Capitolo 0.8 - Le due torri radar (R)


Palermo - 10 gennaio 2023

Kephas.


Era da poco passata la mezzanotte: l'Istituto tecnico industriale era un luogo freddo e silenzioso. L'assenza di suoni trasformava ogni cosa in orridi bisbigli. La scia sottile del vento serpeggiava su pavimenti e pareti, e talvolta si aggrovigliava alle caviglie. I cappotti erano costellati da granelli bianchi che andavano sciogliendosi in acqua, e le scarpe erano cosparse da aloni scuri e umidi.

Al nostro arrivo di fronte alla scuola, avevamo tolto il lucchetto e slegato la catena che bloccava il cancello di ferro, per poi dirigerci verso l'ingresso principale della struttura. L'area sembrava deserta. Il cielo aveva smesso da un pezzo di sfornare soffici fiocchi di neve, gli stessi che adesso si tenevano stretti al suolo per frenare una morte lenta e ineluttabile. Di tanto in tanto, la presenza silenziosa di lampi e fulmini illuminava le ombre accucciate sui muri di cemento.

Simone, dopo aver spalancato la porta d'ingresso, si era lanciato verso la prima classe del corridoio principale. Dopodiché aveva premuto l'interruttore della luce, rischiarando i banchi di scuola e le sedie vuote. Come un treno in corsa, aveva chiesto a me di poggiare il corpo di Alessio sulla cattedra di legno, mentre a Lux di estrarre il contenuto dello zaino che portava in spalla. Infine ci aveva ordinato di uscire fuori dalla stanza, di svuotare i distributori automatici di merendine, e di riempire con esse metà dello zaino.

"Qualsiasi cosa sentirete, restate fuori!" aveva pronunciato con aria severa e autorevole. "Sarò io a dirvi quando potrete rientrare."

Così eravamo usciti fuori dalla classe senza controbattere. Dopotutto non era affar nostro e non potevamo fare nulla per aiutarlo; almeno questo era quello che Simone ci aveva fatto credere per levarsi dai piedi una ragazza terrorizzata e un uomo divenuto pazzo. Una volta fuori, mi ero girato intorno in cerca delle macchinette. L'intera struttura era immersa in un buio pesto, e il gocciolio di un tubo, appeso al soffitto del corridoio principale, si infrangeva contro un secchio di metallo seduto al suolo.

Vidi un interruttore della luce poco distante dal mio corpo e lo premetti. Le tenebre furono spazzate via di colpo, e la sagoma di una macchinetta emerse accanto all'ingresso principale. Che strano! Eravamo entrati così velocemente nella scuola da non accorgercene nemmeno.

"Meglio così" pensai. "Non avremmo dovuto girare a vuoto, perlomeno."

Poco prima di muovermi, le urla di Alessio sfociarono nel silenzio tombale del luogo: Simone aveva appena iniziato a estrarre il proiettile dalla gamba del fratello. Chiusi gli occhi per un istante: l'ambiente buio della mia mente sembrava più rassicurante della luce artificiale che illuminava il corridoio. Quando spalancai le palpebre, Lux strinse la presa sullo zaino e s'incamminò verso la macchinetta, con aria assorta. Sembrava volesse scappare da quel posto, come se quelle urla la colpissero dritto al cuore come proiettili. Rimasi dietro le sue spalle tremanti.

"Qualcuno è stato qui."

La macchinetta era spenta e lo sportello, socchiuso senza alcun tipo di danno, sembrava essere stato manomesso da qualcuno che avesse le chiavi. Probabilmente non eravamo soli. Forse in qualche classe, laboratorio o ufficio vi erano altre persone, di sicuro impaurite.

Le urla di Alessio, aspre e incessanti, accrescevano il grigiore dell'atmosfera e ne amplificavano l'aria nefasta. Non capivo se Lux tremasse dal freddo o dalla paura, o ancor di più dal timore di essere lei la causa di tutto quel dolore. D'altro canto Alessio le aveva salvato la vita, sottraendola dalle mani di un cannibale ed evitandole un destino crudele. Lux, però, non aveva colpe... e doveva saperlo.

