Capitolo 0.4 - Identità da occultare (R)


Palermo - 7 gennaio 2023

Kephas.


Tutto sfumava nell'oscurità; la cenere si sollevava in lenti mulinelli sopra l'asfalto. La città si dilatava in ogni direzione: lingue di cemento, vetro e acciaio si allungavano come tentacoli nel tenebroso e perverso orizzonte. Fumo cinereo aleggiava sui marciapiedi, e grappoli di cavi ciechi penzolavano dai pali della luce, scintillando come fari scossi dal vento. Il tutto contornato da una leggera pioggia mista a ghiaccio; triste, malinconica, slavata.

Mi sentivo stordito, come se una campana di vetro mi separasse dal mondo. Camminavo barcollando, con le lacrime incollate agli occhi, strisciando i piedi sull'asfalto bagnato, i capelli infradiciati sulla fronte. L'eco delle urla dei passanti, i colpi d'arma da fuoco dei militari e i gelidi bisbigli del vento mi parevano ovattati. Infermieri, poliziotti, barboni e anziani moribondi sfilavano davanti ai miei occhi con passo veloce, privi di un volto.

Dove mi trovavo? Cosa ci facevo qui? Cosa continuava a spingermi oltre?

In quel momento tutto mi urlava che fossi dove non dovevo essere. Più camminavo, più mi accorgevo che il tempo fosse ormai agli sgoccioli, ma non ricordavo il perché. Le strade erano tappezzate di automobili accese e vuote; alcune capovolte e incendiate, altre con gli sportelli aperti e le valige chiuse nei sedili posteriori. Il rombo dei motori riempieva l'aria con un fisso ronzio, la luce dei fari anteriori illuminava le tenebre, ma non riusciva ad annientare la loro supremazia; anzi, dava loro il modo di mettersi in mostra, di giocare con tutti noi, di prendersi beffa delle nostre paure e ingigantirle fino allo sfinimento.

"Marie? Ettore? Dove siete?" ripetevo a ogni passo, senza ricevere nessuna risposta.

Le bestie lanciavano grida acute e stridule prima di scagliarsi contro la loro preda e mangiarla viva. Questa cadeva a terra morta, poi diventava anch'essa una bestia e si rialzava senza un braccio, senza una gamba, con un buco all'addome. Dopodiché entrambe si battevano, e una delle due cessava definitivamente di esistere, perché la più forte era riuscita a trafiggere il cranio o il cuore dell'altra. Prima o poi nessuna bestia o uomo sarebbero più esistiti.

Ma che importanza aveva? Desideravo la morte, desideravo che una di loro mi avesse strappato di netto il cuore, ma non ricordavo più il perché. Nulla aveva un senso, ma forse tutto aveva una ragione; come pezzi di un puzzle spezzati a metà e poi mischiati con un altro modello. L'ordinaria follia dei giorni nostri fusa a una piaga angosciante. Ogni cosa sganciata dal proprio ancoraggio, sospesa nell'aria cinerea, sostenuta da un respiro tremante. Se solo il mio cuore fosse stato di pietra... forse avrei potuto farli smettere. Ma che importanza aveva, non ricordavo più il perché.

Alcune immagini apparvero sbiadite nella mia mente. Erano sempre state lì, ma qualcosa le aveva offuscate, come foto sommerse dalla sabbia in attesa di essere riesumate. Un leggero venticello sospirò dentro la testa e andò spolverando la sabbia depositata su quelle immagini. E adesso che le avevo davanti agli occhi, mi era di nuovo tutto dannatamente chiaro.

D'istinto il mio pugno destro tagliò l'aria e, con enorme potenza, colpì la mascella di una di quelle aberrazioni. Probabilmente mi sarebbe saltata addosso se non l'avessi fatto, forse no, ma finalmente tutto riacquistava importanza. Ero tornato nel delirio della città per farmi giustizia, per vendicare la morte della mia famiglia; di mia moglie Marie e di mio figlio Ettore. Loro me li avevano strappati dalle mani e dal cuore, e adesso dovevano pagare la morte con la morte, ma dovevano prima soffrire... e non mi sarei fermato finché non fossi morto anch'io.

