Piacere di averti tra noi, Kephas. Il mio nome è Isacco."

Egli mi strinse la mano con una presa ferrea e sorrise con gli occhi, poi, attraverso un lungo corridoio coperto da una volta a botte, mi condusse in una stanza dei piani superiori del Vaticano. L'ambiente somigliava a un laboratorio di ricerca: vi erano un paio di computer, macchinari elettronici, provette disposte su tavoli bianchi, utensili e attrezzature meccaniche. Ismaele, che ci aveva seguiti silenziosamente, si schiarì la voce.

"Vi porterò il pranzo alle 12."

Si voltò di spalle e abbandonò la stanza. Isacco si sedette su una sedia girevole imbottita e si mise all'opera.

"Dovrei riuscirci" disse l'uomo. "Incrementare il raggio d'azione di questa ricetrasmittente non è poi così difficile."

Tra i tredici anziani del Vaticano, egli era quello con i capelli più lunghi. Da vicino sembravano tanti serpentelli di due specie diverse, una grigia e una bianca, ed entrambe sbucavano da sotto il turbante e scendevano fino alla bassa schiena. La barba, dello stesso colore dei capelli, era un cespuglio fitto a forma di triangolo, la cui punta sbatteva sulla tunica all'altezza del petto. L'uomo prese un cacciavite e aprì a metà la ricetrasmittente.

"Se non ti dispiace" dissi "starò qui a guardare."

Isacco fece più cenni con la testa.

"Come vuoi."

L'aria della stanza odorava di terra, umidità e marciume. Non vi erano finestre, e il riciclo dell'aria avveniva per mezzo di un sistema di aerazione naturale, costituito da aperture ricavate nelle pareti. Isacco lavorava alla luce gialla dell'unica lampadina che pendeva dal soffitto. D'un tratto si alzò dalla sedia e tirò verso di sé il cassetto di un mobile di legno. Prese una pipa, la caricò con un'abbondante presa di tabacco scuro, la accese con studiata lentezza e ne aspirò alcune boccate. Fissò il soffitto e si sedette di nuovo.

Con la mano libera iniziò a digitare su una tastiera collegata a un computer fisso, regolando, di tanto in tanto, le manopole di un dispositivo elettronico, simile a una radio antica, dotato di un monitor che mostrava dei dati numerici. Dunque mi sedetti su una sedia girevole e rimasi in silenzio a guardare, estraendo la pistola dalla cinta dei jeans. Ismaele tornò a farci visita a mezzogiorno in punto. Seguito da altri sei giovani uomini, fece sistemare su un tavolo libero una serie di portate colorate e due calici di vetro. Stappò una bottiglia di vino rosso e riempì i calici.

"Nel menù di oggi," proferì con tono sofisticato, "abbiamo optato per un primo di spaghetti all'amatriciana, con guanciale, pecorino e salsa di pomodoro, un secondo di saltimbocca alla romana contornato da verdure fritte, e infine dei frutti di stagione. Al tramonto ci sarà un incontro in cortile; pregheremo e mangeremo gelato."

Ismaele fece un inchino e lasciò la stanza, seguito dal resto degli uomini che, con uno sguardo alto e severo, non avevano proferito alcuna parola. Un odore delizioso sottomise all'istante quello di marciume, inebriando l'olfatto. Pertanto avvicinai la mia sedia al tavolo prima che il cibo si freddasse, e lo stesso fece Isacco, poggiando la pipa accanto alla tastiera. Estrassi il caricatore dalla pistola e posai entrambe le cose accanto alle posate.

"Non fare caso a loro" disse lui, arrotolando gli spaghetti con la forchetta. "Sono strani, ma hanno un cuore d'oro." Con mano tremante portò alla bocca l'oleoso groviglio, ed esternò un prolungato verso di piacere. Prese un tovagliolo e tamponò le labbra. "A volte credo che la gentilezza proceda di pari passo con l'ingenuità."

Mentre piegava il tovagliolo e lo adagiava accanto alle posate, terminai gli spaghetti e procedetti con i saltimbocca. Prima di divorarli, però, presi il calice e sorseggiai il vino.

"Che intendi dire?" chiesi.

Isacco scosse la testa sbattendo più volte le palpebre, e arrotolò altri spaghetti attorno alla forchetta.