"È stata colpa mia!" esclamò d'un tratto, aprendo il palmo della mano.

Come se avesse sentito i miei pensieri, Lux mi anticipò sulla battuta. Lo zaino cadde per terra, e i suoi occhi fissarono le merendine restanti nella macchinetta, ma senza alcuna voglia di prenderne qualcuna.

"Sai che non è vero!" risposi, rivolgendole lo sguardo. "Non è colpa di nessuno."

"Sì, invece" replicò, chiudendo gli occhi con dispiacere. "Se io mi fossi saputa difendere dal quel cannibale, Alessio avrebbe visto quel militare sbucare dal nulla..."

Le mie mani si chiusero a pugno, incitate dalla rabbia di vederla in quello stato.

"Non siamo stati addestrati per combattere, Lux... nessun civile era pronto a questo."

Strinsi le sue mani fredde e le sfregai dentro le mie. Lei aprì gli occhi e mi guardò con aria triste. Quindi sorrisi nel tentativo di osteggiare quelle urla: incessanti, angosciose, aguzze. Non fui molto d'aiuto: i suoi occhi non fecero altro che spegnersi sul pavimento di marmo, impazienti. Frustrato dalla mia scarsa capacità di temprare il suo spirito, slegai le mie mani dalle sue, afferrai lo zaino e feci scivolare cibo e bevande al suo interno.

Nel frattempo, Lux strinse i palmi delle mani contro le orecchie, come per estraniarsi dal dolore di Alessio e rintanarsi in un mondo lontano. Poi tutto tacque all'improvviso e quell'attimo sembrò protrarsi all'infinito. La sagoma imponente di Simone apparve sull'uscio della classe, e il suo sorriso riaccese i nostri cuori. Lux si lanciò in avanti come un felino a caccia della sua preda, spinse Simone contro l'anta di legno della porta e si diresse verso Alessio. Con imbarazzo, misi lo zaino in spalla e mi avvicinai al militare più grande.

"Non so cosa le sia preso... forse tra i due sta nascendo qualcosa."

Simone mi guardò con aria perplessa.

"Beh... lasciamoli soli allora."

Il militare più giovane era disteso sulla cattedra senza pantaloni e con un'ampia fasciatura alla coscia. Lux lo guardava negli occhi quasi rapita. Forse non si era neppure accorta della sua lieve nudità. In quell'istante notai che la sua non era un'espressione ammaliata, affascinata o sedotta, ma più una rivelazione di affetto, riconoscimento e gratitudine.

Con fare delicato e silenzioso Simone chiuse la porta della classe, sollevando la sua mano in segno di saluto. Peccato che sia Lux che Alessio non si accorsero nemmeno della nostra presenza: erano entrambi atterrati in un'altra dimensione. Quando la porta si chiuse, io e Simone rimanemmo soli.

"Com'è andata l'operazione?" chiesi.

"Non ho dovuto fare molto" rispose. "Il proiettile è stato rallentato da un contenitore di metallo che Alessio teneva nella tasca dei pantaloni. Aveva appena intaccato la pelle, nulla di eclatante."

"Meglio così!" risposi, muovendo la testa su e giù. "E tu invece? Come va la ferita al piede?"

"Nulla di che, è stato un colpo di striscio."

Mostrai un accenno di sorriso.

"Fortunati."

Simone fece un cenno con la testa, scrutando la mia espressione pensierosa.

"E tu invece?" chiese. "Sei tra noi oppure pensi ancora ai fantasmi?"

La sua aria sarcastica non mi scalfì minimamente. Lo guardai dritto negli occhi, in un'atmosfera di sfida.

"La corsa mi ha fatto bene. Sto ancora pensando a cosa credere, ma non sono pazzo."

Simone mi diede una pacca sulla spalla.

