Capitolo 0.5 - Marina Militare (R)
Palermo - 8 gennaio 2023
Kephas.
Le prime luci dell'alba filtravano da un pezzo attraverso le finestre polverose della chiesa, e infiniti granelli di polvere fluttuavano dolcemente sulla corrente dei loro raggi. La foschia mattutina oscurava le cose distanti, ma da vicino era possibile scrutare il caos che si abbatteva senza tregua sulla città, da ormai più di otto ore. Gli occhi di Lux erano esausti e provati, esattamente come i miei. Avevamo trascorso la notte tormentati continuamente da un dormiveglia irrequieto, nascosti sotto le panche di legno più vicine all'altare.
Ci eravamo alzati innumerevoli volte al buio, con la pelle madida di sudore, turbati da incubi violenti e confusi, in cui le immagini del delirio di quella sera si erano mescolate a volti di uomini ancora sconosciuti. Nelle ore successive all'uccisione del prete, Lux mi aveva confidato di essere un'archeologa di venticinque anni, che nel suo percorso formativo aveva approfondito la conoscenza di molte lingue, come l'aramaico e l'ebraico, specializzandosi nella traduzione di testi antichi.
Aveva viaggiato da Cagliari in traghetto, ed era sbarcata a Palermo la notte del sei gennaio, per ispezionare un sito archeologico di grande importanza e di recente scoperta. Che accoglienza calorosa, avevo pensato. Noi palermitani sapevamo come farci riconoscere in ogni circostanza, ironizzavo tra me e me. Ma la notte aveva avuto in serbo anche ben altri tipi di pensieri, come sopravvivere ad esempio. Al dolore, al vuoto, al futuro. Avevo perso mia moglie, mio figlio, il mio lavoro. Il mondo mi era crollato addosso di colpo, ed era un peso troppo importante da dover sostenere.
Mi sentivo solo, disperato, inutile, morto. Mi sembrava di vagare a piedi nudi fra calcinacci acuminati come coltelli. Il mio cuore e la mia anima sanguinavano tra quelle rovine. Quanta importanza avrebbe avuto scoprire cosa stesse accadendo? E quanta reggersi in piedi, una volta svelata la verità? In uno dei miei tanti risvegli avevo pensato di fuggire via, di abbandonare Lux. Ma le mie gambe si erano irrigidite e appesantite come massi a ogni occasione. Avrei voluto avere un padre come te, mi aveva sussurrato piangendo, in un momento di scarsa lucidità. Un papà di cui non vergognarsi, su cui poter contare. Mi sarebbe piaciuto davvero, erano state le sue ultime parole prima di chiudere gli occhi, assaliti dalla stanchezza.
Grida, echi di spari, clacson impazziti, tonfi ed esplosioni. Così era trascorsa affannosamente l'intera notte, agognando il nuovo giorno, il cui albeggiare speravo potesse rimettere tutto sotto una nuova luce. Tuttavia l'alba non pareva aver portato con sé gli effetti salvifici auspicati. Gli incubi non erano solo il frutto di sogni deteriorati dalle tenebre, bensì il raccolto di una realtà terrificante immerso in scenari incorporei. Fuori la pioggia si era trasformata in neve, le pozzanghere in lastre di vetro, e i fari delle auto si riverberavano sull'asfalto come lame di ghiaccio. I vetri delle case e dei negozi erano opachi e spenti, velati da una nebbia densa.
E stranamente un improvviso silenzio era calato sulla città. Nessun militare, nessun carro armato, nessun elicottero d'attacco. Si erano allontanati tutti di colpo dal campo di battaglia. Perché mai? Dalle finestre della chiesa era possibile osservare i mostri che circondavano l'edificio dedicato al culto religioso cristiano. Li guardavo per capirne il comportamento, per convincermi che fosse tutto reale... e per farmene una ragione. Alcuni di loro cadevano e restavano per terra, immobili, calpestati dai compagni. Altri si rialzavano feriti, barcollavano, ma non smettevano di camminare e ringhiare, almeno finché testa o cuore non fossero stati trafitti o spappolati.