Riposi il braccio lungo il fianco. La bestia non aveva visto partire il mio colpo ed era caduta per terra, lungo l'asfalto, ma si era ricomposta in fretta, come se non avesse provato alcun dolore. Ora mi fissava con uno sguardo vuoto, mentre con la bocca aperta e i denti digrignati continuava a emettere un lamento rauco e continuo. Le sue labbra erano impregnate di sangue, così come le mani. Uccidimi, pensai. So che lo farai. La bestia mi guardò con quei suoi occhi che sembravano profondi buchi neri in una vacua distesa di bianco giallastro, poi lanciò un grido acuto e animalesco, e si tuffò in quell'ammasso informe di grattacieli e palazzi alle mie spalle, dissolvendosi nelle tenebre.

Un brivido mi scosse le gambe. Afferrai il mio ginocchio destro e lo strinsi forte, finché il tremolio non cessò, dunque feci lo stesso con quello sinistro. Non riuscivo a comprendere cosa fosse appena successo, del perché quella bestia mi avesse lasciato in vita. Forse la morte voleva ancora giocare con me, e allora io l'avrei di certo appagata. Lanciai lo sguardo sul ciglio opposto della strada e vidi un'altra creatura assetata di carne: le sue fauci grondavano di sangue, la sua testa dondolava da destra verso sinistra come per annusare ciò che non riusciva a vedere con gli occhi.

Strinsi i pugni e gli urlai contro. Essa incrociò il mio sguardo e iniziò a ringhiare, sguainando i denti con improvvisa rabbia. Poi delle grida distolsero la mia attenzione. Che buffo, pensai. Il mondo era sommerso da continue urla, ma queste mi erano arrivate dritte al cuore, e sembravano provenire da un vicolo poco distante.

"Aiuto! Non fatelo! Aiutatemi, vi prego! Vi scongiuro! Aiuto!"

Un passante sbucò nella strada e corse verso un'auto vuota e abbandonata, forse per nascondersi al suo interno. Non si era accorto, però, che la bestia che prima guardava me, adesso fissava lui. E nonostante lo avvisai di mettersi in guardia, l'ignobile creatura lo raggiunse in un baleno, estirpando il suo ultimo respiro. E così ella riprese a mangiare, dimenticandosi di me. Allora pensai che fosse un segno, uno scherzo del destino. Non dovevo morire, non ancora.

"Tornerò a ucciderti..." bisbigliai.

Lo sguardo balzò verso quelle grida femminili, le gambe si mossero in fretta pensando che fossero quelle di mia moglie. Ma quando giunsi davanti a quel vicolo stretto e buio, e mi accorsi che non era lei, il mio cuore si sbriciolò come cenere mortuaria. Che stupido, pensai. Come poteva essere mia moglie? Che posto strano la mente, quando perde la sua ragione di vita. Ero fermo sulla soglia del vicolo cieco quando, a circa dieci passi da me, l'uomo che bloccava da dietro una povera donna incrociò il mio sguardo. In quell'istante smise di aiutare il compagno che mi dava le spalle, slegò la sua presa dalle braccia del gentil sesso e si avvicinò a me con aria da prepotente.

"Cosa hai da guardare?"

L'uomo era poco più alto di un metro e sessanta, e indossava un cappotto di feltro troppo largo per la sua esile e minuta figura.

"Cercati un'altra donna! Questa appartiene a noi."

Il suo volto era oscurato da una massa di folti capelli castani sparpagliati senza un ordine preciso, abbastanza lunghi da coprirne lo sguardo incupito dalle tenebre.

"Io voglio lei..." sussurrai, abbassando il volto.

L'uomo che mi dava le spalle sembrava che non si fosse neppure accorto di me, la donna lottava con tutte le sue forze. E mentre i suoi tacchi slittavano sull'asfalto bagnato, un colpo terribile la catapultò per terra. La sua camicia bianca si macchiò di fango, la gonna nera si inumidì a chiazze.

"Cosa hai detto?" domandò l'uomo davanti a me, avvicinandosi di qualche passo.

Rimasi immobile. Il continuo mugolio della donna suscitava in me una certa irritazione. L'uomo che mi dava le spalle si era avventato su di lei come un orco burbero; la colpì con un'altra sberla e tentò di strapparle la gonna. Ella piangeva e faceva fatica a respirare. Non riusciva a esprimere con le parole ciò che con lo sguardo faceva invece molto bene.

"Io voglio lei" ripetei. "Ma prima dovete pagare."