"Comincio a pensare che sia così... i pazzi non hanno bisogno di credere in qualcosa, loro credono in tutto."

Feci un sorriso portando la mia mano sulla sua spalla.

"È un'ottima riflessione, Simone. Non pensavo che i militari studiassero filosofia."

Simone si lasciò andare a una risata, e per un attimo riuscì persino a trascinarmi con lui in quel mondo allegro. Poi un rumore improvviso fece svanire l'atmosfera spigliata, e in un baleno i nostri sguardi tornarono sull'attenti. Le orecchie puntarono l'origine di quel suono e un istante dopo i nostri piedi si mossero in fretta. Simone estrasse la sua pistola dalla divisa, e in quel momento mi accorsi di non avere più la mia. Freneticamente avevo fiondato le mani su tutto il corpo, ma senza trovarla. Poi ricordai: l'avevo persa fuori dallo stadio, dopo essere stato assalito da uno di quei cannibali.

"Simone!" esclamai. "Sono disarmato."

Il militare mi folgorò con la coda dell'occhio, pur continuando ad avanzare.

"Cosa? E la tua pistola?"

"È rimasta allo stadio. Mi è caduta per terra e non l'ho più ripresa."

I suoi occhi si spalancarono in stato di shock.

"Dici sul serio?"

La sua fronte si aggrottò, disegnando tante linee ondeggianti.

"Ti sembro uno che scherza?"

Simone scosse la testa, quasi incredulo.

"Lo preferirei di gran lunga."

D'un tratto, lungo un corridoio secondario, vidi una classe illuminata. Era molto più grande rispetto alle altre, e uno specchio di vetro rettangolare, posto nella parte alta della porta d'ingresso, diffondeva saette di luce gialla. Le spesse mura bianche, invece, attutivano il magico suono delle note di Stairway to Heaven dei Led Zeppelin. Simone si mosse davanti a me e fece segno di rimanere alle sue spalle, in silenzio.

"Rimani fuori!" esclamò sottovoce. "Se cominciano a volare proiettili, corri da mio fratello e avvisalo."

Quando giunse dinanzi a quella porta, Simone si accostò di lato, poggiò le spalle al muro, fece un respiro profondo e portò la pistola davanti al mento, con la canna rivolta verso l'alto.

"Uno... due... tre!"

Con un calcio possente spalancò la porta, distendendo le braccia davanti al petto, mentre io rimasi con le spalle attaccate al muro, accanto al suo fianco.

"Porca miseria!" urlarono due voci maschili all'interno. "Simone? Sei tu?"

Il militare allentò la presa sul grilletto e distese le braccia lungo i fianchi, tirando un sospiro di sollievo.

"Chi non muore si rivede!" esclamò Simone. "Ma voi cosa ci fate qui?"

La sua aria, divenuta improvvisamente serena, mi fece ben sperare. Avanzò dentro la classe e sparì dal mio raggio visivo.

"Sono felice di rivederti!" rispose uno di loro, abbassando il volume della musica. "Siamo stati portati qui con una camionetta militare poco dopo lo sbarco. E tuo fratello? Che fine ha fatto?"

Il tono di voce dell'uomo divenne più teso verso la fine della frase.

"Alessio è stato ferito a una gamba, adesso sta riposando. Guarirà."

Ormai non riuscivo più a vedere il corpo del militare, ma il rintocco dei suoi passi pesanti mi lasciava immaginare la scena. Adesso si sarebbe dovuto trovare pressoché davanti a loro, forse impegnato a scambiare un saluto.

"Per un attimo avevo pensato che fosse diventato uno di loro..." disse l'uomo di prima con voce appena tremolante. "Sono felice che stia bene."

Il silenzio si estese per un paio di secondi, poi la voce del militare infranse l'aria.

"Kephas! Puoi entrare adesso."