Più e più volte dei tonfi, seguiti da scosse simili a terremoti, mi avevano fatto sussultare con il cuore in gola durante la notte. Gli arbusti spogli presenti nelle strade erano stati tutti sradicati in poche ore, e i viali erbosi e fradici erano stati arati dalle gambe scatenate dei fuggitivi. Zolle di terra e frammenti di piante erano volate in aria, spostate dalla furia del branco. Ma ciò che più mi terrorizzava di questo nuovo giorno, tanto da far sparire per un attimo il senso di fame e di sete, era la totale mancanza di superstiti.
"Com'era possibile che circa un milione di abitanti fosse scomparso nel nulla?" mi chiedevo. "Erano tutti morti oppure avevano trovato un rifugio nella notte con l'aiuto dei militari?"
In quell'istante, il gemito acuto di un altoparlante squarciò l'aria fumosa. Sussultai dallo spavento e Lux, che ispezionava la chiesa in cerca di cibo, bevande e armi, mi raggiunse alla svelta. Quando l'ombra della sua sagoma avvolse la mia, puntai il dito verso un edificio, che tra la nebbia sembrava un enorme supermercato, rimanendo in attesa di qualcosa, qualsiasi cosa. Quell'attimo sembrò un'eternità: i nasi incollati alle finestre, gli aloni di vapore condensato sul vetro, i battiti del cuore non pervenuti. Tutto fermo, sospeso, spento. Poi, come un nastro riavvolto, quell'attimo di vita riprese da dove l'avevo lasciato.
"Qui è il colonnello della Marina militare che vi parla!" esclamò una voce.
Una mandria imbufalita di mostri si spinse rapidamente sotto l'altoparlante, affamata. Probabilmente la loro scarsa intelligenza li aveva portati a pensare che quella voce raffigurasse una persona, e quindi del cibo.
"Abbiamo alimenti, bevande e farmaci di prima necessità. Stiamo radunando tutti i superstiti all'interno dello stadio Renzo Barbera, ma con la nebbia che sta schiacciando la città, ci è impossibile continuare le ricerche. Chiunque ci stia ascoltando è pregato di nascondersi e preservare le forze. Le strade sono mattatoi a cielo aperto. Vi consiglio di non uscire per nessun motivo, fino a nuovo comunicato."
Un brivido di freddo attraversò il mio corpo e sussultai. Mi sentivo come se mi avessero tirato una secchiata d'acqua gelida e una folata di vento l'avesse trasformata in una lama di ghiaccio, fredda e tagliente, che mi aveva sferzato la pelle, rimanendo intrappolata nella carne.
Se solo esistesse un modo per tornare indietro nel tempo...
All'improvviso esplose un fuoco d'artificio all'orizzonte, disegnando nel cielo una cascata di colori. La mandria imbufalita di mostri, che invano tentava di raggiungere l'altoparlante, situato nella parte alta della parete del supermercato, si spostò in maniera confusa verso quell'esplosione.
"Vuoi sopravvivere?" domandai, girandomi verso Lux con aria severa.
Lux mi fissò con uno sguardo smarrito e confuso, nonostante la mia domanda ammettesse una sola risposta. Forse proprio per questo continuava a scrutarmi con quell'aria innocente e inquieta, che tentava di acchiappare ogni mio pensiero al riguardo.
"Questo luogo è già stato violato una volta" continuai a dire. "E prima o poi accadrà di nuovo. Cibo e bevande sono importanti, ma possiamo farne a meno per un altro po'. Quello che ci serve adesso sono le armi, perché se qualche mostro o uomo armato, intenzionato a ucciderci, dovesse entrare da quelle porte, noi non saremmo in grado di difenderci."
Lux, con aria coinvolta, avvicinò la sua mano sinistra dietro la schiena, estrasse qualcosa dall'orlo della gonna e disse: "Ho trovato questo nella stanza del prete".
Un pugnale molto affilato comparve accanto alla sua camicetta, e venne accompagnato dalla sua mano tremolante fino alla mia. Me lo porse con delicatezza, aspettando con uno sguardo provato la mia reazione.
"È già qualcosa..." dissi impassibile, afferrandolo con decisione. "Ma avremo bisogno di armi vere."
Leggermente infastidita dal mio atteggiamento, ritrasse la mano lungo i fianchi e si voltò verso l'altare.
"Non c'è nient'altro in questo luogo!" esclamò. "A parte un cappotto di pelliccia nero che desideravo più di un piatto di pasta."