L'uomo esile e minuto piegò la testa e scrutò meglio il mio volto calato verso il basso, forse incredulo, forse meravigliato. A ogni modo rimase in silenzio, come se per un istante non avesse afferrato bene il concetto. Un gelido silenzio scese di conseguenza tra i nostri corpi. La donna, nel mentre, cercava di respingere l'orco che la sovrastava totalmente. Le lacrime gonfiavano i suoi occhi, ma non si arrendeva; scalciava senza fermarsi, cercando di colpire gli stinchi dell'avversario con i tacchi delle sue scarpe. L'uomo davanti a me decise di rompere il silenzio con una grassa risata.

"Hai sentito, Salvo?" disse girandosi verso l'amico. "Questo qui dice che vuole farcela pagare."

La luna rifletté un tenue pallore sul bagnato di quel vicolo cieco e, per un attimo, una pozzanghera rischiarò il viso stanco della povera donna. L'orco che tentava di strapparle la gonna pareva non vedesse l'ora di assaggiare carne fresca e prelibata. Lei smise di lamentarsi in quel momento; le forze che le restavano in corpo erano quasi svanite del tutto. Gli attimi sembrarono un'eternità, almeno per lei era sicuramente così... per lui, invece, la notte scorreva in fretta.

"Salvo!" urlò l'uomo esile e minuto. "Non vorrai iniziare mica senza di me."

Un soffio di vento mosse i capelli ondulati della povera donna, facendoli danzare sul petto e sulla schiena. L'uomo esile si voltò verso di me con aria infastidita.

"Amico, non vedi che Salvo non vuole aspettarmi? Non posso perdere tempo con uno come te."

Lo fissai, incuriosito dal fatto che prima di allora non avevo mai guardato in faccia una persona che sapevo di dovere uccidere. Lo scrutai con interesse quasi scientifico, come se fosse una nuova bestia, una specie appena scoperta e già in via d'estinzione. Una vampata di calore mi attraversò dalla testa ai piedi, e un pugno violento partì dal mio fianco e deformò il viso dell'uomo, con un'energia tale da sembrare che potesse staccargli la testa.

Ora non faceva più l'arrogante; il dolore erompeva in fastidiosi e acuti lamenti. Cadendo per terra l'uomo aveva sbattuto la testa su una pietra leggermente acuminata, sufficiente per far sì che il cranio riportasse un buco. Il suo sangue, adesso, colava sull'asfalto; il braccio sinistro, invece, chiedeva pietà. La donna mi rivolse uno sguardo riconoscente; le pupille arrossate non versavano più una lacrima. Adagiò la testa sull'asfalto, le gambe si ammorbidirono al suolo, e i suoi occhi, per metà castano torbido e per metà celeste lucente, si chiusero adagio.

L'uomo che mi dava le spalle si voltò controvoglia, frastornato dalle urla dell'amico esile e minuto. Dopodiché, impressionato da quella visione, abbandonò la presa dalla gonna della donna e si avvicinò a lui con aria sconvolta.

"Lo hai ucciso, lurido bastardo!" urlò, chinandosi per terra.

Salvo sembrava palesemente dispiaciuto. Che avesse un cuore? Allora riflettei; forse ero diventato io quello sbagliato, forse lui era il nuovo erede di questo mondo. Ma che importanza aveva... quella donna distesa al suolo aveva smesso di lottare perché si era fidata di me. Pensava l'avrei protetta ed io, entrando in questo vicolo buio e dannato, avevo stretto un patto con lei. Dovevo aiutarla, dopodiché sarei potuto tornare a combattere la mia guerra.

"Prenderò la donna e la porterò con me" dissi. "E tu rimarrai fermo a pensare a quello che stavi per commettere."

L'uomo esile e minuto aveva da poco chiuso gli occhi e il suo cuore sembrava non battere più. La morte aveva chiuso la porta della sua breve vita vissuta, e del rimorso che avrebbe dovuto sopportare se, insieme all'amico, avesse violato il corpo di quella povera creatura distesa al suolo.

"Credi che ti lascerò andare così?" urlò l'orco sollevandosi da terra. "Senza prima fare a pezzi ogni singola vertebra del tuo corpo?"

L'uomo era più alto di un metro e ottanta e indossava un cappotto di feltro che aderiva perfettamente alle spalle muscolose. I capelli erano rasati con un motivo a saetta e il viso era una maschera di rabbia e odio controllati a stento.

"Credo di no!" esclamai. "Ma puoi ancora cambiare idea."

