Capitolo 0.9 - Non sono pazzo (R)


Palermo - 10 gennaio 2023

Kephas.


Abramo non si svegliò dal sonno profondo. Il militare dagli occhi neri, nonché collega di Simone, rimase inerte sul pavimento per tutta la notte. Quando il sole sorse all'alba, gli occhi dei presenti, stanchi e arrossati, fissavano ancora quel corpo, ciascuno per motivi diversi. Lux, per esempio, era convinta che se Abramo fosse tornato dal regno dei morti, al suo risveglio si sarebbe trasformato in un cannibale. Giovanni, invece, non credeva a niente di tutto ciò, continuando a esprimere il suo disgusto verso quel cadavere.

Per ansia, paura o ribrezzo, i nostri occhi erano rimasti spalancati per ore, senza ottenere nulla in cambio. Le mie supposizioni erano crollate come le mura dello stadio di Palermo, creando un tonfo rumoroso in fondo al cuore. Gli interrogativi su quel prete sarebbero rimasti vivi per molto tempo. Tuttavia non sembrava interessare a nessuno a parte me, come se, in confronto al caos che regnava per strada, un presumibile ritorno dall'aldilà non fosse poi così importante.

"È inutile continuare a pensarci, Kephas" aveva detto Lux. "Non è una questione di vita o di morte."

"E se invece fosse l'unica cosa da capire?" avevo domandato.

"Cosa c'è da capire? Quel prete è morto dentro la chiesa, poi è morto di nuovo davanti lo stadio."

"E ti sembra normale come cosa?"

"A te sembra normale che il governo abbia deciso di sterminare tutti con un virus?"

"Quale delle due cose reputi più importante, Lux?"

"La seconda, è ovvio!"

"Quindi, secondo te, quel prete è morto, risorto e poi morto nuovamente, e noi dovremmo pensare al virus?"

"Dovremmo pensare a sopravvivere, sì."

"Dovremmo pensare a tante cose, Lux, finché ne abbiamo la possibilità."

"Pensaci tu, Kephas. Sei l'unico a cui importa. Le persone sono terrorizzate, non sanno quello che devono fare, come muoversi, cosa decidere. Non sentiamo i nostri cari da giorni, lo capisci? Tu non hai nessuno da chiamare?"

"No. Non ho più nessuno."

"E allora pensa anche agli altri, Kephas. Loro hanno bisogno di sapere dove sono le loro mogli, i loro figli."

"Sì. Naturale. Ma ho bisogno di saperlo anch'io."

Qualche ora dopo che sorse il sole, io e Simone portammo il cadavere fuori dalla scuola, adagiandolo accanto al portone d'ingresso. Lui lo teneva per le gambe, mentre io per le braccia. Nel modo di trascinarlo e distenderlo a terra, mi accorsi di uno strano tatuaggio impresso sul polso sinistro, che ritraeva una croce nera rovesciata. Simone gli diede un rapido sguardo dopo di me, ma non se ne meravigliò più di tanto.

"Immagino che per te non sia importante" dissi.

Simone sbuffò e guardò da un'altra parte, senza darmi alcuna risposta.

Il cielo era celeste e senza nubi, limpido come il cuore di un bambino, e il sole spandeva il suo calore con una dolcezza angelica. La corona di monti, i cui picchi si striavano dei primi albori rosati, sembrava immune alla violenza. Era difficile comprendere che in una simile mattina serena, fresca e sorridente la città stesse boccheggiando, come un uomo stretto alla gola da un maniaco, nella scura morsa della pestilenza. Era incredibile pensare, per di più, che la natura fosse tanto indifferente mentre gli uomini si torcevano negli spasimi e andavano atterriti alla morte.

"Cosa faremo adesso?" chiesi a Simone, strofinando le mani sui pantaloni.

"Credevo di averlo già detto" rispose. "Rimarremo in questa scuola finché ci saranno provviste."

"E basta?"

"Cos'altro vuoi fare? Una partita a briscola?"

"Non sei interessato a scoprire chi era quel prete?"

"Io lo so chi era, Kephas."

"Quel prete è tornato in vita, maledizione! Sei sicuro di sapere chi fosse?"

"Questo lo dici tu!"

"Lo ha confermato anche Lux! Credi ancora che io sia pazzo?"

"Kephas, Dio solo sa quello che stai passando. Lux mi ha detto della tua famiglia, della tua vendetta."

"Non c'entra nulla questo!"