Sorrisi. Infreddolita e con solo una camicetta che copriva il suo busto, aveva passato la notte avvolta dal mio cappotto lungo e pesante.
"Ti fidi di me?" domandai con voce esile, cercando di richiamare il suo sguardo.
Il cielo era completamente grigio. Nevicava come mai prima d'ora e il bagliore dei lampi, fra un tuono e l'altro, era una delle poche illuminazioni nella città. Il frastuono del cielo stordiva i mostri e si prendeva gioco di loro, facendoli spingere verso infinite mete fortuite e sconosciute. In quell'istante Lux si voltò, e il suo sguardo tornò a farmi visita.
"Cosa intendi fare?" chiese, con aria un po' scontrosa.
Il suo atteggiamento sembrava palesemente ostile, quasi vendicativo. Pian piano cominciavo a scoprire il suo carattere; quello di una donna fragile, sensibile e marchiata da ferite profonde, ma capace di trasformarsi in una coraggiosa pantera e sfoggiare i suoi artigli all'occasione.
"Aspetteremo che cali la notte" risposi. "Dopodiché ci dirigeremo verso un'armeria distante un paio di chilometri da qui. Prenderemo le armi e raggiungeremo lo stadio."
Lux fece qualche passo indietro, chinò il suo volto impaurito e si immerse nei suoi pensieri.
"Sei sicuro di volerlo fare?" domandò timorosa. "Potrebbe anche non entrare nessuno per giorni in questa chiesa."
Scossi la testa, abbassando lo sguardo.
"Ho promesso alla mia famiglia che li avrei uccisi tutti e ho promesso a te che sarebbe andato tutto bene."
Le gambe tremarono un istante. Poggiai la mano su una delle panche al mio fianco ed emisi un respiro profondo, dopodiché mi diressi verso la stanza del sacerdote.
"Kephas!" pronunciò Lux a voce alta, come per arrestare i miei passi.
Quel nome mi suonò strano, e non perché non fosse il mio. Era la seconda volta che lo sentivo pronunciare, e in qualche modo avvertivo che mi appartenesse. Il prete lo aveva sussurrato un istante prima di morire, e avrebbe voluto che lo legassi a me. Difficile comprendere il perché; forse era un nome da supereroe, come quello utilizzato dai personaggi della Marvel per uccidere i cattivi. E forse Lux lo aveva creduto possibile, e stava già riempiendo le pagine del nostro fumetto.
"Kephas!" pronunciò ancora una volta, ma a voce più bassa. "Mi fido di te..."
Mi voltai lentamente. I suoi occhi brillavano, le sue mani venivano attraversate da tenui brividi. Sorrisi. Adesso non dovevamo fare altro che aspettare che calasse la notte, per poi introdurci nelle tenebre e raggiungere l'armeria. Le ore del giorno passarono lentamente, ma servirono a entrambi per conoscerci meglio. Ogni tanto lanciavo uno sguardo al di fuori della casa di Dio, assistendo alla distruzione del suo impero. Poi giunse la sera senza il tramonto, immergendo la città nell'oscurità. Il cielo era una massa di vapori turgidi che nascondevano il fioco riverbero delle stelle.
Allontanarsi da questo luogo stranamente protetto sembrava una follia, ma ero comunque fiducioso: le armi ci avrebbero aiutati a raggiungere lo stadio, e di conseguenza cibo, bevande e protezione. Lux indossò il suo cappotto di pelliccia e mi riconsegnò quello che le avevo prestato per la notte. Strinsi il pugnale del prete col bordo ricurvo a lama ionica e, con passo felpato, abbandonai la casa del Signore, seguito dai passi delicati della mia nuova compagna d'avventura. Fuori si udiva solo il barbaro lamento dei mostri. Per fortuna le raffiche di vento disperdevano di continuo il nostro odore, disorientando il loro olfatto. Non ci rimaneva altro che evitare i lampioni stradali, per muoverci come ombre e non essere avvistati.