Al suo richiamo, feci un respiro profondo e staccai le mie spalle dal muro di cemento. Poi, con totale sicurezza e impassibilità, lo raggiunsi. La classe era un laboratorio di informatica con diversi tavoli, computer e apparecchiature elettroniche. Davanti al militare, vi erano due uomini; quello a sinistra era alto e magro, con corti capelli biondo sabbia modellati dal gel. La carnagione era pallida come la luna, e sia la barba sagomata che le sopracciglia rifinite erano talmente chiare da sembrare quasi invisibili. Indossava un abito di velluto blu scuro fuori moda, che in parte richiamava il colore dei suoi occhi. Le labbra erano sottili e le guance, leggermente incavate, valorizzavano due grandi orecchie e un naso prominente.

"Ciao! Io sono Filippo" disse l'uomo.

La persona che mi guardava al suo fianco, invece, era di una buona dozzina di centimetri più bassa. Non era obesa, ma i chili di troppo rendevano le sue guance paffute e il suo addome più gonfio. La carnagione era senza dubbio più scura dell'amico, tendente all'olivastro, così come gli occhi, freddi e impassibili. L'uomo era del tutto calvo e la barba, non ancora rasata, gli donava un aspetto piratesco. Le sopracciglia erano incolte, le labbra carnose, mentre orecchie e naso godevano di lineamenti sottili. Indossava un paio di jeans Lewis blue classico e un maglione scuro a collo alto che, combinati al suo paio di occhiali da vista rettangolari dalla bordatura nera, gli conferivano un'aria da secchione.

"Io sono Giovanni!" esclamò. "E tu chi sei?"

"Il mio nome è Kephas" risposi. "Immagino che anche voi siate militari."

"Kephas?" domandò Filippo, incuriosito. "Quali sono le tue origini?"

Simone scoppiò in una risata secca e rauca.

"Loro due non sono militari," disse "ma sono stati reclutati dalla Marina per un importante lavoro. Ho avuto modo di conoscerli perché hanno viaggiato nella mia stessa nave. Filippo è un ingegnere informatico di Bologna, uno dei più riconosciuti in Italia per le sue qualità. Giovanni, invece, è un ingegnere elettronico di Venezia, anch'egli detentore di numerosi premi a livello nazionale."

Con aria stupita fissai Simone.

"Un importante lavoro?" pensai con sospetto.

Poi i miei occhi caddero di nuovo sui volti di quelle persone.

"Kephas non è il mio vero nome, ma preferisco farmi chiamare così. Sono di Palermo, e conosco questa città come le mie tasche."

Giovanni distolse lo sguardo dal mio, come fosse disinteressato.

"È strana come cosa, ma sicuramente avrai i tuoi buoni motivi per farlo. Adesso, però, dovremmo continuare il nostro lavoro."

"Il vostro lavoro?" chiesi, trattenendo una risata. "E per chi lavorate, la Marina? Quelli sono tutti morti."

Filippo si voltò verso Simone, scosso.

"Ma di che parla?"

Il militare si mise a braccia conserte e sollevò il volto.

"Circa un'ora fa, c'è stata un'enorme esplosione... ha coinvolto la maggior parte di tutti i membri dei vari corpi militari. Non è rimasto più nessuno, o quasi."

I due uomini strabuzzarono gli occhi.

"Pazzesco!" esclamò Filippo. "Ma chi è al comando adesso?"

Simone li fissò e, sospirando, disse: "Ve lo spiegherò a tempo debito. Prima vorrei sapere cosa vi hanno chiesto di fare".

Il militare si avvicinò ai due ingegneri, scrutando lo schermo dei loro computer portatili.

"È questo l'incarico segreto? Di che si tratta?"

Loro si voltarono verso gli strumenti da lavoro e si sedettero su delle sedie girevoli.

"Sai benissimo che non possiamo parlarne" pronunciarono quasi in coro.

Simone poggiò le sue mani congelate dal freddo sul collo di entrambi, e sorrise quando i due sussultarono.

"Giovanni! Filippo! Non lavorate più per nessuno ormai. Siete soli, senza spalle coperte, come tutti noi del resto."