"Invece io dico di sì. Credo che tu voglia cercare di riportare in vita i morti o chissà cosa. E quel prete è la tua unica speranza."

"Se così fosse sarei già tornato allo stadio, lì dove abbiamo lasciato il suo cadavere."

"No, non è vero. Non prendermi per uno sprovveduto. Se lui fosse tornato in vita, tu non lo troveresti di certo là. E se fosse realmente tornato in vita, ti avrebbe già cercato."

"Già! Le sue doti sensitive... lui conosce il futuro."

"Oh, oh! Questo è il colmo. Non ci credi, Kephas?"

"Mi sembra strano che lui conoscesse da tempo un futuro così sconcertante e che non ne abbia fatto parola con nessuno."

"Magari lo ha fatto, ma non con noi. Comunque vedo che anche tu dubiti degli altri, così come io dubito di te."

"Ti farò cambiare idea, Simone. La farò cambiare a ognuno di voi."

Nell'aria c'era odore di polvere e di abbandono: le vie della città erano vuote d'anima, abitate solo da un ronzante silenzio. I pochi passanti avevano un'aria così assente che quasi li si poteva credere fantasmi, se non fosse che mangiavano carne di qualunque essere vivente. Era difficile non sentirli arrivare, perché emettevano un continuo ringhio rauco che metteva i brividi. Il loro fiuto era formidabile e si aiutavano con il vento per scovare la preda. Per fortuna questa mattina l'aria, per quanto fresca, era calma.

Simone si accucciò dietro un muro che delimitava i confini della struttura scolastica e osservò i cannibali che camminavano per strada. Le sopracciglia basse e vicine, e le palpebre tese, rivelavano nel viso rabbia e curiosità. Lo scrutai ancora un istante, poi tornai nel laboratorio informatico. Al mio arrivo, Filippo era seduto alla sua postazione di lavoro e fissava il suo cellulare. Con passo felpato lo raggiunsi e mi sedetti sulla sedia girevole libera al suo fianco. Nella stanza, a parte noi due, non vi era nessun altro.

"Ciao Kephas!" disse, distogliendo lo sguardo dal suo smartphone. "Che dice il cadavere?"

"Non parla" risposi, mostrando un accenno di sorriso.

Filippo mi guardò con aria perplessa.

"Se ti può consolare, un obiettivo lo hai raggiunto."

"Che intendi dire?"

"Sei riuscito a impuzzire questa stanza!"

Le mie guance si incresparono insieme agli angoli della bocca.

"È vero, non pensavo facesse tutta questa puzza. E tu, invece? Hai raggiunto il tuo obiettivo?"

I miei occhi caddero sul suo cellulare. Filippo lo strinse tra le sue mani, con una tale forza che sembrò volerlo stritolare.

"No!" esclamò. "Le reti di telecomunicazione sono fuori uso. Non è possibile chiamare nessuno, non con un cellulare almeno."

"Mi dispiace, Filippo."

"È colpa mia, Kephas... non sarei mai dovuto partire."

Il suo mento si chinò sulla base del collo e i suoi occhi, tristi e socchiusi, divennero lucidi.

"Chi hai lasciato a Bologna?" domandai, con un po' di imbarazzo.

"La donna più bella del mondo" rispose. "Le avevo promesso che, una volta terminato questo lavoro, avremmo avuto un bambino."

Il mio sguardo si perse nel vuoto. Un brivido lungo la schiena precedette un legittimo silenzio. In quell'attimo mi resi conto di non essere speciale, di non essere il solo a cui la perdita dei propri cari avesse aspirato parte dell'anima. La vendetta era soltanto una stupida scusa per tenere gli occhi aperti, non di certo un'esclusiva di cui potersi vantare. Se non altro, ai morti spettava il privilegio di non assistere al dolore dei sopravvissuti.

"Filippo! Troveremo un modo per andare avanti."

Filippo si voltò verso di me e, prima di guardarmi negli occhi, si asciugò una lacrima solitaria che stava per scivolargli sulla guancia.

"Lux mi ha parlato di come l'hai salvata... e della tua famiglia. Questo ti fa onore, sappi che per me non sei un pazzo."

Gli diedi una leggera pacca sulla spalla, mentre mi alzavo dalla sedia.

"Lux parla troppo" dissi, mostrando un sorriso. "Ma apprezzo la tua sincerità."

