Capitolo 0.3 - L'inizio del terrore (Parte Finale) (R)



Kephas.

Non mi era mai successo in maniera così terrificante: tutto sembrava amplificato all'ennesima potenza. Il senso di prigionia, di oppressione, di paura. Le avevo provate tutte per svegliarmi, ma ogni volta la mente aveva solo cambiato lo scenario, mantenendo sempre la stessa trama.

Mi ero buttato dalla finestra della camera da letto, mi ero infilzato il cuore con un coltello da cucina, ero affogato nella vasca da bagno, avevo fatto cadere il phon acceso nella vasca mentre ero immerso nell'acqua, mi ero dato fuoco.

La realtà si era ormai mescolata a una fantasia funesta, e non ricordavo più come si fosse realmente evoluta quella notte, dopo la morte di mia moglie. Mi ero persino arrampicato nel tetto di casa per buttarmi di sotto, e in quell'istante la città si era trasformata nell'Inferno.

"Tutto questo non è reale!" avevo urlato. "Basta! Ridatemi la mia vita."

La città andava in fiamme; gli alberi, le macchine, gli essere umani. Le anime erano uscite dalle proprie scatole fisiche e si erano radunate ai piedi della mia dimora. Erano come ombre grigio scuro che mi fissavano, immobili, emettendo un lamento sordo e continuo. Li guardavo dall'alto e mi sentivo il loro padrone, la loro divinità, l'eterno Signore della Morte. Ma un attimo dopo mi sentivo triste, inutile e solo.

"Lasciatemi stare!" avevo urlato. "Non mi avrete mai."

Come per magia, o un macabro senso di ironia, era apparsa una tanica di benzina al mio fianco, colma fino all'orlo. Ero rimasto stupito da quella visione, indeciso se ridere, piangere o strillare. Infine l'avevo impugnata dal manico e, con lo sguardo alto e rassegnato, avevo preso la rincorsa e mi ero gettato tra le fiamme. Lo spettacolo di luci, fuochi e colori aveva accartocciato quel mondo, facendomi risvegliare nella stanza di Palazzo Montecitorio.

"Sono riuscito a tornare?" mi ero chiesto.

I materassi dei miei amici erano vuoti, le lenzuola in ordine; l'aria puzzava di stantio. Dalle mura penetrava uno strano rumore, simile a un crepitio. Ero balzato fuori dal letto inciampando nelle lenzuola e rotolando per terra. Sbuffi di fumo salivano dai miei vestiti, rivestendo il soffitto senza dissolversi. Barcollavo a ogni passo verso l'uscita; sentivo la pelle bruciare, la testa leggera e vedevo sfocato. Il pavimento era spaccato in più parti e il marmo si andava sgretolando.

"Maledetti!" avevo urlato. "Lasciatemi! Lasciatemi stare."

Fuori regnava di nuovo l'Inferno. Tutto andava in fiamme; le aiuole, la piazza, gli edifici. Un gruppo di anime, riunite in cerchio, aveva strillato fino a spaccarmi i timpani, e scosso da una scarica elettrica mi ero accasciato al suolo.

Così adesso, come un masso, precipitavo dal cielo, e un senso di vuoto mi stringeva lo stomaco. Sembrava che avessi una piovra nel ventre che tentava di uscire dalla gola, ma non riuscendo a farsi spazio, mi soffocava. In preda al panico, avevo infilato la mano dentro la bocca, intento ad afferrare un tentacolo e a tirare fuori il mostro marino, mentre una gabbia di ferro veniva disegnata intorno al mio corpo.

Il cielo era buio e piangeva lacrime amare, la città si dimenava nel caos e il suolo diveniva sempre più vicino; quelle che prima erano macchie grigie, adesso erano diventate palazzi. Tentai di urlare ma la piovra me lo impedì, e con le mani a proteggere il volto mi schiantai al suolo, in una zona boschiva. Per un attimo mi sembrò come se la faccia fosse un tutt'uno con il terreno fangoso. Poi piegai la testa di lato, frastornato. Nessun tonfo si era propagato nell'aria, nessuna costola si era rotta. Feci per rialzarmi, ma la prigione mi obbligò a rimanere seduto.

Aggredito da un senso di angoscia, provai a strattonare le sbarre di ferro e, non ottenendo alcun risultato, chinai il volto e singhiozzai, senza riuscire a versare una lacrima. Le avevo adoperate tutte per piangere la morte di Marie. Lei era lì, davanti alla piccola prigione di ferro, e le mie lacrime erano ancora sospese sulle sue guance.

Mio figlio Ettore, al fianco della madre, gemeva. Le sue ginocchia tremavano, le pupille erano vetri di ghiaccio che andavano sciogliendosi sulle guance, le braccia sembravano rami di un albero ferale. Il suo peluche, la volpe arancione, si slegò dalle sue mani in quel momento, e scivolò nel fango. All'improvviso apparve un'ombra tra la foschia della notte: era un militare. Si avvicinò a mia moglie e cadde in ginocchio.

"Io..." sussurrò con aria sconcertata. "Io non volevo. È stato un errore, io volevo salvarvi. Non doveva andare così."

