Capitolo 0.7 - Come un pendolo ipnotico (R)


Palermo - 9 gennaio 2023

Kephas.


La tempesta di neve si placò di colpo e insieme a lei ogni logica terrena. Lampi e fulmini si esibivano silenziosi in più parti del cielo, mentre il vento urlava a squarciagola, seppellendo i corpi dei defunti con l'aiuto della soffice distesa bianca. Le urla dei vivi echeggiavano ovattate nelle orecchie e i versi dei mostri sembravano ormai non spaventarmi più di tanto: una nuova realtà paradossale aveva preso il loro posto.

I superstiti correvano in tutte le direzioni possibili, saltando cancelli, muri di cemento e ringhiere di ferro. Arrampicandosi sopra fragili alberi, pali della luce e pensiline delle fermate dei mezzi pubblici. I cannibali erano più forti, veloci, affamati, e il loro esercito aumentava a ogni minuto che passava. Simone urlò il mio nome a pochi passi da me, eppure il suono emesso dalle sue labbra mi sembrava provenire da molto lontano.

Nonostante arrancasse come un povero vecchio, a causa della ferita al piede, atterrava con precisione ogni mostro nelle vicinanze, sparandogli dritto in testa. Al contrario, Alessio continuava a contorcersi a terra dal dolore, a seguito della ferita d'arma da fuoco alla gamba. Lux, invece, aveva estratto da poco la sua pistola dal cappotto e, pur di difendere il militare più giovane, apriva il fuoco con le mani tremanti dalla paura.

A ogni sparo strizzava gli occhi per non piangere, ma delle grigie lacrime rigavano da tempo il suo viso. E allora stringeva sempre più forte le sue palpebre, se non altro per non guardare in faccia la morte, che fosse stata inflitta o subita.

Seduto sulle gambe, aspettavo invano l'evolversi dei miei pensieri. A poco a poco il cervello spense qualsiasi voce, luce o rumore, e il nero ammantò gran parte del mio raggio visivo. Le mie pupille, adesso, non vedevano altro che un vecchio prete disteso sulla neve; lo stesso che all'interno della dimora di Dio aveva finto di chiamarsi Pietro per farsi uccidere al mio posto.

Cosa voleva dire tutto questo? Stavo forse impazzendo?

Il mio sguardo veleggiava su quella veste nera, intento a dare un senso alla nozione di esistenza. Ma più si sforzava di cercare una risposta, più veniva respinto e racchiuso in uno spazio sempre più nero, sempre più stretto, deserto. Nella mia mente giunse il ticchettio stonato di un orologio rotto, che risuonò come un pendolo ipnotico pronto a farmi crollare da un momento all'altro. Il tempo divenne un tutt'uno col mio corpo, e la sua malconcia presenza si amalgamò alla mia traballante vita.

"Kephas!"

Il mio nome echeggiò in una parte remota della testa.

"Dobbiamo andarcene! Non è più sicuro qui!"

Il suono del vento tornò a fischiare nelle mie orecchie, le urla dei civili a rimbombare insieme al verso rauco dei mostri. I miei occhi ricomposero di luce le ombre della città.

"Devi prendere Alessio! Devi tornare in te! Kephas!"

Le ultime sillabe furono pronunciate con talmente tanta potenza da farmi trasalire di colpo. Mi girai di scatto e vidi la sagoma di Simone avvicinarsi, mentre con l'indice della sua mano destra premeva il grilletto di una pistola ormai scarica, contro i nuovi viandanti di questa era. I suoi pesanti scarponi affondarono nella neve, creando delle fosse enormi e profonde. Improvvisamente mi diede uno schiaffo in pieno viso, facendomi sussultare. Lo schiocco violento della mano sulla mia pelle vibrò nell'aria, e per un attimo i suoi occhi si tinsero di rabbia.

"Porca miseria, svegliati!"

Il calore dello schiaffo giunse molto in fretta e un leggero formicolio si adagiò sulla guancia. Con forza afferrò il mio cappotto dalla parte del collo e mi sollevò da terra come fossi un cadavere. Poi mi strattonò per le spalle, facendo dondolare la mia testa un paio di volte avanti e indietro.

"Devi prendere Alessio, Kephas! Dobbiamo fuggire!

La mia mente era assente, leggera e lontana, arrovellata nel vano tentativo di dare un senso alla realtà. Le mie labbra socchiuse e gli occhi impietriti davano sicuramente l'idea di essere impazzito del tutto. Accennai un gesto con la testa: mi trovavo lì solo con il corpo, senza riuscire a esternare i miei pensieri. Mentre le immagini mi apparivano stordite e confuse, mi incamminai verso il corpo del militare più giovane. Poi lo avvolsi tra le mie braccia e lo adagiai sulle spalle, mentre l'archeologa raccoglieva da terra il suo zaino.