Giunti al primo angolo della zona, il cuore iniziò a martellarmi nelle orecchie... non potevo credere ai miei occhi. Nonostante la scarsa visibilità notturna, enfatizzata dalla nebbia, un lampione illuminava chiaramente uno scenario rabbrividente. La testa era un'incredibile fusione di elementi felini; le orecchie appuntite e aderenti al cranio ombreggiavano le iridi gialle, mentre il naso largo sovrastava una bocca ampia. Il puma era accoccolato su un marciapiede e sorvegliava tutto ciò che gli accadeva intorno. L'estremità della coda si spostava a destra e a sinistra, con cadenza flessuosa e regolare. Dalle sue fauci grondavano rigagnoli di bava rosso sangue e il ventre era stato squarciato, ma l'animale era sopravvissuto diventando una bestia.
In quell'attimo il mio corpo fu scosso da un tremito. Respiravo a fatica e sentivo il panico montarmi dentro. Una sensazione claustrofobica, soffocante. Ora il sudore mi colava dalla fronte. Lux mosse la sua mano come per cercare la mia. Quando la trovò la strinse forte e, in silenzio, tremò di paura insieme a me. Poi un cane ululò in una zona opposta alla nostra, e il puma si mosse in fretta per andare ad appagare la sua sete di sangue. E così, come due felini, tornammo a camminare verso l'armeria. L'estasi e il terrore di quel momento ci fecero proseguire con l'adrenalina a mille. Le nostre gambe, adesso, si muovevano più veloci. Il nostro respiro, nel mentre, galoppava inesorabile.
Poco prima di arrivare a destinazione, adocchiai un violista suonare una soave sinfonia, a circa trenta passi da noi. E così fermai le scarpe sulla neve, e lo stesso fece Lux al mio fianco. Un ragazzo e una ragazza erano seduti su una panchina, rapiti l'uno dall'altra, indifferenti a tutto il resto. Il violinista stava suonando per loro, soddisfatto ed emozionato per quel momento. Sembrava felice, come se stesse per coronare il loro amore per l'eternità. I due si avvicinarono, si avvicinarono ancora. I loro profili si scolpirono nella luce della luna, le loro labbra si trovarono, si baciarono, e i loro occhi si chiusero, incuranti dei mostri che stessero per assaporare il profumo delle loro effusioni.
Ma il violinista lo sapeva. Sapeva che quella non sarebbe stata la loro fine, qualora si fossero trasformati in cibo per bestie. Allora smise di suonare, estrasse una pistola dalla tasca del giubbotto, e sparò a entrambi i ragazzi nella nuca. Poi mi rivolse un sorriso velato da una nostalgica malinconia e si tolse la vita. In un baleno i mostri giunsero sopra di loro e strapparono a morsi la loro carne calda e appetitosa. Per quanto quella scena potesse sembrare macabra e priva di senso, tutto, all'improvviso, mi sembrava chiaro e ineluttabile. E non servivano domande. Prima di diventare il loro prossimo spuntino, strinsi la mano di Lux e percorsi rapidamente l'ultimo pezzo di strada.
L'armeria era un negozio al piano terra di un anonimo palazzetto di mattoni rossi a due piani. Giunti davanti alla vetrina, lanciai un'occhiata frettolosa alle armi da fuoco esposte. Poi appoggiai il mio orecchio sulla porta a vetri del locale e, un attimo dopo, vi fu uno rumore secco. Senza volerlo avevo spinto di poco la vetrata, ma abbastanza per far sì che un blocchetto di ghiaccio, creatosi nelle fessure, si spezzasse a metà. All'interno del locale, d'altro canto, non c'era stata la minima reazione. Allora girai la maniglia congelata dalla neve e la spinsi nel buio più totale. Lux rimase alle mie spalle e seguì, con egual intensità, i miei passi felpati.
Una volta dentro, una densa cappa di fumo, unita ad un odore forte di tabacco e marijuana, impregnò l'aria. Mi guardai intorno tossendo, alla ricerca di una torcia o di un interruttore elettrico. Il buio era troppo fitto, l'assenza di rumori inquietante. Il suono del grilletto di un'arma echeggiò nel silenzio tombale della stanza, e un senso di impotenza mi assalì all'istante.
"Chi sei?" domandai intimorito.
Lux cercò la mia mano e la strinse forte. Accanto al bancone del locale prese forma la sagoma incappucciata di un uomo.
"Il mio nome è Alessio... e vi stavo aspettando."
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