"A te interessa solo di tornare dai tuoi amici sano e salvo. Alla prima occasione, ci venderai ai Nuovi Redentori. Ismaele è uno sciocco a lasciarti libero."

Al suono di quelle parole, poggiai il calice davanti al piatto e lo fissai con uno sguardo incriminatorio.

"Tu preoccupati del tuo lavoro, al resto penserò io."

Isacco annuì.

"Dio ha voluto così e io lo accontenterò. La morte non mi spaventa, se c'è lui al mio fianco."

Dopo il pranzo, egli terminò il lavoro nel giro di un paio d'ore. Strinse l'ultima vite della ricetrasmittente e mi porse quest'ultima.

"Prova!" esclamò. "Vediamo se funziona."

Dopo averla afferrata, selezionai la stessa frequenza utilizzata a Palazzo Montecitorio per comunicare con il gruppo rimasto nel grattacielo di Goethe.

"C'è qualcuno in ascolto?" domandai.

Seguì un periodo di silenzio alterato da un fruscio irritante. Isacco mi guardò perplesso, grattandosi la fronte.

"Forza!" sospirai. "Andiamo."

L'indice della mano destra ticchettò più volte sul tavolo. Isacco si accasciò sullo schienale e prese a ruotare sulla sedia girevole, a destra e a sinistra, guardando il soffitto. Gli lanciai uno sguardo truce e ripetei la domanda.

"Kephas?" pronunciò una voce maschile. "Sei tu?"

Il suono giunse distorto e lontano.

"Sì, sono io!" risposi. "Con chi parlo? Non ti sento bene."

Il segnale si andò sistemando da solo pian piano. Gli occhi di Isacco erano strabuzzati sulla ricetrasmittente, la sedia girevole immobile, la schiena dritta.

"Sono Giacomo!" disse, quando il fruscio era ormai lieve. "Che fine hai fatto? Da dove parli? Kariot è lì con te? Che aspettate a tornare?"

Un brivido mi tagliò a metà la schiena. Chinai il volto e una vampata di calore salì dallo stomaco. Scaraventai un pugno sul tavolo, mentre con l'altra mano stringevo la ricetrasmittente. Adesso ne avevo la certezza: Kariot era uscito da Palazzo Montecitorio per venirmi a cercare e, molto probabilmente, era stato catturato dai Nuovi Redentori. Ma questo Giacomo non lo sapeva.

"Stiamo bene!" risposi. "Io e Kariot abbiamo trovato dei locali molto carini, e stiamo prendendo il necessario per dare una festa, non appena il progetto sarà terminato. Torneremo di sicuro dopo cena, vogliamo trasportare tutto in un solo viaggio, e siamo alla ricerca del mezzo giusto."

Isacco inarcò le sopracciglia e socchiuse gli occhi. Poi portò la mano sulla lunga barba e la lisciò lentamente, più volte.

"Ma sei scemo?" urlò Giacomo. "Pensavamo ti fosse successo qualcosa! Che fosse successo qualcosa pure a Kariot. E invece state lì a prendere festoni e chissà cos'altro. Razza di..."

"Scusa, hai ragione" lo interruppi. "Avrei dovuto agire diversamente, lo so. Ma ormai è andata così e comunque non c'è da preoccuparsi. Ci vediamo presto."

Isacco continuava a fissarmi con lo sguardo accigliato, lisciando la lunga barba grigia e bianca.

"Ho dovuto persino mentire ad Andrea" si lamentò Giacomo. "Questa mattina ci siamo messi in contatto come ogni mattina, e ho dovuto raccontarle una balla..."

"Hai fatto bene" lo interruppi di nuovo. "Non perdete la concentrazione, abbiamo un progetto da portare a termine."

"Sì!" sospirò lui. "A presto allora."

Spensi la ricetrasmittente e mi sollevai dalla sedia, incastrandola nella tasca dei jeans. Poi presi il caricatore e lo feci scivolare all'interno della pistola. Lo sguardo basso e assorto.

Isacco balzò in piedi.

"Perché hai mentito al tuo amico?"

Alzai gli occhi su di lui, con un'espressione confusa e pensierosa.

"Perché non voglio che muoiano persone innocenti."

Egli si voltò di spalle, camminò fino alla tastiera del computer e prese la pipa. La accese e ne aspirò alcune boccate, fissando il soffitto.