Prese una pistola dalla giacca e, sotto shock, si sparò un colpo in testa. Il suo busto piombò a terra e la mia prigione scomparve di botto, così come la piovra nello stomaco. In quell'istante il cielo iniziò a rigurgitare una tempesta di grandine, mentre i fulmini accecavano le tenebre. Il vento gelido travolse una rosa nera e la trascinò prima avanti e poi indietro, e infine, dondolando, la poggiò sul seno di mia moglie.

Con uno scatto mi gettai tra le sue braccia e le diedi un'ultima carezza al viso, mentre con cuore e anima speravo che un giorno ci saremmo incontrati di nuovo. D'un tratto, un allarme reboante risuonò all'orizzonte. Un'orda di cannibali si riversò nel bosco e un militare, in possesso di un lanciafiamme, li tramortì senza pietà.

E intanto che il fuoco saltava da un corpo all'altro, gli alberi e le foglie brillavano di rosso, e ben presto sarebbe tornato l'Inferno. Sentivo gli occhi gonfi e prosciugati come sabbia, il cuore martellare nel petto, le dita sudate. Mi voltai e, in ginocchio, strinsi le guance di Ettore tra le mani gelide.

"Torneremo a prenderla. Te lo prometto."

Lui annuì con le lacrime agli occhi, le guance a chiazze rosse, e i brividi di freddo sulla pelle. Afferrai la sua mano e mi allontanai da quel luogo alla svelta. Dopo un centinaio di metri, il bosco sembrava farsi pian piano più rado. Le scarpe pesanti erano inzuppate di fango. Ansimavo, correvo, trascinavo mio figlio a fatica.

"Cosa succede, adesso..." mi chiedevo. "Cosa è successo, adesso."

Gli alberi si fecero sempre più fitti e scuri, il verso di un uccello echeggiò stonato, un coniglio bianco dagli occhi rossi apparve alla base di un pioppo. Una donna gridò alle mie spalle e mi girai di scatto. Il suo fiato sembrò gelarmi il collo. Tuttavia non vi era nessuno, a parte i brividi nella pelle, e il vento che sferzava colpi come una frusta. Feci per stringere la mano di Ettore, ma lui non c'era più.

Mi voltai impaurito, e la piovra tornò a stringermi il ventre e a soffocarmi. La prigione cadde dal cielo appiattendomi al suolo, tanto che le mie gambe erano sparite, e dopo il busto vi erano solo i piedi. Sgranai le palpebre. Il bosco era diventato all'improvviso una radura, ed Ettore inseguiva il coniglio bianco che saltellava tra i fili d'erba in direzione di un fiume. Sopra questo vi era una passerella di tronchi legati da spesse funi, che collegava lo spazio verdeggiante diviso dal corso d'acqua.

Un gruppo di cannibali apparve dall'altra parte della radura e s'incamminò verso la passerella; un'altra dozzina, invece, sbucò al mio fianco e inseguì mio figlio, ignorandomi come se non esistessi. Scosso da un impeto di rabbia strattonai le sbarre, poi tentai di urlare, ma la piovra me lo impedì. Così infilai la mano nella bocca, cercando di afferrare un tentacolo e tirare fuori il mostro marino, ma mentre mi dimenavo con tutte le forze, Ettore fu accerchiato dai due gruppi di cannibali.

Adesso si trovava al centro della passerella, paralizzato dalla paura. Le sue gambe tremavano. Il cuore mi faceva male. Presi a pugni lo stomaco per tramortire la piovra, ma nulla. I cannibali si avvicinavano a lui, con le mascelle spalancate e le mani protese in avanti. Senza nessuno che potesse più aiutarlo, Ettore si aggrappò alla fune laterale della passerella, mi dedicò uno sguardo accecato dalle lacrime, e si gettò nel torrente. In un attimo la corrente lo portò via e l'acqua si colorò di rosso.

Chinai il volto e singhiozzai; ero di nuovo solo. Non riuscivo più a percepire quella linea sottile che separava la realtà di quella notte, dalle allucinazioni maligne. E mentre mi lagnavo e supplicavo il cielo di smetterla, la prigione si andava dissolvendo come polvere d'argento, e la piovra si sgretolava nello stomaco. Feci come per rialzarmi ma, non avendo più le gambe, l'effetto fu nullo.

Dalle acque rosse del fiume, il coniglio bianco percorse la strada a ritroso, saltellò tra i fili d'erba e si lanciò sopra la mia testa. Infuriato, lo afferrai per il collo. Ma non appena lo fissai dentro quegli occhi rossi, lui esplose, e il suo bianco mantello svolazzò in aria insieme ai pezzi del mio corpo. Tuttavia quella notte sembrava non dovesse finire mai.

Mi trovavo di nuovo nel bosco: mia moglie giaceva inerte sul fango, Ettore piangeva al suo fianco, il militare si era tolto la vita dietro di lei, e il suo sguardo sembrava dannato dal rimorso di quell'omicidio ingiusto. Mi sollevai in piedi; le gambe erano tornate al loro posto. Le tempie scottavano, andavano a fuoco, e una nuvola di fumo mi annebbiava la mente.