Per un attimo rimasero di sasso, come se stessero cominciando a intuire solo ora la gravità della situazione.

"Siamo consapevoli di quello che sta accadendo" disse Giovanni. "In parte e inconsapevolmente siamo stati coinvolti anche noi."

Poi si voltò verso di me, rivelando un misto tra sospetto e cinismo nei suoi occhi.

"Possiamo fidarci di lui?" chiese al militare. "Insomma, quello che stiamo per dirvi è top secret. Nessuno di voi dovrà mai diffondere queste informazioni."

Simone gli diede una pacca sulla spalla.

"Non preoccuparti per lui. Un mio caro conoscente lo voleva vivo... credeva che fosse una delle persone che ci avrebbe aiutati a sopravvivere. Quest'uomo, questo prete, era stato reclutato dalla Marina per le sue particolari doti sensitive. Aveva visto il futuro dell'umanità, sapeva cosa sarebbe successo. Ahimè, non è riuscito a sopravvivere così a lungo da condividere queste informazioni con tutti noi. Dal mio canto, comunque, posso assicurarvi che Kephas è una brava persona, solamente un po' pazza."

Simone pronunciò le ultime parole sottovoce, quasi bisbigliandole.

"Molto spiritoso!" commentai, con una smorfia sulle labbra. "Non mi avevi ancora parlato di questa particolarità del prete. Adesso che la conosco è ancora peggio."

Mi avvicinai a loro mostrando un accenno di sorriso, per poi lanciare lo sguardo sullo schermo di uno dei due computer. Una grande mappa tridimensionale disegnava per intero la nostra nazione; infiniti puntini verdi e rossi cospargevano il territorio, e una finissima linea nera collegava Palermo a Milano. Nel secondo schermo, invece, vi era l'immagine di una costellazione di satelliti artificiali che orbitava intorno al nostro pianeta, rilasciando informazioni e immagini delle varie città italiane viste dall'alto.

"Cosa sono quei puntini luminosi?" domandai, con interesse.

Giovanni scambiò uno sguardo con Filippo, come per dargli il consenso di spiegarci cosa stesse accadendo. L'ingegnere informatico si passò la mano sopra i capelli lucidi di gel, ma senza scomporli più di tanto. Poi fissò lo schermo del suo computer, e disse: "Cercherò di evitare inutili tecnicismi per essere chiaro e non dovermi ripetere".

Sia io che Simone facemmo un cenno con la testa, impazienti di ascoltare le sue parole. Allora Filippo prese un lungo respiro, distese le mani sul tavolo di legno e prese a parlare.

"Circa un anno fa, il governo decise di risolvere il problema dei frequenti attacchi terroristici affidandosi a numerosi scienziati di fama internazionale. Quest'ultimi, dopo un'accurata pianificazione, proposero di costruire due torri radar, una a Palermo e l'altra a Milano. Esse, collegate a una costellazione di satelliti artificiali orbitante intorno al pianeta, avrebbero dovuto creare una mappa termica del territorio italiano, scansionando e segnalando qualsiasi tipo di ordigno esplosivo. In parole povere, l'idea fu quella di creare un gigantesco metal detector, in grado di anticipare i futuri attacchi terroristici. Immaginatevi un enorme triangolo: il segnale trasmesso tra le due torri radar rappresenta la base, mentre quello con i satelliti ritrae i due lati."

Filippo tossì un paio di volte, desideroso di tornare a respirare. Nel frattempo guardai negli occhi Simone: anch'egli, come me, sembrava essere rimasto affascinato da quel discorso. Tuttavia, non mi erano chiare ancora molte cose.

"Due torri radar e una costellazione di satelliti" riflettei ad alta voce. "Non potrebbero essere usati come arma?"

L'ingegnere informatico mi guardò con aria stupita.

"Non sono stati ideati per questo, ma quello che dici potrebbe avere un senso. I satelliti sono dotati di un generatore termoelettrico in grado di accumulare energia, e inoltre dispongono di un tubo catodico che funge da cannone elettrico. Con un'adatta configurazione, potrebbe essere usato per sparare sulla Terra l'energia accumulata, ma non essendo mai stato testato prima, sarebbe una follia."