Filippo strinse le labbra e annuì. Gli diedi un'altra pacca sulla schiena e mi incamminai verso i distributori di merendine. Da lontano, vidi Alessio reggersi su due stampelle, mentre cercava a fatica di acchiappare cibarie varie. Mi avvicinai al suo fianco agevolandolo e, dopo l'improvviso brontolio del mio stomaco, afferrai un pacchetto di M&M's dal distributore.

"Grazie!" esclamò Alessio, sorseggiando il suo tè.

"Dove le hai trovate?" gli domandai, assaporando la delizia del primo confetto di cioccolato.

"Le stampelle dici? Me le ha portate Lux. Dice di averle trovate nella palestra."

"E brava Lux!" risposi. "A proposito: come mai non siete assieme?"

"Perché dovremmo esserlo?"

"Pensavo ci fosse del tenero tra voi."

"Kephas... ti sembra questo il momento?"

"No! Ma siete giovani... avrei potuto capire."

"Ha parlato l'uomo vissuto. Quanti anni hai? Comunque c'è stato solo un bacio."

Il mio stomaco brontolò ancora una volta, dunque lo soddisfai sgranocchiando un paio di confetti colorati.

"Quarantatré, mio caro."

"Come Gesù!" esclamò con stupore, come se ci credesse sul serio.

"Ma non erano trentatré, quelli?" domandai, ingurgitando altri cioccolatini.

"Che importanza ha... ora che ti guardo meglio, ci assomigli!"

"Mah! Peccato che non posso fare miracoli."

"Già, è un vero peccato!", poi bevve un altro sorso di tè e si fece serio. "Ora dimmi perché sei venuto da me."

Prima di rispondere, masticai un altro paio di M&M's. Dopodiché lo guardai negli occhi.

"Questa scuola è la nostra fortezza," dissi "ma il cibo finirà così come l'acqua o qualsiasi altra bevanda."

"Beh, puoi bere quella dai rubinetti dei bagni."

"Sempre che non sia contaminata."

Alessio mi fissò con le palpebre tese e semichiuse.

"Dove vuoi arrivare, Kephas?"

"Secondo te quanto tempo abbiamo prima che finiscano le scorte di cibo? Una settimana? Bene, hai una settimana di tempo per convincere Simone a portarci in un'armeria. Abbiamo bisogno di armi, munizioni e di qualcuno che ci insegni a usarle. E tu e tuo fratello siete gli unici in grado di poterlo fare."

"Io non prendo ordini da nessuno, tanto meno da un pazzo."

Di fronte al suo sguardo ostile, presi il pacco di cioccolatini e feci scivolare quelli restanti dentro la mia bocca, piegando la testa all'indietro e facendoli cascare dall'alto. Poi lo fissai, masticando quelle delizie.

"Ne riparleremo fra un paio di giorni, quando questa scuola non sarà altro che una scatola vuota. Rimettiti presto."

Con aria disinvolta mi voltai verso i bagni, accartocciai la confezione di M&M's e la gettai in un contenitore.

"Troppo pochi ce ne mettono" pensai tra me e me, deglutendo l'ultimo granello di cioccolato.

Prima di mettere in moto le gambe, però, un dubbio si infiltrò tra i miei pensieri.

"Come farai con la marijuana?" domandai, dando le spalle ad Alessio. "Dove la prenderai adesso?"

Il militare rimase in silenzio per un attimo, poi rispose: "Da nessuna parte. Sarà l'occasione giusta per smettere".

Il suo tono di voce mi sembrò infastidito.

"Quindi assisteremo a momenti di rabbia incontrollata e crisi isteriche?" chiesi con sarcasmo.

"Kephas, la marijuana non crea dipendenza."

"E che ne so io, mica sono un drogato."

A quel punto presi a camminare senza fretta, seguendo le note stonate di Giovanni che danzavano nel corridoio.

"Vai a quel paese!" esclamò Alessio, sbattendo una stampella per terra. "Tu e le tue frecciatine da quattro soldi."

Il suo corpo svanì poco dopo alle mie spalle e non ricevette ulteriori risposte dal canto mio, al contrario di quanto invece continuò a fare lui: "Sì, ecco, vai! Vai a rompere le scatole da un'altra parte".

Le sue parole non mi diedero adito di fermare i passi né di replicare al suo ridicolo nervosismo. La cantilena stonata di Giovanni stregò le mie gambe, tirandole a sé verso i bagni. Al mio arrivo, l'ingegnere elettronico stava sciacquando le sue mani in un lavabo di marmo bianco.

"Ehi, Kephas!" esclamò. "Non ti consiglio di sederti, i bagni sono molto sporchi."

Un odore nauseante assalì le mie narici.