"E il tuo amico?" chiese, continuando a darmi le spalle. "Quello che hanno preso i Nuovi Redentori, intendo. Perché fidati... loro lo hanno preso, e lo utilizzeranno come merce di scambio." Aspirò un altro paio di boccate e chinò il volto. "Di lui possiamo fidarci?"

Fissai le sue robuste spalle e, con le labbra serrate, strinsi la mascella.

"Lui è a posto!"

Nelle ore successive provai a contattare Kariot, utilizzando varie frequenze, ma le mie intenzioni si conclusero con un nulla di fatto. Al tramonto mi recai nei giardini per il gelato, dove Ismaele mi fece alcune domande. Lo misi al corrente delle novità, dopodiché mi invitò a pregare insieme a lui e a tutti i presenti, invito che rifiutai pur rimanendo a pochi passi da loro, seduto sulla panchina di legno con lo sguardo assorto sul laghetto.

Nel mentre il sole concludeva il suo cammino, e l'oscurità si faceva spazio nel cielo come in un tetro presagio. A cena, Ismaele mi deliziò con altre ricette prelibate e, infine, mi diede una camera da letto in cui poter passare la notte, in attesa che Kariot si facesse vivo.

La stanza era simile a quella in cui mi ero risvegliato dopo l'esplosione, a eccezione di un clemente particolare: non vi erano telecamere, ma solo un letto comodo e una finestra grande quanto la porta. Disteso sul materasso con i vestiti addosso, nascosi la pistola sotto il cuscino e poggiai la ricetrasmittente sul petto, mentre gli occhi, viaggianti nel cielo notturno lucente di stelle, si chiudevano lentamente. La tensione allentò pian piano la presa sul mio corpo, e il silenzio mi trascinò in un baratro soporifero.

"Kephas..." mi sussurrò all'improvviso una voce calda all'orecchio. "Scusa se ci ho messo tanto..."

Di colpo spalancai gli occhi. La donna incinta era chinata sul mio letto, con indosso una camicia da notte di lino bianco che lasciava intravedere le sue nudità. Le mani massaggiavano le mie gambe, gli occhi castano chiaro sorridevano di fronte ai miei, e i lunghi capelli biondi e lisci solleticavano le mie guance. Stupore e timore mi atrofizzarono dalla testa ai piedi.

"Da quanto tempo aspettavo un uomo vero..." sussurrò ancora la donna, con voce calda e focosa. "Finalmente le mie preghiere sono state ascoltate."

Le mani strizzarono le mie gambe con più forza, come se volessero strappare via la carne. Il viso si chinò sempre di più fino a quando le sue labbra incontrarono le mie. La lingua iniziò a danzare dentro la mia bocca intanto che, con dei gemiti di piacere, mi slacciava i bottoni dei jeans. In un attimo il mio corpo sembrò scosso da più scariche elettriche. Afferrai il suo viso e lo allontanai con sgarbo, respirando con affanno.

"Aspetta!" dissi con voce sommessa, per evitare di farmi sentire dagli uomini del Vaticano.

"Non posso più aspettare!" rispose la donna, ansimando. Portò le mani alle bretelle di pizzo e fece scivolare per terra la camicia da notte. "Sono tua."

Strabuzzai gli occhi, agitato. Il respiro era affannoso, il cuore martellava forte. Le labbra erano aperte e la gola asciutta. Dopo qualche istante ripresi il controllo e con un balzo scesi dal letto.

"No!" dissi con voce rauca e sommessa, aiutandola a ricomporsi. "Sono un uomo sposato, non posso farlo."

La donna allontanò le mie mani con rabbia, piegò il viso e si sedette ai piedi del letto. Le lacrime scendevano copiose dai suoi occhi; nessun singhiozzo, neppure un lamento. Le mani sulle gambe e lo sguardo deluso sul pavimento. Feci come per asciugarle le guance, ma ritrassi le dita intimidito. Non sapevo come comportarmi. Tutt'a un tratto la ricetrasmittente emise dei fruscii, e così la afferrai. La donna placò le lacrime, tirò su col naso e mi fissò con occhi tristi.

"Kariot, sei tu?" domandai.

La ricetrasmittente continuò a emettere soltanto dei fastidiosi brusii.

"Devo andare fuori!" dissi, fissando la donna. "Il segnale qui dentro non è buono."

Lei annuì, strofinando le dita sotto agli occhi umidi.

"Scusa per come mi sono comportata prima, ma..."

