Capitolo 0.14 - L'ultimo tuffo nel passato (Parte Uno) (R)
Palermo – 24 Dicembre 2025
Kephas.
Fredda era la notte e piccoli fiocchi di neve scendevano dal cielo dondolando come petali di rosa. Un vento gelido soffiava tagliente e le luci pallide dei lampioni illuminavano la strada. Eravamo di ritorno da un piccolo supermercato situato in una zona periferica della città, intenzionati a riscaldarci in una delle case che Lux aveva contrassegnato, con una grande "X" sulla porta d'ingresso, qualche giorno prima.
Dopo il crepuscolo la città diveniva un posto tenebroso e poco ospitale; regnava soltanto l'acre odore dei corpi putrefatti, il cicaleccio degli insetti nascosti tra le aiuole, e il guaito degli animali. Tutto sembrava essere stato ucciso o prossimo alla morte; tutto appariva deforme e abbandonato da Dio. Il senso di solitudine aumentava dopo il tramonto perché il mondo era dominato dalle tenebre, e il loro esercito era molto più numeroso del nostro.
Era la notte della vigilia di Natale, ma nessun abitante della città risiedeva nella sua calda casa a consumare gli esiti di una buona cena o a riposare placido fra infantili gaiezze. Gli aceri, bagnati e stanchi dai rami appesantiti, sussurravano i loro segreti incoraggiati dal vento. Il rumore dei passi sull'asfalto ghiacciato annullava le grida di paura residenti nella mia testa. E mentre tutto continuava a prendere forma attorno a noi, le luci blu dell'insegna di un casinò, costruito poco prima della diffusione epidemica, si accesero proprio davanti ai miei occhi, suscitandomi un immediato senso di stupore.
Di colpo frenai gli scarponi invernali sull'asfalto e, a seguire, fecero lo stesso i miei compagni. I cannibali non possedevano alcuna intelligenza; essi vivevano d'istinto, come animali, strappando a morsi qualsiasi forma di vita. Di certo non potevano essere stati loro ad accendere l'insegna del casinò. D'altro canto, però, non si vedeva ombra di superstiti da mesi ormai. Il nostro protocollo di sopravvivenza, adesso, stabiliva di andare oltre, di lasciare perdere, di procedere in silenzio, senza rimanere coinvolti in eventi spiacevoli.
"E se..." pensai tra me e me "fosse la volta buona? E se... fossi costretto a uccidere ancora? No, non posso farlo. Ho fatto una promessa a me stesso. Però, potrei stare fermo a guardare..."
Lux mi lanciò un'occhiataccia.
"Kephas! Non dirmi che stai pensando di entrare lì dentro!"
"Perché no?" domandò Alessio. "Kephas è qui per questo."
"Cosa?" sbottò Lux. "Avevamo detto basta dopo Giacomo. Non erano questi i piani per la serata."
"Lux..." mormorò Federico. "Qui non si tratta solo di Kephas, ma di tutti noi."
"Ma avete dimenticato cosa è successo con Giacomo?" ribatté Lux. "Volete rivivere la stessa situazione?"
"Il passato è il passato" meditò Andrea. "Kephas ha fatto quello che ha fatto, ma non dobbiamo farne un dramma. Si tratta di sopravvivenza, Lux."
"Oh sì, certo!" esclamò l'archeologa. "Dopo questa perla, possiamo anche entrare trotterellando."
"Lux!" sospirai, amareggiato. "Sono passati dieci mesi... dieci mesi di nulla... dobbiamo provare."
L'archeologa mostrò una smorfia di disappunto e si voltò, dandomi le spalle. "Fate come volete." Poi distese il braccio e allungò la mano verso il casinò. "Prego... dopo di voi."
Scossi la testa, dispiaciuto, e presi la mia decisione.
"Uno... due... tre!"
La porta di legno massiccia a due ante si aprì dopo tre calci scagliati con determinazione. Le alte e spesse vetrate che circondavano l'intera struttura, oscurate da tende rosso fuoco, traballarono per un istante. Le canne delle nostre armi gelide avanzarono nell'edificio, avvinghiate tra le nostre mani salde. Alcune si sparpagliarono verso destra, altre verso sinistra. Due di loro rimasero al mio fianco, davanti l'entrata. L'ingresso era accogliente: un tappeto di velluto rosso cavalcava il pavimento per oltre venti metri, e infinite decorazioni natalizie illuminavano le pareti.
"Chi è quello?" domandò Simone al mio fianco, la cui voce sovrastò il silenzio.
"È un superstite!" esclamò Alessio.
La mia attenzione cadde su un piccolo fuocherello acceso alla fine del locale, rialzato e recintato da grosse pietre, lì dove il casinò prendeva vita attraverso slot machine e tavoli di ogni genere. Al di là del focolare un uomo, con addosso una camicia color bronzo scuro e dei jeans sbiaditi dal tempo, ci guardò con la coda dell'occhio.
"Chi osa disturbarmi la vigilia di Natale?"
Ogni sillaba venne scandita con intensità e un tono di voce profondo. Egli si alzò dalla sua poltroncina fissata davanti a una slot machine e si voltò.
"Via libera!" urlò Federico.