Insoddisfatto, incrociai le mani dietro al collo, spingendo la testa all'indietro e guardando il soffitto.

"E in tutto questo, quale sarebbe il vostro compito?"

L'ingegnere elettronico mi lanciò un'occhiata di traverso, corrugando la fronte.

"Configurare le due torri affinché tutto funzioni alla perfezione" rispose saccente.

Con fare pensieroso, strofinai indice e pollice sul mento.

"Ma non vi è sembrato strano il fatto che sareste dovuti partire con una nave militare?"

Giovanni si passò una mano sulla testa pelata.

"No! Nonostante il rischio di perdere la vita fosse molto alto, la paga era allettante. Inizialmente, comunque, il nostro compito era semplice. Poi, arrivati al porto di Palermo, fummo spediti in questa scuola con un nuovo ordine. Le due torri non dovevano più essere configurate per tenere d'occhio i terroristi, ma per sorvegliare lo sviluppo dell'ondata cannibale."

A quel punto Filippo indicò lo schermo del suo computer.

"Vedete questi puntini rossi?"

Io e Simone ci avvicinammo al monitor.

"Sono loro, sono i cannibali. Crescono a dismisura in tutta la nazione."

Simone strabuzzò gli occhi e indietreggiò di un passo. "Ma sono tantissimi!"

Un brivido solcò la mia pelle e, incredulo, tremai per un istante.

"Sì!" rispose Giovanni con tono secco. "Sono tantissimi... e a ogni secondo che passa un nuovo puntino rosso appare sullo schermo. È come se, dopo aver contratto il virus, si instaurasse una specie di ordigno nella testa delle persone. Ma non esplode, rimane lì e dice loro di rialzarsi anche dopo la morte, per poi trasformarli in una specie primitiva e cibarsi della stessa."

Di colpo, un assurdo pensiero fulminò la mia mente. Indietreggiai di qualche passo, mi voltai di spalle e camminai verso la porta d'ingresso, con le mani incrociate sopra la testa e lo sguardo perso sul pavimento. La mia mente si estraniò dal mondo circostante, intenta a concentrarsi in maniera profonda: stavo per risolvere un enigma che avrebbe potuto scagionare la mia presunta pazzia.

"Che ti prende?" domandò Simone.

Quella domanda frenò i miei passi poco prima di arrivare sulla soglia della porta. Lo sguardo si risollevò lentamente, il volto si girò verso i tre uomini alle mie spalle. Simone mi fissava con aria severa, e lo stesso facevano i due ingegneri.

"Filippo! Giovanni!" esclamai con tono solenne.

Poi ripresi a camminare verso la loro apparecchiatura elettronica. I passi echeggiarono nella stanza, immersi nel silenzio dell'attesa. Nessun rumore, nessuna voce. L'ultimo tocco risuonò davanti a loro.

"È mai successo che un uomo, deceduto a causa di un colpo d'arma da fuoco, iniziasse a luccicare di rosso?"

I due ingegneri mi guardarono con stupore.

"Cioè?" chiese Filippo. "Mi stai chiedendo se è possibile che le persone si trasformino anche senza essere morsi?"

"Sì!" risposi con aria riflessiva. "Alessio mi ha parlato di un virus batteriologico in grado di trasformare l'uomo in cannibale. Dal momento che non conosciamo tutte le modalità con cui questo batterio si diffonde nelle persone, dobbiamo valutare l'ipotesi di essere tutti ammalati sin da ora. In tal caso, se uno di noi morisse in seguito a un colpo d'arma da fuoco, potrebbe risvegliarsi come uno di loro, o addirittura tornare in vita senza subire alcuna mutazione. Ebbene, l'uomo in questione potrebbe iniziare a brillare di rosso o addirittura nuovamente di verde."