Le mie parole suscitarono in lui un'ira incontrollabile: il suo viso divenne una pista di venature grosse e pulsanti. Poi, urlando con foga, fece partire un gancio destro che schivai per un pelo, indietreggiando verso l'uscita del vicolo. Ciò non fece altro che farlo imbestialire ancor di più e, a quel punto, il suo corpo divenne un muro di cemento ingovernabile. Senza alcun tipo di freno, mi scagliò contro una raffica di pugni a ripetizione, costringendomi a tornare verso la strada. Mai e poi mai sarei riuscito a contenere la sua potenza fisica; quell'uomo colpiva con una violenza indomabile.

Ben presto mi ritrovai sull'orlo del marciapiede, e allora un nuovo scenario si stagliò intorno a noi. La gente fuggiva in tutte le direzioni, l'eco di colpi automatici squarciava l'aria, lamenti rauchi e acute grida animalesche tuonavano nell'aria. Il cadavere di uomo, disteso sotto il marciapiede, mi fece perdere l'equilibrio, e così l'orco burbero colse l'occasione per saltarmi addosso. In un baleno mi ritrovai sull'asfalto, con un cadavere sotto la mia schiena e l'uomo sopra la mia faccia. E mentre il mio avversario cercava di strangolarmi, ed io tentavo invano di non perire soffocato, una ripugnante bestia capovolse le mie aspettative di vita.

Come un predatore silenzioso e arguto, ella si avvicinò alle spalle dell'orco, strappando a morsi la sua gamba sinistra. Il sangue mi schizzò addosso e m'imbrattò le scarpe e i pantaloni. L'uomo urlò come un forsennato, allontanò le mani dal mio collo e si voltò di scatto. Poi, con impeto, cercò di allontanare quella bestia con la gamba intatta, senza troppo successo. Allora mi rialzai in piedi, dedicai un ultimo sguardo al mio rivale e, senza rancore, corsi verso il vicolo stretto e buio. La donna era ancora lì: gli occhi socchiusi mostravano la sua attitudine alla sopportazione. Mi avvicinai con passo veloce.

"Andrà tutto bene!" dissi, avvolgendola tra le braccia. "Non preoccuparti adesso, troverò il modo di salvarti."

Quelle parole risuonarono nel buio della città, colme di una determinazione che, in quel momento, avvertivo vacillare sotto il peso dei dubbi e delle incertezze. La donna fece un cenno con la testa e chiuse le palpebre.

"Che stavo facendo?" mi chiedevo.

Salvare una sconosciuta non avrebbe riportato in vita la mia famiglia né avrebbe rimarginato le ferite; eppure mi sentivo in dovere di farlo, di concederle un'altra possibilità. Forse lo stavo facendo solo per me stesso, per dimostrare al mondo che non fossi un omicida, un pazzo, un mostro. Nell'aria rimbombarono le campane di una chiesa vicina. Balzai al di fuori del vicolo con la donna in braccio, lanciando uno sguardo all'orizzonte. Il bagliore della luna sembrava investire la dimora di Dio, le stelle brillavano nel firmamento e la pioggia scemava lentamente. Dove avrei potuto proteggere la donna in vista della notte?

Un secondo e squillante rintocco risuonò dalle stesse campane, come un segno sceso dal cielo; e allora giù per le vie della città. I passi si fecero sempre più pesanti e lo sguardo puntava la destinazione di quella faticosa corsa. Sentivo il cuore battere come un pistone nel cofano di una vecchia auto, dalla bocca uscivano enormi nuvole di vapore con una cadenza sempre più rapida. Quando alzai lo sguardo e osservai la chiesa, una smorfia di stanchezza avvolse il mio viso. Ma solo per pochi attimi; poi diedi forza alle gambe e, con passo più lento, ripresi il tragitto.

La strada che mancava alla destinazione non era più un ostacolo, avrei dovuto solo percorrere un ultimo tratto in discesa: finalmente eravamo arrivati. Spinsi le due ante di una grande porta di legno e un'ondata di freddo mi pervase dalla testa ai piedi: le finestre erano aperte e il gelo notturno serpeggiava fra i pilastri dell'edificio. Adagiai il corpo della donna su una panca e notai che la sua carnagione chiara, cosparsa da qualche lentiggine, andasse in contrasto con i suoi capelli castani. Poi attraversai l'unica navata che portava al confessionale, scortato dall'eco dei passi che cadenzava la mia andatura lenta e affaticata. Ad aspettarmi sotto l'altare vi era un vecchio prete, dai folti capelli bianchi, che pregava in piedi con le braccia conserte e il volto chino. Quando udì l'ultimo eco dei miei passi si voltò e sorrise... come se mi aspettasse.