"Ma cos'è questa puzza?"

Il mio braccio si precipitò sul viso e, contraendosi, coprì il naso e le labbra. L'aria era irrespirabile.

"Purtroppo senza la mia dose quotidiana di verdure ho problemi di digestione."

Con un'espressione disgustata feci qualche passo indietro, fino a quando i miei piedi evasero da quell'inferno.

"Lo sento!" esclamai a voce alta, riprendendo a respirare aria pulita.

Il braccio, dopo essermi stato di grande aiuto, tornò a distendere i suoi muscoli lungo il fianco. Tuttavia la smorfia di disgusto rimase invariata. Dopo aver asciugato le sue mani, Giovanni mi raggiunse nel corridoio.

"Che esagerato!" esclamò, grattandosi la pancia. "Anche i geni hanno qualche difettuccio."

"Più che difettuccio, quello che ho sentito là dentro sembrava un agguato alla mia esistenza."

"È la mia unica debolezza, Kephas! Ti prego di non farne parola con nessuno."

All'improvviso un'idea fulminò la mia mente e il viso abbandonò la sua forma nauseata, mostrando un sorriso.

"A tal proposito vorrei farti una proposta" dissi, fissandolo negli occhi.

"Dimmi pure" rispose, incuriosito.

"Sei d'accordo con me, quando dico che non ci vuole un genio per capire che, prima o poi, moriremo di fame rimanendo qui dentro?"

Giovanni fece un cenno con la testa.

"Sì..."

"Arriverà il giorno in cui dovremo decidere cosa fare..."

"Probabilmente..."

"Dunque, se quel giorno sarai dalla mia parte, non rivelerò il tuo difettuccio."

Giovanni divenne pensieroso.

"E cosa intendi proporre?"

"Munirci di armi e combattere questa guerra."

"Ma sei pazzo? Nessuno di noi è addestrato per una tale follia."

"A questo penseranno Simone e Alessio. Sono militari, hai dimenticato?"

"No, aspetta!" esclamò, agitando le mani davanti al corpo. "Potremmo agire diversamente."

"Sentiamo" dissi.

"Simone mi ha detto che gli stessi cannibali uccidono altri cannibali, colpendoli al cuore o alla testa, come per preservare, a loro volta, la loro sopravvivenza. Mi ha spiegato che non ci sono regole: il virus non è stato progettato per creare una specie diversa dalla nostra, ma per disintegrarci del tutto. Lo ha visto con i suoi occhi, ne è sicuro. Se ci pensi è una teoria piuttosto logica: l'unico impulso dei cannibali è quello di cibarsi, ma più loro aumentano, più noi diminuiamo, e quindi anche le loro scorte di cibo. Sebbene il processo di sterminio totale potrebbe durare ancora molto tempo, abbiamo più probabilità di sopravvivere rimanendo nascosti."

"Giovanni, ma come puoi dire questo? Non hai una moglie? Dei bambini?"

Giovanni chinò il volto, amareggiato. Le sue labbra prima si schiusero, come per voler esclamare d'impulso qualcosa, poi sigillarono ogni fessura carnosa, come per pesare ogni sillaba pronunciata da lì in poi.

"Cosa ti hanno portato via, Giovanni?"

La sua mano destra si librò in aria, tolse gli occhiali dal viso e stropicciò gli occhi.

"Mia moglie" sussurrò "e il bambino che portava in grembo."

La sua voce divenne sottile e flebile.

"Hai provato a chiamarla?" domandai.

"Certo!" esclamò. "Ma è tutto inutile! Hanno installato un apparecchio elettronico che devia tutte le chiamate."

La mano che copriva gli occhi sistemò gli occhiali e tornò al suo posto. Le sue pupille erano arrossate.

"E non puoi fare nulla per disattivarlo?" chiesi.

La sua espressione adesso era imbronciata. Giovanni prese a gesticolare.

"Ho provato, insieme a Filippo, a cercare la fonte di tale disturbo. Sembrerebbe provenire da Milano, in una zona vuota dove non vi è alcun edificio. È impossibile, insomma. Come fa un segnale a essere emanato dal nulla?"

"Sei tu l'ingegnere, questo io non lo so."

Giovanni distolse lo sguardo dai miei occhi, lasciandolo scivolare verso il laboratorio di informatica.

"Sì, sono io" rispose, portando le mani chiuse a pugno davanti al bacino. "Adesso vado, ho una missione da compiere."