Filippo puntò gli occhi al soffitto, spingendo la falange dell'indice sotto al mento. In silenzio rifletté su quanto esposto, mentre Giovanni fissava il pavimento, titubante. Simone, al loro fianco, mi guardò con aria assorta.

"Kephas, dove vuoi arrivare?"

"Pensaci, Simone. Se Filippo e Giovanni confermassero la mia tesi, avrei motivo di credere che il prete conosciuto in chiesa e quello visto allo stadio siano la stessa persona."

"Questo farebbe di te una persona normale" disse il militare.

"Di cosa state parlando?" domandò Filippo, scomponendo la sua posa riflessiva.

Simone distolse lo sguardo dal mio e incrociò gli occhi dell'ingegnere informatico.

"Kephas è convinto che il prete di cui vi parlavo prima sia morto e risorto... e poi deceduto nuovamente."

"È una teoria interessante e folle" proferì Giovanni, intervenendo nella discussione. "Ma da qui dentro sarà impossibile scoprire la verità; i computer non specificano la causa del decesso di una persona."

Simone iniziò a camminare per la stanza, come a formare un cerchio.

"Non mi è ancora chiaro il meccanismo, Kephas!" rifletté il militare, continuando a battere le sue scarpe contro il pavimento. "Dici che il prete potrebbe essere lo stesso per entrambi... ma come faceva a essere in chiesa e allo stadio nello stesso momento?"

"Questa è la risposta che sto ancora cercando" risposi con aria assorta. "Noi sappiamo che la vostra nave è arrivata al porto di Palermo il 6 gennaio. A quel punto vi siete trasferiti allo stadio, ma non credo che voi due siate stati a stretto contatto giorno e notte."

"No, infatti" rispose Simone. "Non ci ho parlato fino al pomeriggio dell'8 gennaio."

"Esatto. Io invece l'ho conosciuto la notte tra il 7 e l'8, poco prima che morisse per la prima volta. In teoria, se fosse tornato in vita la stessa notte, avrebbe avuto il tempo di rientrare allo stadio il pomeriggio dell'8 gennaio e parlare con te."

"Potrebbe essere... dopotutto non sono stato di guardia al cancello fino alla sera dell'8."

"Non ha comunque senso" meditai. "Quella notte ho dormito in chiesa con Lux e non abbiamo avuto il coraggio di spostarlo fuori. Dunque è rimasto insieme a noi."

"In effetti ti saresti accorto se il suo corpo si fosse rialzato."

"Il problema è proprio questo! Ho un vuoto di memoria. Non riesco a ricordare se il suo corpo fosse ancora là prima di lasciare la chiesa il giorno seguente, oppure no."

All'improvviso due colpi secchi echeggiarono alle mie spalle. Mi sembrò come se qualcuno avesse bussato alla porta della classe con le nocche della mano. Allora mi girai di scatto con un sorriso sulle labbra, pensando fossero Lux e Alessio. Quando i miei occhi misero a fuoco la sagoma situata sulla soglia dell'ingresso, una morsa stretta e lacerante attanagliò ogni parte del mio corpo.

"Si può?" chiese il militare dagli occhi neri come la pece.

Era lui, lo stesso che voleva uccidermi allo stadio. Era scappato quando ne aveva avuto la possibilità e adesso era tornato per compiere il suo omicidio. Mi aveva seguito, era rimasto accucciato nell'ombra, aspettando il momento giusto per balzare fuori e prendere tutti alla sprovvista. Ci minacciava con una pistola stretta fra i palmi delle mani, le braccia tese davanti al corpo e un viso umido di sudore. Filippo e Giovanni rimasero paralizzati sulle loro sedie girevoli. Simone non fece in tempo a sollevare la sua arma, quando il militare esclamò: "Fermo! O morirete entrambi".

Il braccio di Simone arrestò la sua corsa verso l'alto e rimase a mezz'aria, immobile.

"Getta quella pistola! Non costringermi a ucciderti."