Alzai la mano e mi avvicinai a lei con un sorriso, poggiando due dita sulle sue labbra.

"Non c'è bisogno che ti scusi. Questa vicenda rimarrà tra noi."

La donna annuì di nuovo e, mentre stavo per uscire dalla stanza, disse: "Volevo concedermi a te per salvare la piccola creatura che ho in grembo, per abbandonare questo posto e avere la tua protezione. Isacco mi ha detto che moriranno delle persone, perché qui dentro la guerra non avrà mai fine". Portò le mani al volto e trattenne a stento un nuovo fiume di lacrime. "Fa sì che questo bambino nasca, Kephas... ti scongiuro."

Arrestai i passi sull'uscio della porta, e la guardai con la coda dell'occhio, sospirando.

"La vita là fuori non è come quella che avete vissuto tra queste mura. Non posso proteggerti più di quanto non abbiano già fatto gli uomini qui dentro. Adesso torna nella tua stanza, cercherò di fare del mio meglio."

Con passo felpato percorsi alcuni corridoi semibui del Vaticano, illuminati dal riverbero del cielo stellato e dei lampioni sparsi qui e là, per poi sbucare nei giardini. Il segnale della ricetrasmittente era ancora disturbato.

"C'è nessuno in ascolto?"

La voce di un uomo risuonò dall'apparecchio nel silenzio notturno, gracchiando.

"Poteva essere Kariot?" pensai nella mia testa.

Volsi lo sguardo intorno e spinsi in aria la ricetrasmittente. Poi, con passo felpato, mi diressi verso il cancello principale, luogo in cui il segnale sembrava migliorare a ogni passo. Mi fermai come un sasso a metà tragitto. La vedetta dentro la torre di guardia, al confine sinistro delle mura, era in piedi e vigile, con un fucile di precisione in una mano e una torcia invadente nell'altra.

Quando portò la mano alla bocca per sbadigliare, scattai come un felino, nascondendomi dietro a un alto e rigoglioso pino, situato quasi al confine destro delle mura. Il cancello principale, adesso, si trovava tra me e l'uomo di vedetta. Poggiai le spalle contro il tronco dell'albero e feci un respiro profondo.

"Kariot!" esclamai sottovoce. "Sei tu?"

La ricetrasmittente gracchiò, poi smise di fare rumore. Un silenzio sinistro avvolse l'atmosfera.

"Kephas!" esclamò il mio migliore amico, la cui voce adesso era nitida e pulita. "Sei davvero tu?"

"Sì, sono io!" risposi, elargendo un sorriso all'oscurità. "Che gioia sentirti. Stai bene?"

"Anche per me è un piacere" replicò. "Sono qui fuori, nascosto insieme a delle persone..."

Un lieve fruscio si fece spazio tra le nostre parole, gelando il fugace momento di felicità.

"I Nuovi Redentori..." sussurrai, digrignando i denti. "Cosa ti hanno fatto?"

"Niente..." pronunciò a bassa voce, con tono freddo e distaccato.

Sospirò profondamente. I secondi successivi, avvolti nel silenzio, parvero un'eternità.

"Non dirmi che vuoi fare l'eroe, Kephas. Non dirmi che vuoi salvare le persone lì dentro. Questa non è la nostra guerra, tu hai un compito ben più grande... e lo hai sempre avuto. Tu sei destinato a salvare il mondo."

Sgranai gli occhi. La mano che teneva la ricetrasmittente tremolò nell'aria. Mi accasciai lentamente al suolo, strofinando la schiena sul tronco. Lo sguardo rivolto al cielo.

"C'è una donna incinta" dissi, con voce malinconica. "Ho promesso che avrei salvato il suo bambino."

"Perché?" sbottò Kariot. "Perché? Lo sapevo, dannazione! Pensi che questo cambierà le cose? Che mantenendo in vita lui, l'orrore che hai commesso quel giorno svanirà?"

Si udì un tonfo sommesso, come se un pugno fosse stato scagliato sulla terra asciutta. I miei pensieri erano combattuti. Potevo io giocare a fare Dio, decidendo il futuro di persone che mi avevano accolto e salvato la vita? Il mio compito, per quanto di vitale importanza, avrebbe giustificato la morte di uomini innocenti? Strinsi la ricetrasmittente con rabbia e la portai alle labbra.

"Parla con loro, Kariot. Voglio che lascino viva la donna, solo questo."