E così i suoi passi, decisi e scattanti, echeggiarono nel corridoio, persuadendo corpo e spirito di poter combattere la guerra.

I giorni successivi passarono lenti e monotoni, come una lunga agonia, perché non sapevamo cosa ci avrebbe riservato il domani, perché capivamo che per noi, in quel mondo, non c'era posto, e perché non potevamo fare nessun programma. I dati dei computer erano, di giorno in giorno, sempre più sconvolgenti: ormai i puntini rossi erano più numerosi di quelli verdi, e la quantità complessiva tra umani e cannibali diminuiva a dismisura. Ogni parte della nazione soffriva allo stesso modo, ma Sicilia e Sardegna sembravano meno coinvolte rispetto al resto dell'Italia.

Tuttavia, il numero totale dei defunti, a otto giorni dal sorgere dell'epidemia, si aggirava intorno ai sei milioni. Il Male si era insinuato sulla Terra come un bisbiglio gelido che, nelle menti di chi lo continuava a rifiutare, incombeva di notte insieme all'insonnia. Tapparsi le orecchie era uno sforzo assai inutile quanto svantaggioso, giacché il bisbiglio sarebbe diventato ancor più insistente. Sfuggirvi, dunque, era impossibile.

Come da copione, sei giorni dopo il nostro arrivo alla scuola, i distributori di bevande e alimenti erano già vuoti. Frazionare in maniera diligente il cibo aveva solo concesso a tutti noi di meditare sulle scelte future da prendere. Erano le sei in punto del pomeriggio: Simone, seduto a sul pavimento, smanettava da un po' con la sua ricetrasmittente, cambiando frequenza di continuo.

"Pensi che qualcuno risponderà, prima o poi?" chiesi, rannicchiato per terra, di fronte a lui.

"Lo spero" rispose, girando una manopola della radio militare. "I computer danno un'idea troppo vaga di quello che sta succedendo lì fuori. Sarebbe un vero miracolo sentire la voce di qualcuno."

Nemmeno il tempo di finire la frase che il lamento di un uomo interferì nella frequenza impostata da Simone.

"Pronto? Pronto? C'è qualcuno all'ascolto?"

Strabuzzai gli occhi di colpo.

"Chi parla?" chiese Simone, incredulo.

Sia Giovanni che Filippo, che Lux e Alessio, si catapultarono sulla ricetrasmittente.

"Oh, sia lodato il cielo!" rispose un uomo, dall'altra parte. "Pensavo fossero tutti morti."

Rimasi distante a guardare l'espressione di stupore del militare più grande. Quella voce era sbucata dal nulla nel posto giusto e al momento giusto.

"Dove ti trovi? Chi altro c'è con te? Sei un militare?"

Le labbra di Simone si mossero molto in fretta, ma ogni parola fuoriuscì ben scandita.

"No no, quale militare" rispose l'uomo. "L'ultima volta che ne ho visto uno è stato prima di scappare dal loro rifugio, dentro lo stadio. Da allora mi trovo da solo dentro una macchina."

"Era una di quelle persone sistemate nelle tendopoli" pensai ad alta voce, fissando Lux, la quale mi fece un cenno con la testa.

"Quanto sei riuscito a fuggire?" chiese di nuovo Simone, tappandosi un orecchio come se non volesse sentire la mia voce.

"Poco e niente" disse l'uomo. "Mi trovo ancora davanti allo stadio; mi sono chiuso in una Golf bianca e non sono più uscito da allora."

Simone disattivò la comunicazione e mi fissò.

"Kephas, sai cosa vuol dire questo?"

Agitai le mani davanti al corpo, con uno sguardo scettico.

"Che se la sta facendo addosso?"

Gli occhi sgranati e la bocca aperta delinearono la sua incredulità.

"Santi numi! Vuoi scherzare o fare sul serio?"

Nel frattempo, l'uomo sconosciuto riprese a parlare: "Sei ancora lì? Puoi aiutarmi?".

Simone scosse la testa, emettendo un verso gutturale. Poi avviò di nuovo la comunicazione: "Non vedo perché dovrei!".

Seguì un attimo di silenzio.

"Aspetta!" esclamò l'uomo, con leggero affanno. "Non chiudere la comunicazione. A cinquanta metri da me c'è un camion alimentare. Se mi farete uscire da questa macchina, potrò guidarlo e portarlo in una zona più sicura, e potremo dividere le scorte di cibo."

Simone rifletté per un istante.

"Sai guidarlo?"