"Salve, Padre" dissi con un filo di voce. "Sono qui con una donna. Ho disteso il suo corpo in una delle panche vicino l'ingresso. Ha subito un trauma, è incosciente, ma sopravvivrà."

Il prete, continuando a mostrare un sorriso compiaciuto, si avvicinò a me e poggiò la mano destra sulla mia spalla, come per confortarmi.

"Come ti chiami?" domandò.

"Pietro."

"E la donna sventurata?" chiese, rivelando un lieve cruccio.

"Non conosco il suo nome."

Sembrava non sapere cosa fossero pettine e rasoio. Sul suo volto rugoso e incavato, i peli della barba erano simili ad aghi trasparenti. La pettinatura, se tale poteva chiamarsi quell'ammasso scomposto di capelli, somigliava a quella di Albert Einstein esibita nella celebre foto in cui faceva le linguacce al fotografo.

"Finalmente sei arrivato" disse, allontanando la mano dalla mia spalla. "Son passati più di duemila anni."

Un brivido attraversò il mio corpo. Inarcai le sopracciglia, con le labbra aperte appena.

"Non capisco quello che vuole dire, Padre."

In quell'istante un'aberrazione, al di fuori delle mura sacre, riversò le sue urla animalesche facendo tremare i vetri delle finestre.

Il prete sorrise e, sicuro di sé, replicò ancora una volta: "Tu sei uno di quelli!".

Il suo sguardo mi fece quasi paura. Che avesse perso il lume della ragione era ormai chiaro, tuttavia dovevo scoprirne la causa... avevo bisogno di un posto sicuro e tranquillo in cui passare la notte.

"Padre!" esclamai amareggiato. "Le è successo qualcosa? Io non la conosco, non l'ho mai vista prima."

Allora egli alzò le mani verso l'alto con fare festoso e rispose: "Tu sei certo uno di quelli!".

Il mio stupore si trasformò in stizza. I suoi sorrisi in gioia immotivata.

"Non conosco quell'uomo che voi dite!" dissi allora, con un tono di voce più alto.

Per la seconda volta un'aberrazione, al di fuori delle mura sacre, riversò delle urla animalesche, facendo tremare i vetri delle finestre. Il prete andò a chiudere le imposte da una parete all'altra della dimora di Dio, senza proferire più parola. Perplesso, presi a camminare verso l'ingresso. Quando egli terminò, e mi vide accanto alla panca in cui riposava la povera donna, mi raggiunse con un piccolo libricino alla mano.

"Apocalisse, capitolo sette!" pronunciò con tono solenne. "I servi di Dio saranno preservati. Paragrafo uno: dopo ciò, vidi quattro angeli che stavano ai quattro angoli della terra, e trattenevano i quattro venti, perché non soffiassero sulla terra, né sul mare, né su alcuna pianta. Paragrafo due: vidi poi un angelo che saliva dall'oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non avremo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi."

Grosse gocce d'acqua miste a ghiaccio tamburellavano contro i vetri, rigandoli come lacrime. Un forte vento fece tremare le imposte, spostando nubi cineree al di fuori dell'edificio. Il mio viso si tramutò ancora una volta in un'espressione di stupore. Allora compresi che la sua non era pazzia, ma semplicemente fede.

"Padre, lei crede realmente in quello che dice?"

Egli chiuse le pagine del piccolo libricino e le custodì tra le sue braccia, adesso conserte. Poi con aria profonda e sicura, rispose: "Per realizzare grandi cose non dobbiamo solo agire, ma anche sognare; non solo progettare, ma anche credere".

Quelle parole diedero origine a una voragine di pensieri che gremirono la mia mente; in un certo senso avrei tanto voluto approfondire l'argomento ed esporre le mie considerazioni al riguardo. La mia attuale posizione di agnostico aperto e pieno di buon senso avrebbe sicuramente scaturito scintille ricche di sfumature varie. Per buona sorte, le mie intenzioni furono sventate sul nascere dal rinsavimento della povera donna distesa sulla panca di legno. Ella aprì gli occhi lentamente, come di ritorno da un profondo letargo, poi si alzò in piedi. Quando incrociò il mio sguardo, sulla sua bocca si dipinse un impercettibile e riservato sorriso. Dopodiché alcune lacrime solcarono le sue guance, scivolando sul pavimento.