Simone, dopo un attimo di esitazione, abbassò lentamente il braccio e aprì il palmo della mano, lasciando cadere la pistola per terra. Il tonfo rimbombò da una parte all'altra della stanza.

"Abramo!" esclamò Simone, rivolgendosi al collega. "Perché lo stai facendo?"

"Non sono affari tuoi!" rispose il nemico.

Il militare sollevò le mani in alto in segno di arresa e fece un passo avanti, scavalcando la pistola distesa per terra.

"Sono disarmato, hai in mano tu la situazione. Perché vuoi uccidere Kephas? Chi è lui?"

L'uomo che minacciava di uccidermi emise un ringhio d'avvertimento.

"Fermo o sparo!"

I corpi di entrambi si paralizzarono sul posto e i loro sguardi si incrociarono, infuocati.

"Lui non è nessuno!" disse il nemico. "Ma potrebbe diventare un ostacolo. Le leggi stanno per essere capovolte, nulla sarà più come prima."

Poi un ghigno ricoprì l'atmosfera angosciosa.

"Un ostacolo per chi?" domandai, mentre braccia e gambe iniziarono a tremarmi dalla paura.

Abramo strinse la sua pistola, tese ancor di più le braccia e mostrò una smorfia diabolica.

"Lui ti vuole fare cedere, Kephas. E ci riuscirà. Ottiene sempre quello che vuole."

Tutt'a un tratto, tre spari trapassarono la sua divisa da dietro, perforando lo stomaco. Le sue gambe fecero due passi in avanti traballando, gli occhi divennero di pietra, la pistola dondolò tra le dita e poi cadde per terra. Le ginocchia, tremanti come foglie secche, persero la stabilità un attimo dopo. Durante il capitombolo, la sagoma di Lux apparve alle sue spalle. Le sue braccia erano ancora protese e la pistola fumava nelle mani trepidanti. Gli occhi, chiusi e strizzati, formavano rughe come delta di un fiume. Lux mi aveva salvato la vita.

Il nemico stramazzò al suolo: il tonfo fu talmente forte che per un momento pensai che le ossa del suo viso si fossero distrutte nell'impatto. D'istinto mi catapultai sopra il suo corpo, lo afferrai per le spalle e lo capovolsi con gli occhi rivolti al soffitto. Dovevo scoprire la verità prima che fosse troppo tardi. Il sangue sgorgava dallo stomaco del militare dalle iridi nere, tingendo di rosso la sua divisa. Abramo gemeva dal dolore, e a tratti le sue braccia sussultavano elettrizzate. Gli occhi di pietra persi nel vuoto davano l'idea di essere in viaggio per l'altro mondo.

"Chi mi vuole morto?" urlai. "Qualcuno del governo? Chi?"

Con fervore afferrai la sua testa e mi chinai ancor di più per guardarlo dritto negli occhi, a pochi centimetri di distanza.

"Sei uno sciocco!" bisbigliò singhiozzando.

I suoi occhi si chiusero lentamente in quell'istante.

"Dimmi chi mi vuole morto!" gridai. "Lo devo sapere!"

Egli socchiuse le labbra, quasi del tutto prive di forza.

"Kephas..."

Il suo respiro era un suono rauco, un lamento afflitto dalla consapevolezza di dover morire.

"Lasciati andare..."

Un attimo dopo, dalla sua bocca sgorgò un rivolo di sangue e le pupille divennero fredde come due biglie di vetro.

Simone mi guardò dritto negli occhi con aria rassegnata, poggiando una mano sulla mia spalla. Poi si voltò e disse: "Filippo! Giovanni! Portiamo fuori questo cadavere."

I due ingegneri, con aria ancora scossa, abbandonarono le loro sedie girevoli e si avvicinarono al cadavere ancora caldo.

"Aspettate!" esclamai, sollevando una mano come per fermarli. "Non porteremo quest'uomo da nessuna parte. È stato ucciso da un colpo d'arma da fuoco, esattamente come il prete. Lui fugherà i miei dubbi."

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