"Sì, sono un camionista! Il mio nome è Taddeo e provengo da Catanzaro. Sono arrivato a Palermo la notte del sei gennaio per una consegna, e sarei dovuto ripartire la mattina dopo, ma i militari hanno bloccato tutti i trasporti. Adesso sapete tutto di me, dovete aiutarmi."

Simone stropicciò il suo viso con la mano e fissò il pavimento. Il resto dei presenti guardava la ricetrasmittente con aria assorta.

"Un altro che è arrivato a Palermo il sei gennaio" dissi. "A nessuno sembra strano?"

Il militare alzò lo sguardo su di me con la fronte aggrottata.

"Sei tornato serio, Kephas?"

Per un attimo il silenzio avvolse l'austerità dei nostri sguardi.

"Non è l'unica cosa strana, comunque" continuò Simone. "L'uomo sta parlando dallo stadio con una ricetrasmittente e dice di non essere un militare, ma dubito che una ricetrasmittente di bassa qualità possa trasmettere un segnale così pulito a una distanza di circa tre chilometri da noi. Sono quasi sicuro quindi che l'uomo sia in possesso di una radio militare."

"E non è tutto!" disse Giovanni. "Dice di non essere mai uscito dalla macchina dopo l'esplosione, ma ciò è successo sei giorni fa. Come ha fatto a resistere senza cibo e acqua? Non mi sembra un tipo così gagliardo."

"Vediamo cosa dice lui" rispose Simone. "Abbiamo bisogno di quel camion alimentare, ma c'è qualcosa di strano sotto."

Il militare strinse la ricetrasmittente e premette il pulsante per la comunicazione.

"Taddeo!" esclamò.

"Sono qui!" rispose lui.

"Ti conviene dirmi la verità, non sono per niente un tipo paziente."

"Quale verità? Ti ho detto tutto."

"Ho motivo di credere che non sia così. Cos'hai nella macchina?"

"Cosa vuoi dire?"

"Hai armi, alimenti?"

"Sono disarmato! Vi sembrerà assurdo, ma quando sono entrato in questa macchina c'era di tutto. Una busta con cibo e bevande, una ricetrasmittente militare e un biglietto che mi diceva di accenderla oggi, alle diciotto in punto, in questa frequenza, sostenendo che mi avrebbe risposto un certo Kephas. Tu sei Kephas?"

Simone mi fissò con aria sbigottita, insieme al resto dei presenti. I miei occhi divennero due biglie di vetro.

"Cosa vuoi da Kephas?" domandò il militare, con un filo di voce.

"Non voglio niente da lui" rispose l'uomo. "Ti sto solo dicendo quello che c'è scritto nel biglietto."

Un pensiero lancinante fulminò la mia mente.

"È opera del prete" sussurrai. "La radio militare, la lettera, i sacchi della spesa. Se poi aggiungiamo che è arrivato a Palermo il sei gennaio, e che sia la nostra unica fonte certa di sopravvivenza, le coincidenze sono talmente tante da convincere anche il più diffidente."

Nessuno replicò alla mia supposizione; ognuno si voltò verso l'altro come per cercare di aggrapparsi a qualcosa. Numerosi occhi si mossero verso destra, poi verso sinistra. Le palpebre scattarono foto all'incredulità generale, oltre che al timore dell'ignoto. Le labbra chiuse in segno di arresa.

Simone, con passo cadenzato e gli occhi stralunati, mi porse la ricetrasmittente.

"Adesso tocca a te, Kephas."

La afferrai con stupore, notando lo sguardo paralizzato dei presenti. Con la stessa cadenza Simone si voltò di spalle e tornò al suo posto.

"Sono Kephas" pronunciai, premendo il pulsante per la comunicazione. "Ti tireremo fuori di lì."

Con un balzo mi sollevai da terra, porsi nelle mani di Simone la ricetrasmittente, che nel mentre avevo spento, e mi girai intorno con aria riflessiva.

"Cosa intendi fare?" mi domandò Giovanni.

"Prendere in mano il nostro destino" risposi.

"Dimentichi che la città è piena di cannibali, e che tre chilometri non sono pochi. Tra l'altro dovremmo percorrerli a piedi, perché il rombo di un qualsiasi motore attirerebbe l'attenzione dei mostri."

"Esatto! I rumori attirano la loro attenzione! Sei un genio, Giovanni."

"Ne sono consapevole, e non c'è occasione in cui io possa dimenticare di vantarmene. Tuttavia, credo che sarebbe più opportuno mettere ai voti la questione."

