Capitolo 12 - Le campane suonano (R)



Roma – 5 giugno 2026
Kephas.

L'estate era alle porte. Insipide gocce d'acqua cadevano ripide dal cielo picchiettando per terra; un turbinio di pensieri dolenti e infelici avevano dato il via a un triste risveglio. La giornata era da poco iniziata, e il gruppo di ingegneri era occupato a risolvere alcuni problemi, scaturiti dall'esplosione di uno dei due motori di avviamento della piattaforma temporale, emersi un paio di giorni addietro.

Per buona sorte il motore era esploso all'aperto, senza riportare danni al resto del lavoro svolto nei sotterranei di Palazzo Montecitorio. Questo incidente, tuttavia, aveva rallentato i lavori in modo considerevole. Tra l'altro, finora, Goethe non aveva voluto rivelarci come sarebbe dovuta avvenire, concretamente, la fase dello spostamento spazio-temporale, e questo faceva sì che il progetto risultasse ancora molto astratto.

Come ogni mattina mi ero messo in contatto con Andrea: con voce docile e allegra mi aveva comunicato che lo scienziato stesse insegnando loro una miriade di nozioni interessanti, con garbo e pazienza. Quando non studiavano, lei, Sofia e tutti gli altri godevano dei vari confort che il grattacielo offriva, passando giornate ricreative e rilassanti.

Parlare con lei scaricava gran parte della tensione accumulata nell'ultimo periodo, se non altro perché sapevo che i miei amici fossero al sicuro, in un luogo protetto e confortevole. Al contrario, quando era lei a chiedermi come stavo, mentivo... e mi chiedevo se stessi facendo la cosa giusta. I miei vestiti erano fradici. La tesa del mio cappello da cowboy, trovato in una stanza di Palazzo Montecitorio, grondava un rivolo d'acqua davanti al viso e un altro dietro la schiena. L'impermeabile gettava fiumi di pioggia sull'asfalto.

Osservavo da tempo, al centro della piazza di Montecitorio, i palazzi bianchi che sotto l'acquazzone erano diventati grigi, come se l'acqua del temporale anziché pulirli li stesse sporcando. Sulla città aleggiava una cappa triste. Pensai che il cielo stesse piangendo come il mio cuore. Per quanto ancora avrei dovuto ricordare i miei giorni più infelici? Alcuni passi risuonarono alle mie spalle, pestando con rapidità le pozzanghere.

"Giacomo mi ha detto che volevi parlarmi!" disse Kariot con tono severo, fermandosi al mio fianco, con un ombrello sopra la testa e lo sguardo fisso davanti a sé.

Lo guardai con la coda dell'occhio, sospirando.

"Ricordi quando ti ho parlato dei miei incubi?"

"Sì, certo. Ne abbiamo parlato parecchie volte."

"Sono tornati, Kariot."

Egli mi lanciò uno sguardo scettico.

"Non erano terminati molto tempo fa?" mi chiese, con tono più cupo.

"Sì!" risposi, preoccupato. "Esattamente il giorno in cui ci siamo incontrati e... il fatto che siano tornati... cosa vuol dire secondo te?"

Kariot accennò un sorriso.

"Incontrare me è stato positivo, no?" chiese, sarcasticamente. "Magari è un segno che le cose andranno meglio d'ora in poi... che ne so, sarebbe una fortuna se i lavori procedessero senza più interruzioni."

Mi voltai verso di lui, con il volto basso.

"Non so, Kariot. Ho una brutta sensazione."

Egli mi diede una pacca sulla spalla.

"Andrà bene, Kephas. Hai lottato per le tue idee e ci hai portati fin qui. Non devi temere di nulla, ormai il peggio è passato."

"Dici?" domandai, rialzando lo sguardo su di lui. "E allora perché gli incubi sono tornati a tormentarmi?"

"Perché..." rispose, muovendo gli occhi verso l'angolo esterno. "Non lo so perché. Forse hai solo paura di affrontare di nuovo il passato."

"Il passato..." meditai, a bassa voce. "Siamo appena scappati da esso e vogliamo tornarci. Non trovi che sia strano?"

"Ma che dici, Kephas!" esclamò lui, scuotendo la testa. "Hai fatto tanto per portarci fin qui e adesso sei il primo a dubitare?"

Sospirai amaramente.