Un silenzio sinistro avvolse l'atmosfera ancora una volta. Sporsi la testa e, con la coda dell'occhio, scrutai l'uomo di vedetta. Sopra di lui, la luce di un faro girava da destra verso sinistra e viceversa. La sua torcia illuminava lo spazio di poco oltre le mura. Il fucile di precisione era poggiato su una ringhiera di ferro, con la canna rivolta sul cancello.

"Kephas!" sussurrò il mio migliore amico, con voce affievolita. "Hanno accettato la condizione."

Emisi un sospiro di sollievo, poggiando il dorso della mano sulla fronte. La schiena abbandonata al tronco d'albero.

"Molto bene. Come facciamo adesso?"

Kariot non rispose subito. Uno strano brusio risuonò dalla ricetrasmittente, come se qualcuno stesse piangendo. Aggrottai le sopracciglia, preoccupato.

"Tocca a me adesso..." rispose il mio migliore amico, con tono malinconico. "Promettimi solo una cosa, Kephas... quando tutto questo sarà finito, tornerai dai nostri amici e terminerai il progetto come se nulla fosse. Sono sicuro che, quando sarete tornati indietro nel tempo, di questo periodo non rimarranno altro che ricordi di un mondo passato."

Rimasi impietrito, mentre un brivido serpeggiava tra le guance e si insinuava dietro le orecchie, per poi scendere giù per la schiena.

"Cosa vuoi dire? Che intenzioni hai?"

Un tonfo echeggiò dalla ricetrasmittente, poi dei passi veloci. Il chiasso divenne sempre più distante. All'improvviso un urlo rimbombò dal cancello: era la voce di Kariot.

"Sono qui!" sbraitò con disprezzo. "La guerra che temevate è arrivata."

Una vampata di calore mi infiammò lo stomaco, poi il petto e infine la testa. Cosa stava facendo quel pazzo? Sbucai fuori dal mio nascondiglio, feci per prendere la pistola ma non la trovai. Era rimasta sotto il cuscino. Sollevai lo sguardo, rabbioso. L'uomo di vedetta, con un'espressione allarmata, premette un pulsante che diede l'allarme. Un frastuono stridente e ridondante riecheggiò su tutto il Vaticano e, come lucciole nella notte, le stanze dei residenti si illuminarono una dopo l'altra.

Il cuore pompò più veloce il sangue ai muscoli, il respiro si fece affannoso. Lo sguardo saltò in ognuna delle stanze da letto, atterrito. Presi a correre, prima lentamente, poi sempre più veloce, distogliendo lo sguardo da quelle luci. La guardia avvicinò l'occhio nel mirino del fucile e, nel momento stesso in cui gridai di non sparare, agitando le mani al cielo, un proiettile sfrecciò nell'aria e si abbatté al suolo. Quando giunsi davanti al cancello e vidi il corpo di Kariot, immobile e sanguinante, disteso per terra oltre le sbarre di ferro, un vortice di inerzia mi travolse per intero, facendomi stramazzare al suolo, in ginocchio.

"No, maledizione! No!"

Le mie mani erano strette nelle sbarre di ferro, gli occhi lucidi al chiarore della luna. Un ruggito echeggiò nell'oscurità.

"Apri questo dannato cancello!" disse un uomo, con voce calda e solenne. Una tunica rossa sbucò dalle tenebre. "Clemente V è arrivato." Egli mi fulminò con uno sguardo scuro e profondo. "Il tuo amico non è ancora morto. Fossi in te lo porterei al sicuro."

La vedetta fece partire un altro corpo che mi ferì di striscio al braccio. Urlai dal dolore e portai la mano alla ferita, stringendo i denti. Le urla disperate di Ismaele giunsero alle mie spalle.

"Vai via di lì!" gridò con tutta l'aria che aveva in corpo. "Kephas! Vai via di lì!"

In quell'istante, alle spalle di Clemente V, apparvero una dozzina di uomini armati di mitragliette. Strinsi le palpebre e, con la mano tremolante, premetti il pulsante d'apertura. Il cancello iniziò a scorrere sul binario elettrico, cigolando.

"Kephas!" urlò Ismaele con disperazione. "Cosa hai fatto?"

I Nuovi Redentori entrarono in fila indiana. Il primo mitragliò la vedetta che, senza neppure avere il tempo di rispondere al fuoco, si arrotolò alla ringhiera della torre di guardia, volteggiò in aria e si spappolò al suolo. Un uomo giovane, con indosso una tunica nera, si avvicinò al mio corpo.