Lo fissai con aria titubante e, dopo un attimo di esitazione, feci un cenno con la testa.

"Certo! Procediamo: chi è contrario a salvare la vita del camionista parli ora o taccia per sempre."

Nessuno aprì bocca, dunque continuai a parlare: "Bene! Adesso è il momento di agire. Nella stanza della vicepresidenza dovrebbe esserci un microfono collegato all'altoparlante della scuola".

"Potrei programmare un timer" disse Filippo "in grado di azionare un riproduttore musicale, di uno di questi computer, allo scoccare di un tempo prestabilito. Basterà trovare delle casse wireless per trasmettere il segnale nella stanza della vicepresidenza."

Guardai l'ingegnere informatico con aria stupita. Giovanni calava la testa su e giù come per compiacersi, stranamente, delle parole espresse da Filippo. Il resto dei presenti lo guardava colpito tanto quanto me.

"Io avevo pensato alla sveglia del mio cellulare" dissi.

Filippo mise il broncio e strinse le sopracciglia.

"Ma sì, anche come dici tu andrà bene."

Le sue guance si pieghettarono in un sorriso. Il mio sguardo divenne severo.

"Adesso controlla il tuo portatile e guarda la via più sgombra nelle vicinanze. E là che ci nasconderemo dai cannibali, prima di far suonare la sveglia."

Nelle due ore a seguire ognuno di noi preparò l'occorrente per il viaggio. Filippo e Giovanni presero i loro portatili, Alessio tolse la fasciatura dalla sua gamba, la cui ferita era ormai cicatrizzata. Lux mise nello zaino i pochi alimenti rimasti, mentre Simone ripulì le sole due armi che avevamo. Alle otto di sera, con il cielo coperto dalle nuvole e le strade buie e disordinate, avevamo raggiunto il vicolo deserto consigliato da Filippo.

La paura batteva forte nel petto e il respiro accelerato creava sbuffi di vapore biancastri. Tutt'attorno il silenzio dell'inverno: lo scricchiolio di qualche ramo nel vento sottile, il bubbolio di un gufo nascosto chissà dove. La sveglia squillò dopo qualche minuto e l'altoparlante, lasciato acceso nella scuola, trasmise una forte e distorta suoneria allegra. La corsa sfrenata ebbe inizio. Tutto intorno sembrò sfumare nell'ombra: i muri di cemento, l'asfalto ghiacciato, i pali della luce, le insegne dei locali. I passi tonanti dei cannibali echeggiarono da ogni direzione e si diressero verso la scuola, come da programma.

Correvamo contro vento, voltandoci di tanto in tanto, fermandoci a ogni incrocio. L'adrenalina ci riscaldava dal freddo, il ringhio dei cannibali ci faceva tremare. I miei occhi guardavano le finestre di ogni abitazione e ognuna di queste pareva essere abitata da ombre umane. Il rischio che qualche mostro incrociasse la nostra corsa era molto alto, ciò nonostante il fato si schierò dalla nostra parte e, dopo circa mezzora, raggiungemmo la nostra meta.

Simone frenò la corsa davanti a noi e fece segno di abbassarci. Poi camminò a gattoni fino al portabagagli di una macchina, sollevò la testa e, attraverso il vetro posteriore, scrutò la facciata dello stadio. Si voltò e confermò la presenza della Golf bianca parcheggiata lì di fronte. La sveglia era ancora in funzione; finché la batteria del cellulare avrebbe retto, non si sarebbe fermata. Il suono distorto dell'altoparlante, la cui origine era ormai distante tre chilometri circa, arrivava lieve. Simone camminò carponi fino al muso della macchina, si guardò intorno e fece una rapida analisi. Con respiro affannoso, tornò indietro e disse: "Attorno alla Golf ci sono tre cannibali e abbiamo solo due pistole e tre colpi".

Poi fissò Alessio e continuò: "Non possiamo sbagliare, ne va della vita di tutti".

Il fratello minore strinse la sua arma e fece un cenno con la testa. Simone si voltò di spalle e si gettò contro il nemico, cercando di coglierlo di sorpresa. Alessio seguì i suoi movimenti da dietro, mentre noi rimanemmo accucciati dietro la macchina. Lux mi saltò al collo e mi strinse forte, tremando. I suoi brividi si allacciarono al mio corpo e così tremai anch'io. Giovanni e Filippo avevano gli occhi chiusi e stretti, le mandibole serrate e le mani incrociate in segno di preghiera.