"Puoi stare tranquilla, adesso" dissi. "Quegli uomini non ti faranno più del male."

Con un balzo inaspettato la donna mi avvolse in un abbraccio stretto e affettuoso, come segno di riconoscenza. Dopo un leggero imbarazzo ricambiai il gesto, poggiando le mani sulla sua schiena.

"Grazie" sussurrò al mio orecchio. "Non immagini quanto io ti sia riconoscente..."

Le sue parole vibrarono calde e sincere nelle mie orecchie. Sentendosi di troppo, il prete tossì due volte per far notare la sua presenza; allora lei sciolse la sua presa dal mio dorso e scrutò l'anziano servo di Dio.

"Salve!" esclamò lei con una voce squillante.

"E tu come ti chiami?" domandò il prete, sorridendo.

La donna, prima di rispondere, si guardò intorno meravigliata. Probabilmente non si era ancora accorta di trovarsi all'interno di una chiesa, prima di quel momento.

"Il mio nome è Luce" rispose. "Ma tutti mi chiamano Lux."

Poi porse la sua mano al prete e lui ricambiò lieto, senza pronunciare però il suo nome. Con fare sospettoso osservai i suoi gesti, poi i suoi occhi. Se non fosse stato per la sua lunga veste nera e il suo colletto bianco, avrei giurato di averlo visto lavorare altrove. E mentre le loro mani facevano su e giù disegnando instabili onde d'aria, e i loro sguardi si intrecciavano creando ponti immaginari, un uomo sbucò all'improvviso dall'ingresso principale.

"Chi di voi è Pietro?" domandò lo sconosciuto con tono sgarbato.

Il suo volto era mascherato da un passamontagna fradicio, la sua mano stringeva un'arma da fuoco scura. Un'anta della porta rimase socchiusa, ostacolata dal suo fisico imponente, e un vento gelido sospirò fischiando. Il mio cuore batté con una cadenza più rapida, e la paura di essere la prossima vittima del nuovo mondo strinse il mio stomaco in una morsa. Lux rimase immobile e mandò giù un groppo di saliva. Dopo un paio di secondi interminabili, mi presi di coraggio e feci un passo in avanti.

"Sono io!" esclamò il prete.

Aggrottai le sopracciglia e mi voltai verso di lui. Egli mostrava un'espressione fiera, come se stesse per compiere un atto di fede che aspettava da sempre. Lo sconosciuto caricò la sua arma e fece partire un colpo che perforò lo stomaco del sacerdote; poi urlò orgoglioso di sé, si girò di spalle e fuggì a gambe levate, dileguandosi nell'oscurità della notte. Il prete crollò a terra con un tonfo terribile e, per un breve istante, nella stanza calò un silenzio totale.

"Padre!" gridai, chinandomi su di lui, sostenendo la sua testa con le mani.

Il sangue sgorgava sulla veste nera e lo impregnava di dolore, le sue mani stringevano le mie con ardore. Sofferenza mista a gioia zampillava dal suo viso, mentre riverso su un fianco si contorceva per le fitte. Il prete cercò faticosamente di parlare, singhiozzando.

"Dimentica il tuo nome, Pietro. Ti farai chiamare Kephas d'ora in poi. Promettimi che lo farai."

Prima di spegnersi per sempre, il prete strinse le mie mani con una forza innaturale per quella circostanza.

"Un giorno tutto ti sarà più chiaro..." bisbigliò con voce rauca.

Un attimo dopo la sua mano penzolava dal fianco. Dalla bocca sgorgò un rivolo di sangue, gli occhi divennero freddi come due biglie di vetro. Dai miei, invece, filtrarono strali di paura e confusione. Lux corse verso l'anta socchiusa della chiesa, accostò la porta e la chiuse a chiave. Poi si voltò verso di me e, fuori controllo, si mise a urlare.

"Come faceva quell'uomo a conoscere il tuo nome?"

La guardai dritto negli occhi, ignaro di una risposta esauriente.

"Credo che la vera domanda non sia questa" dissi con timore, sottraendo le mie mani dalla testa del sacerdote.

"E quale allora?" domandò lei, ansimando.

Lentamente mi sollevai da terra e la fissai con aria assorta.

"Perché quell'uomo voleva uccidermi?"

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