"E se potessi prendere in mano il controllo dell'inconscio?" ripeteva una vocina inquietante nella mia testa. "Se riuscissi a cambiare gli eventi e a salvare Ettore, ingannando la morte?"

Il cielo rigurgitava lacrime di ghiaccio, i fulmini spezzavano l'oscurità, il vento sferzava i punti scoperti della pelle. Un allarme reboante risuonò all'orizzonte e un'orda di cannibali si riversò nel bosco, mentre un militare lanciava fiumi di fuoco per tramortirli, incurante di tutto il resto. Mi chinai sulle ginocchia e strinsi, tra le mani gelide, le guance di Ettore.

"Non avere paura" dissi. "Io non ti lascerò più, per nessun motivo."

Lo presi in braccio e mi gettai nel bosco. Respiravo con affanno, correvo e gli alberi diventavano sempre più fitti. Le scarpe erano inzuppate di fango, i vestiti fradici, e il freddo entrava nelle ossa. Ansimavo, correvo, incespicavo, tenevo stretto il mio bambino. Gli alberi sbucarono a centinaia dal terreno e arrestai la corsa.

Il verso di un uccello echeggiò stonato, il coniglio bianco dagli occhi rossi apparve alla base del pioppo. La donna misteriosa gridò alle mie spalle e la ignorai, mentre il vento mi sferzava colpi sul collo, determinato a farmi girare. Ripresi a correre disperatamente. La piovra tornò a stringermi lo stomaco e a soffocarmi, ma nello stesso istante infilai la mano nella gola, acchiappai uno dei tentacoli e la tirai fuori, gettandola per terra. La prigione cadde dal cielo alle mie spalle, e il mostro marino rimase intrappolato tra le sbarre di ferro.

Correvo. Adesso il bosco era diventato una radura, e il coniglio mi faceva strada tra i fili d'erba in direzione del fiume. Attraversai la passerella traballante e giunsi dall'altra parte della distesa verdeggiante. Non vi era ombra di cannibali; né davanti né dietro. Feci scendere dalle spalle mio figlio e ripresi il fiato.

"Ora andremo a casa di un mio vecchio amico" ansimai. "Devi sapere che è stato un agente dei servizi segreti. Un tipo tosto, insomma."

Lui annuì timidamente, poi scosse la testa come fosse stato colpito da un malore improvviso, e chiese: "E ci aiuterà, papà? Ci riporterà dalla mamma?".

In quell'istante lo abbracciai forte e scoppiai in lacrime. Con una mano spingevo la sua testolina sulla vita, mentre con l'altra strizzavo il suo cappotto fradicio dalle spalle. Sentivo il calore dei nostri corpi, il battito dei cuori all'unisono, l'amore incondizionato per la stessa persona.

"Spero di sì" risposi a bassa voce. "Ma se così non fosse, saremo io e te... per sempre."

Tirai su col naso e asciugai le lacrime, poi ripresi a correre con in braccio il mio bambino. Arrivato davanti all'abitazione, bussai alla porta più volte, aspettando impaziente.

"Johnny!" urlai. "Sei in casa?"

Abitava in una casetta di legno bianca dal tetto spiovente, immersa in un giardino incolto e spettrale. All'improvviso il pavimento scricchiolò e, dopo qualche secondo, un uomo alto e possente spalancò la porta.

Era Johnny, il mio vecchio amico, ma il suo viso era quasi irriconoscibile. La barba era lunga e incolta, i capelli rasati con una cicatrice che divideva in due il cranio. Indossava una canotta bianca con delle macchie giallo canarino e dei jeans logorati dal tempo, entrambi impregnati di sudore e alcool. Nel braccio aveva legato un laccio emostatico e le vene gli uscivano di fuori, e con la mano impugnava un fucile a pompa. Alle sue spalle, sopra una poltrona di pelle, vi erano alcune siringhe.

"Ehi, Johnny!" esclamai. "Ti vedo un po' ingrassato."

Accennai un finto sorriso per sdrammatizzare lo scenario che ci circondava. Senza dire una parola, afferrò il fucile con tutte e due le mani e premette il grilletto. Un proiettile esplose dalla canna, trapassò il petto di mio figlio e gli tolse l'ultimo respiro. Terrificato, piegai il volto lentamente, con ancora quel finto sorriso stampato in faccia, mentre il boato dello sparo strillava nelle orecchie. Ettore era diventato molle. Le sue mani penzolavano inerti.

"Non puoi ingannare la morte!" esclamò Johnny, sbattendomi la porta in faccia.

Il botto mi fece trasalire. Guardai quella porta chiusa e balbettai qualcosa senza senso. Le palpebre erano sgranate, le labbra socchiuse. Osservai gli occhi di mio figlio brillare per un'ultima volta, mentre il sangue colava e macchiava di rosso la mia coscienza. Li fissai con maggiore intensità sicuro di potermi rifugiare in quell'innocenza, intanto che il paesaggio si andava spegnendo insieme al cielo.

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