"Dico solo che..."

Kariot rimase fermo a fissarmi. Le mie palpebre si chiusero lentamente.

"Ho ucciso un bambino. È successo prima di incontrare te. Aveva più o meno l'età di mio figlio... e l'ho ucciso perché non volevo che patisse la mancanza dei suoi genitori, come se questo mi desse il diritto di levargli la vita."

Kariot strabuzzò gli occhi. Le labbra socchiuse in un'espressione di stupore.

"Perché mi dici questo, Kephas?"

Sospirai, spalancando le palpebre e agitando le mani chiuse a pugno.

"Perché... se tornando nel passato non riuscissimo a cambiare niente? Se fossimo costretti a ripetere i nostri errori? Ci sono cose che non voglio rivivere, Kariot."

Egli strinse le labbra. Il suono della pioggia colmò i nostri silenzi. Gli sguardi cupi e incrociati l'uno sull'altro. I ricordi più vivi che mai. Kariot passò una mano sui miei capelli fradici, poi con un braccio mi strinse a lui, poggiando il mento sulla mia spalla.

"Abbiamo tutti qualcosa da farci perdonare..." sussurrò al mio orecchio. "Fatti forza."

Rimanemmo ancorati in quell'abbraccio per qualche secondo, poi Kariot sciolse la sua presa affettuosa, mi diede una pacca sulla spalla, e disse: "Adesso rientriamo, troppa pioggia fa male".

Un istante dopo era già diretto verso Palazzo Montecitorio, con lo sguardo dritto davanti a sé e un passo deciso e sostenuto.

"Comunque grazie per avermi protetto col tuo ombrello!" gli urlai. "Sei proprio un vero amico. Il migliore!"

La giornata proseguì serena; lavorammo alla piattaforma temporale con discreti risultati. Matteo e Bartolomeo avevano ormai ben chiaro il progetto di Goethe, tanto da istruire Filippo e Giovanni che sostavano dal lavoro soltanto per mangiare e dormire. Kariot e Giacomo, invece, erano quelli più liberi al momento; osservavano il lavoro svolto da Filippo e Giovanni, e aspettavano la loro autorizzazione prima di procedere nell'assemblaggio.

Al tramonto la coltre di nubi si lacerò a occidente e il cielo si colorò di un arancio sanguigno. La tempesta d'acqua sedò la sua ira e un arcobaleno incurvò i suoi colori chiari. Per cena mangiammo pasta al pomodoro, carne di maiale a volontà e un misto di verdure cotte, il tutto accompagnato da bottiglie di birra fresche. Goethe aveva pensato bene di occultare, nei sotterranei di Palazzo Montecitorio, un piano cottura all'avanguardia, una dispensa variegata e straripante di ogni cibo e bevanda, e ancora un frigorifero e un congelatore.

Dopo cena ci spostammo fuori, nella piazza, trascinando con noi un tavolo rotondo di legno, qualche sedia e un mazzo di carte siciliane. Una brezza calda soffiava da sudovest. Il cielo era pieno di stelle e la luna, avorio, brillava. Il turbinio di pensieri dolenti e infelici si era placato e, tra una partita di briscola e una di scopa, mi ritrovai a meditare sul mondo negli anni migliori della sua esistenza.

Gli uomini vivevano insieme in pace; non conoscevano la durezza della fame, della sete, e regnava l'amore. La terra dava i suoi frutti migliori, il cibo cresceva sugli alberi e l'acqua scorreva abbondante nei fiumi. L'uomo viveva in sintonia con gli animali e con la vegetazione, senza paura. Le donne erano ritenute sacre, e tutto ciò che proveniva da esse era magico. Si scrutavano le stelle sdraiati sopra un letto d'erba o sulla sabbia umida, bagnata dalle onde del mare. E poi, così come una rosa che perde i suoi petali, la Terra inaridì la sua bellezza. L'uomo divenne superbo, avaro, lussurioso, invidioso, irascibile e accidioso. Il destino del pianeta si capovolse e scoppiarono le guerre. E senza rendercene conto, scatenammo l'inizio di un processo involutivo, in grado di distruggere ogni briciolo di esistenza morale.

"Kephas, sei con noi?" domandò Kariot, passandomi una mano davanti la faccia.

"Sì!" risposi, trasalendo. "Eccomi, sono tornato."