Fortunatamente, l'esile corporatura di Alessio non richiedeva un grande sforzo fisico. Alessio portò la mano sulla gamba ferita ed emise un lamento di dolore. Lux si fece da parte e mi lanciò un'occhiata impaurita, che in quel momento non fui capace di decifrare. Simone estrasse un caricatore dalla tasca della sua divisa, lo inserì nella pistola e sparò alla testa di un cannibale, pronto ad assalirci da dietro. Il proiettile sfrecciò tra la mia testa e quella di Lux ed entrambi rimanemmo immobili.

"Forza! Seguitemi!"

Simone iniziò a correre più veloce che poteva, estraendo una piantina della città dalla tasca dei pantaloni. Il piede zoppicante toccava terra e si risollevava in un attimo, mentre con la gamba intatta cercava di darsi più spinta e mantenere l'equilibrio. La sua ferita probabilmente non era grave, ma sarebbe potuta diventarlo, se solo non l'avesse medicata nel più breve tempo possibile. Lo seguivo senza esitare, con il fiato corto e lo sguardo perso e spoglio di una meta. Il percorso era un lungo e soffice fiume bianco macchiato di sangue: i mostri si erano dispersi in più direzioni, incollandosi alle calcagna dei civili in fuga. Lux non si staccava dal mio fianco e, ogni qualvolta Alessio sollevava lo sguardo, lei sorrideva e stringeva la sua mano penzolante. Forse, al momento, quel gesto era l'unico modo che conosceva per rendersi utile.

"Quanto dista l'ospedale più vicino?" domandò l'archeologa con leggero affanno.

Simone calò il suo sguardo sulla mappa che stringeva tra le mani e sospirò, continuando a correre.

"Gli ospedali non sono posti sicuri. Vi sto portando in una scuola."

Lux osservò la schiena del militare con un'espressione accigliata.

"Una scuola? Ma Alessio ha bisogno di cure mediche!"

"Nello zaino che porti in spalla c'è tutto l'occorrente di cui ho bisogno. Io e lui sappiamo cavarcela da soli, non serve nessun dottore."

Simone rispondeva senza dare troppa importanza ai dubbi di Lux. Egli guardava in più direzioni, con occhio vigile e attento. Al momento era il solo a saper maneggiare un'arma, e l'unico a poterci difendere. Ogni tanto abbassava lo sguardo sulla mappa e decideva nell'immediato quale strada imboccare, pur non conoscendo di fatto la città. Dopo la sua ultima frase, Lux si era indispettita parecchio, e lo si poteva notare dal suo sguardo truce.

"Ma perché una scuola? Come fai a sapere che al suo interno non ci saranno dei mostri?"

Simone accartocciò la mappa che teneva fra le mani, infastidito dalle continue domande dell'archeologa.

"È un Istituto tecnico industriale; spero di trovare qualcosa di utile. È il luogo in cui ci avrebbe portati quel prete, se solo fosse sopravvissuto."

Il viso di Lux mutò all'istante. Le sue sopracciglia si rilassarono di colpo e gli occhi divennero lucidi.

"Simone..." disse con un filo di voce.

Il militare arrestò la sua corsa e si girò con aria innervosita, mettendosi faccia a faccia con lei.

"Che c'è? Hai forse qualcosa da ridire? Pensi che non dovrei fidarmi di un uomo che ha sacrificato la sua vita pur di renderci liberi, facendo saltare in aria militari e scienziati che avrebbero torturato migliaia di persone innocenti?"

Lux scosse la testa, terrorizzata dalla prestanza fisica del militare. Dunque si ammutolì e il fiato le si spense in gola. Simone la scrutò ancora un attimo, poi si voltò nuovamente di spalle, cercando di rilassare i muscoli. Chinando la testa, sospirò profondamente, quasi dispiaciuto per la sua sfuriata. L'archeologa riprese a respirare con leggero affanno, dopodiché strinse la mano ad Alessio, che nel mentre emetteva lamenti di dolore.

"Volevo solo dirti che Kephas non è pazzo... ho visto anch'io morire con i miei occhi quel prete, la notte tra il 7 e l'8 gennaio."

Simone esitò un attimo, forse confuso, indubbiamente incredulo.

"Non so cosa abbiano visto i vostri occhi, ma sarà meglio scoprire prima di tutto un modo per sopravvivere."

Poi sollevò il braccio davanti a sé, indicando la nostra meta. Poco più in là, un cancello di ferro delimitava l'ingresso della struttura scolastica, e le sue sbarre grigie erano tenute ferme da una catena e un lucchetto aperto.

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