"Kephas!" disse con voce sottile e acuta. "Hai fatto la cosa giusta." Mi fissò con un ghigno deforme, dopodiché protese il braccio e mi aiutò ad alzarmi da terra. "Adesso esci di qui, questo posto è nostro."

Colpi di pistola schizzarono alle mie spalle e si abbatterono sul cancello. L'uomo al mio fianco sussultò due volte e cadde per terra, implorando aiuto mentre il sangue gli zampillava dal collo.

"La sua puzza!" esclamò Clemente V, con uno sbuffo ironico. "Glielo avevo detto di farsi una doccia."

Mi voltai impaurito. Ismaele premeva all'impazzata il grilletto della sua arma, urlando, e così anche il resto dei Conservatori. Ma quando l'intero gruppo dei Nuovi Redentori mise piede dentro il Vaticano, l'odore di sangue e depravazione impregnò ogni angolo di quelle mura. I proiettili perforarono braccia, gambe, stomaci e volti; alcuni uomini, in ginocchio, urlavano pietà, altri cadevano al suolo per un ultimo saluto alla terra, in posizione fetale.

Il sangue si sparse dappertutto, schizzando dalle arterie e dalle ferite aperte. Mi lanciai fuori da quel posto e trascinai Kariot dietro le mura, a un lato del cancello. Accarezzai i suoi capelli biondi e fini, e una lacrima scese dai miei occhi. Le sue pupille erano dilatate, le palpebre socchiuse, il respiro debole. Aveva perso molto sangue, ma per fortuna era stato colpito alla spalla, e con buona probabilità sarebbe sopravvissuto. Tutt'a un tratto emise un respiro rauco e sgranò gli occhi, fissando le stelle.

"Kephas..." sussurrò a fatica, con uno sguardo triste. "Ricordi la sera della vigilia di Natale? Quando ci siamo conosciuti e mi avete portato in quella casa?"

"Sì, Kariot" risposi, continuando ad accarezzare i suoi capelli. "Ricordo che tu all'inizio non volevi entrare perché ti metteva paura."

Kariot aprì le labbra in un tenue sorriso infelice. Il viso sembrava stanco.

"Ero già stato là" confessò, continuando a fissare il cielo. "Ho ucciso io quella famiglia sul divano."

Le dita si fermarono tra i suoi capelli, quasi paralizzate. Inarcai le sopracciglia e scossi la testa. "Perché Kariot? Perché mi stai dicendo questo?"

Egli chiuse gli occhi e dalle palpebre scese una lacrima simile a una goccia di rugiada. Era la prima che avevo visto solcare le sue guance da quando ci eravamo conosciuti. Ella tentennò un attimo, poi si spense dietro l'orecchio.

"Non ho mai parlato della donna ai Nuovi Redentori..."

Il tempo sembrò cristallizzarsi. Il mio viso divenne di pietra. Un tumulto di sensazioni contrastanti mi scossero lo stomaco.

"Kariot..." pronunciai con un filo di voce. "Cosa hai fatto..."

A fatica sollevai il volto e lanciai lo sguardo oltre il cancello. La donna incinta era lì, a un centinaio di metri da me, immobile. Mi fissava con un'espressione delusa, ancora in piedi, in silenzio tra le urla degli uomini. Protese in avanti le braccia, le mani sostenevano una pistola, adesso puntata su di me. I suoi occhi divennero lucidi, i muscoli tremarono, le dita allentarono la presa sul grilletto. Una raffica di proiettili la stese al suolo.

"No!" urlai secco, sollevando il braccio come per voler fermare quell'orrore.

Strinsi le palpebre e piegai la testa di lato. Erano tutti morti. L'ultimo colpo echeggiò assordante nel cielo e fu come il punto esclamativo a chiusura di una guerra immorale. Spirali di fumo si sollevarono sopra le armi. Era tutto finito. Il Vaticano aveva congelato i cuori, prosciugato le anime, assorbito i respiri. Non era rimasto più niente di me. Erano svaniti i segreti, le emozioni, gli affetti. Portai una mano al petto e il cuore si sgretolò dalla morsa di ghiaccio, piangendo calde lacrime. Adagiai la testa di Kariot per terra: non era rimasto più niente di noi.

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