"Stiamo per rientrare, si è fatto tardi. Tu non vieni?"

Il resto del gruppo si trovava alle sue spalle e mi guardava con stupore.

"No, rimango qui un altro po'. Magari mi faccio un giro e prendo una boccata d'aria, sai... per svuotare la mente."

Kariot poggiò una mano sul mio braccio, increspando le sopracciglia.

"Vuoi che venga con te?"

"No, no!" risposi, scuotendo la testa. "Lascio a te il compito di fare da supervisore."

Accennai un sorriso e mi voltai di spalle, incamminandomi verso la città. Kariot mi lasciò andare senza replicare, rimanendo fermo sul posto. Dopo un centinaio di metri, con la coda dell'occhio mi accorsi che, scalciando qualche piccola pietra sull'asfalto, si era deciso a rientrare nelle camere di Palazzo Montecitorio, insieme al resto dei presenti.

Feci un sospiro e continuai per la mia strada, con le mani in tasca e lo sguardo salterino sulle insegne dei vari negozi oscurate dalla notte. Alcuni corpi putrefatti erano distesi per terra, immobili da chissà quanto tempo. Dopo un po' svoltai a destra e notai che, alla fine della strada, si intravedeva l'insegna impolverata di un negozio di strumenti musicali. Con grande ammirazione, decisi di raggiungerlo.

Una volta terminato il progetto, avremmo sicuramente festeggiato, pensai, e una chitarra sarebbe potuta essere un'ottima compagna per fare baldoria. Poco prima di raggiungere il locale, udii il suono distante di una campana, la campana di una chiesa, e un brivido mi attraversò dalla testa ai piedi. Quell'ambiente prima ovattato si animò di nuova vita, e per un attimo mi sembrò di tremare dallo spavento. Com'era possibile una cosa del genere?

Cominciai a camminare più veloce, poi a correre, seppure fossi solo e intimorito, facendomi guidare da quel suono grave e reboante. Il desiderio di scoprire se ci fossero altri sopravvissuti era irrefrenabile e palpitava nel mio petto. Forse gli incubi erano giunti per questo, per avvisarmi che ci fossero altre persone in vita, magari come Kariot. Chissà cosa avrebbe detto lui in questo momento, se solo fosse venuto con me.

Il suono della campana vibrò più volte nel cielo, fino a cessare del tutto dopo una dozzina di secondi. Alla fine tornò il silenzio, stendendosi sopra una pace inquietante. Arrestai i miei passi, e mi girai intorno. La zona, adesso, era colma di macchine senza un filo di polvere, negozi puliti e in ottimo stato, e strade libere da corpi putrefatti, senza macchie di sangue sull'asfalto o detriti sparsi qua e là.

Mi voltai di spalle: ero ormai distante dalla mia base. Dopo un attimo di esitazione, controllai una dopo l'altra le macchine parcheggiate sulla strada, fino a trovare una Volkswagen Polo grigio urano con le chiavi inserite nel cruscotto. Misi in moto, accesi i fari e feci stridere le gomme sull'asfalto, lanciandomi in avanti a tutta velocità.

Una volta in viaggio mi accorsi che il sentiero, pulito e in ordine, mi stesse portando alle porte del Vaticano. Arrivato a destinazione procedetti con cautela, avvicinandomi al cancello principale facendo ruotare appena le gomme dell'auto. Un suono secco echeggiò all'improvviso, come se una pietra fosse stata scagliata sul cemento. Susseguì un'esplosione e poi ancora un tamponamento. Il mio corpo venne risucchiato verso l'alto, fuori dal parabrezza distrutto in mille pezzi, rimbalzando sull'asfalto, con lo sguardo rivolto al cielo.

Un fischio assordante riempieva le mie orecchie, scintille infuocate e frammenti di vetro schizzavano per aria. Sentivo caldo, quasi scottavo. La vista era annebbiata, la testa girava vorticosamente. Suoni confusi, grida soffocate, lamenti. L'odore di bruciato entrò nelle narici, il fumo serpeggiava sui vestiti. La gola arsa, la bocca impastata. Non mi erano ancora chiare le dinamiche dell'accaduto, il motivo per cui non riuscissi più a muovere il corpo. Vidi la mia famiglia disegnata dalle nuvole, dopodiché, caddi in un sonno profondo.

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