Un attimo dopo i cannibali accolsero i due fratelli ringhiando, dopodiché tre colpi di pistola echeggiarono uno dopo l'altro, e il silenzio avvolse l'atmosfera. Pensai che fosse tutto finito.

Lux si staccò lentamente dal mio corpo e mosse la sua testa di lato, oltre la ruota posteriore dell'auto.

"Ce l'hanno fatta" sussurrò di stucco, come se non credesse davvero ai suoi occhi.

Quindi mi alzai in piedi e, curioso e timoroso al tempo stesso, mi accostai al fianco di Lux insieme ai due ingegneri. Simone, da lontano, fece segno di raggiungerlo, mentre Alessio perquisiva i corpi dei cannibali. Lo sportello della Golf bianca si aprì di colpo non appena arrivammo davanti alla macchina. Un uomo alto e muscoloso, con una tuta aderente e una giacca di camoscio bordeaux, uscì lentamente.

"Grazie al cielo siete venuti!" esclamò a bassa voce, guardando a destra e a sinistra, impaurito.

"Credevo che i camionisti fossero tutti rozzi e grassi!" disse Alessio, scrutandolo dalla testa ai piedi.

"Ma è un falso mito" rispose, accorgendosi che tra i presenti ci fosse una donna.

Confusi capelli neri gli cadevano sulla fronte e sul collo in un ammasso di riccioli. I suoi occhi color nocciola, in armonia con la carnagione, si erano illuminati al nostro arrivo. Simone si avvicinò a lui e gli strinse la mano.

"Avremo modo di conoscerci dopo. Adesso dobbiamo andare."

Poi la ritrasse, avviandosi verso il camion insieme al nuovo arrivato e al resto del gruppo. Prima di seguirli, allungai lo sguardo sul sedile anteriore lato guida e vidi la lettera con su scritto il mio nome. La acchiappai, le diedi uno sguardo rapido e, nel tentativo di piegarla e metterla in tasca, mi accorsi che, accanto alla ruota della macchina, vi era una pistola. Mi piegai sulle ginocchia e la afferrai con stupore.

"Chissà se è carica" pensai. Poi sollevai lo sguardo.

Nessuno si era accorto che fossi rimasto indietro: Simone guidava gli altri con una camminata veloce, guardando dritto a sé con la pistola spianata, benché scarica. Mi alzai in piedi e, seppur curioso di ispezionare il resto dell'auto, mi limitai a prendere la ricetrasmittente militare. Dopodiché li raggiunsi con uno scatto veloce, posizionandomi alle loro spalle. All'improvviso lo sportello di un'automobile, parcheggiata dietro al camion, si aprì di colpo, e un uomo scese con gli occhi strabuzzati. Simone arrestò i suoi passi e gli puntò la pistola contro.

"Non spararmi!" urlò lo sconosciuto, alzando le mani sopra la testa.

L'uomo portava un cappotto nero lungo fino alle caviglie, chiuso da due file di grossi bottoni.

"Chi sei tu?" domandò Simone, agitando la sua arma.

Gli occhi dell'intruso divennero neri come la pece, poi tornarono a essere verdi un istante dopo, come se un'ombra gli fosse passata davanti alle pupille.

"Quegli occhi..." pensai. "Sono loro. Sono gli stessi."

Tutto il corpo fremette, il mio braccio si allungò in avanti senza controllo. Lux seguì il mio gesto con la coda dell'occhio ed emise un urlo. L'indice spinse il grilletto.

Il proiettile fuoriuscì dalla canna della pistola, attraversò i fianchi di Alessio e Simone, e trafisse in pieno il cuore di quell'uomo. Il suo corpo indietreggiò di qualche passo, poi cadde come un sasso, all'indietro.

"Ma cosa hai fatto?" urlò Simone. "Sei impazzito? Da dove è sbucata fuori quell'arma?"

"Avrebbe cercato di uccidermi" dissi, con la pistola ancora protesa in avanti. "Lo avrebbe fatto, se ne avesse avuto la possibilità."

"Ma cosa dici, Kephas? Voleva solo il nostro aiuto."

"Ti dico che è così! È uno di loro."

"Uno di loro? Cosa stai farneticando?"

"Vuoi la prova? Ricordi cosa abbiamo visto questa mattina? Controllagli il polso."

Simone, coi pugni stretti e la mascella serrata, si abbassò sul corpo appena abbattuto, sollevò la manica sinistra del cappotto e mostrò a tutti il tatuaggio sul polso dell'uomo: una croce nera rovesciata.

"Non sono pazzo."

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