I miei compagni tornarono dalla veloce perlustrazione, percorrendo i corridoi laterali del locale. I loro passi echeggiarono sordi, autoritari, incalzanti, per poi spegnersi al mio fianco. A quanto pare non vi era anima viva, a parte quell'uomo ovviamente, che non sembrava essere stupito o meravigliato della nostra presenza. Non come noi per lo meno.
"Abbassate quelle armi e lasciatemi giocare in santa pace."
Il volume della sua voce risuonò più basso. L'uomo fece qualche passo verso di noi, oltrepassando il piccolo fuocherello. Portava a tracolla un fucile, e dalla cintola dei jeans pendeva un lungo coltellaccio.
"Come sei arrivato qui?" domandai. "Le hai montate tu queste luci natalizie?"
L'uomo scosse la testa, mostrando un sorriso sinistro.
"Noto che avete dimenticato le buone maniere..."
Egli procedette con calma verso di noi e diede l'idea di sapere il fatto suo. Portava la camicia larga fuori dai pantaloni, con le estremità svolazzanti come onde. L'orlo dei jeans lambiva di molto i suoi scarponi invernali. La sua aria da sbruffone mi fece riflettere.
"Sei solo" chiesi, lanciando lo sguardo intorno, "o c'è qualcun altro qui con te?"
Senza pensarci due volte, tolsi la sicura dal mio fucile e caricai il colpo in canna. L'uomo mostrò ancora una volta quel sorriso sinistro, continuando a camminare lentamente con lo sguardo alto e sicuro. Un lato della sua bocca si tese verso l'alto, con la mascella serrata e le palpebre rigide.
"Solo perché non ho paura di morire," disse "non vuol dire che io abbia le spalle coperte."
In men che non si dica, un proiettile attraversò la canna del mio fucile e uscì rapido verso il soffitto, seguito da un sordo tonfo e un leggero fumerello. A seguire una gigantesca plafoniera, fissata alla moquette del tetto, si distrusse in mille pezzi, sparpagliandosi alle spalle dell'uomo.
"Vuoi forse morire?" gridai. "Pensi che non ti ucciderò solo perché non hai paura di crepare?"
Egli continuò a camminare verso di noi, con la stessa aria spavalda di prima. Lo sparo non lo aveva scomposto neppure di un millimetro. Lo fissai; le sopracciglia si inarcarono e le palpebre si irrigidirono.
I suoi capelli biondi e fini come lino scendevano fin sotto il suo collo, adagiandosi sulle robuste spalle. Il suo viso era pallido e scarno, e le sue guance scavate erano nascoste da una barba di tre settimane circa, per lo più chiara. Uno dei suoi occhi verdi infossati riportava una cicatrice vecchia e profonda, che partiva da sopra la barba fino a coprire il sopracciglio sinistro. Passo dopo passo, il suo corpo giunse davanti al mio.
"Qui non c'è niente per voi!" esclamò.
Lo osservai ancora una volta dalla testa ai piedi: in una mano teneva stretta una bottiglia di whisky, mentre nell'altra un libro molto vecchio. Poi mi soffermai sui suoi occhi.
"Ci sei tu..." risposi "e questo a noi interessa."
Abbassai il fucile; non avevo alcun dubbio. I miei compagni curvarono verso il basso le loro armi. Il mio segnale era stato chiaro.
"Kephas" bisbigliò Alessio al mio orecchio. "Non dovremmo... insomma... controllare il suo polso per sicurezza?"
Accennai un sorriso.
"No!" risposi ad alta voce. "Questa volta non sarà necessario."
L'uomo, stringendo il collo della sua bottiglia, digrignò i denti.
"Cosa volete da me? Uccidermi? Divertirvi?"
Piegai la testa di lato, osservando il locale alle spalle dell'uomo.
"Se avessi voluto ucciderti," dissi "l'avrei già fatto."
I miei occhi si aggrapparono alla sua camicia, catturando il suo sguardo, adesso innervosito. Egli si chinò per posare la sua bottiglia e il suo libro sul pavimento e, rialzandosi, assunse una posa da combattimento. Lo sguardo perplesso su di lui.
"Sono alla ricerca di persone come te!" esclamai, inarcando le sopracciglia verso l'alto. "Io mi chiamo Kephas. O perlomeno è così che mi faccio chiamare da quando è cominciato tutto."
Allungai la mano davanti al corpo come per voler stringere la sua. L'uomo, anziché ricambiare, strinse i pugni. Il mio braccio proteso e appeso al vuoto rimase sospeso nel tempo. Dopo qualche secondo egli rise di gusto, abbandonando la sua posa combattimento.
"Credi che farti chiamare con un altro nome cambierà le cose?"
La sua aria beffarda mi fece sorridere, poi irritare.
"Credi che rimanere qui dentro lo farà?"
Infastidito, egli si girò di spalle, afferrando il fucile che teneva a tracolla.
"Odio l'idea di passare il Natale da solo..." mormorò.
Poi tolse la sicura e fece partire un colpo contro il quadro elettrico del locale, provocando un cortocircuito che fece piombare il casinò nel buio totale.
"Il mio nome, da oggi in poi, sarà Kariot."
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top