Capitolo 0.10 - Viaggio astrale (R)
Palermo - 10 marzo 2023
Kephas.
"Dovremmo tornare in città" dissi a Simone, dopo aver consumato la cena. "Abbiamo imparato a combattere, a usare le armi, ad arrangiarci con poco. Possiamo farcela."
Eravamo seduti in cerchio sull'erba umida e fredda, attorno a un fuoco vermiglio e ardente. Le fiamme sorgevano da grossi rami di faggio, danzando e aizzandosi in cielo. Un recinto circolare di pietre, dormienti sull'erba tra noi e il falò, luccicavano nella notte, assorbendo il riverbero del calore. Nell'aria aleggiava la brama delle tenebre di indurre brividi maledetti, mentre il silenzio veniva riempito dal crepitio dei rami sotto la sferza del fuoco.
Alla mia sinistra vi era il camion alimentare che ci aveva protetti dalla fame per ben due mesi; il portellone posteriore era aperto e lasciava intravedere le ultime bottiglie di acqua e una scatola di croissant industriali. Non avevamo nient'altro, e la caccia, eccetto qualche colpo di fortuna, era magra. Davanti a noi, invece, vi era la dimora che ci aveva riparati dall'inverno più rigido degli ultimi anni. Simone masticò l'ultimo boccone dello spezzatino di volpe servito a cena da Lux, lo deglutì e mi fissò.
"L'ultima volta che ti abbiamo dato ascolto," disse "siamo stati fortunati." Poi lucidò le sue dita con la lingua e continuò: "Abbiamo trovato una brava persona, un camion pieno di cibo e una casa in montagna immune da ogni minaccia".
"La brava persona sarei io?" ribadì Taddeo, indicandosi con l'indice della mano destra, e sbattendo le ciglia più volte. "Oh, grazie."
Simone distolse lo sguardo dai miei occhi, asciugò le dita inumidite nei pantaloni della sua tuta mimetica e si scrollò di dosso alcune briciole. Concluse con un'espressione seria: "Andremo in città!".
Poi, a giro, fissò gli occhi dei presenti, come per cercare il loro assenso, che di fatto arrivò subito dopo.
"Diciamo che siamo obbligati!" esclamò Alessio, alzandosi in piedi. "Non mi sembra una scelta dettata dall'ingegno."
"Ma non sarà pericoloso?" domandò Taddeo, strofinandosi le braccia con le mani. "Forse dimenticate che la città è ancora piena di cannibali."
"Ma tu sei un camionista o un fifone?" replicò Alessio, corrugando le sopracciglia.
"Scusami se non sono coraggioso come te, signor vi-insegno-a-combattere-e-a-sparare-perché-sono-un-militare."
"Vedi di darti una svegliata, signor camionista-fifone. Non vorrai mica diventare cibo per cannibali, spero."
Alessio sghignazzò della sua stessa battuta. Taddeo non replicò e si mise a osservare il fuoco.
"Ho paura anch'io" manifestò Lux, strofinando le mani. "Ma se siamo sopravvissuti due mesi fa, senza neppure sapere sparare o lottare corpo a corpo, sopravvivremo anche stasera."
"Ma cosa speriamo di trovare?" domandò Giovanni. "Cibo? Nuove armi? Acqua calda? Farmaci?"
"Una risposta" dissi.
Mi sollevai in piedi, pressando le mani sul terreno e facendo leva con i talloni. I miei occhi viaggiarono su ogni volto disposto intorno al fuoco.
"Una risposta, un segno, un cambiamento. Non so voi, ma io sono ancora convinto che ci sia di più."
"Come diceva Eraclito," proferì Filippo, alzandosi in piedi, "senza la speranza è impossibile trovare l'insperato."
Sorrisi facendo un cenno con la testa.
"A proposito... i computer che dicono? Com'è la situazione epidemica?"
"Drammatica!" rispose Giovanni. "Su 606.060 abitanti, 510.222 sono diventati cannibali, e i due terzi di questi sono morti. Le persone ancora in vita sono nascoste chissà dove."
"In poche parole ci sono circa 160.000 cannibali sparsi per la città."
"170.074, per la precisione."
"Speriamo che valga la pena provare."
Due grosse pupille gialle apparvero nel buio a cento metri dal fuoco, tra i cespugli del sottobosco.
A seguire se ne aggiunsero ancora e ancora, due per volta, formando un muro luminoso e angosciante.
"Sono arrivati i predatori della nuova era!" esclamò Simone, impugnando la sua arma.
"Sarà meglio andare" dissi. "Lasciamogli raccogliere le nostre briciole."
Taddeo si alzò in piedi, raggiunse il camion e accese il motore. Io mi sistemai nel sedile passeggero, mentre gli altri nel semirimorchio. Quando il camionista iniziò a muovere il pesante mezzo, una cappa di fumo inquinò l'aria e gli animali si precipitarono sulle ossa delle volpi, incuranti del fuoco. La strada per la città fu tutta in discesa e piena di curve. Non vi erano lampioni a illuminare la carreggiata montuosa e, in alcuni tratti, l'asfalto era ridotto a un cumulo di macerie, franato come se fosse stato vittima di qualche ordigno esplosivo. Taddeo dovette compiere delle manovre brusche pur di non rimanervi intrappolato, ma la sua padronanza del mezzo non suscitò in me alcun timore.
Arrivati in città, il camionista parcheggiò in una stradina a senso unico, percorrendo l'ultimo tratto di strada con il cambio in folle; smorzò le luci dei fari e spense il motore. Entrambi ci guardammo intorno: non sembrava esserci anima viva. Taddeo spense i fari, scese dal camion, aprì il portellone posteriore e fece sparpagliare sulla strada il resto del gruppo. Quando scesi dal mezzo, una strana luce attirò la mia attenzione. Era rossa e si rifrangeva sui vetri di una piccola finestra, in un appartamento di un palazzo a due piani.
"Cosa hai visto?" mi domandò Simone, notando il mio sguardo rapito.
"Guarda là" dissi, indicando la finestra. "Sento una strana sensazione."
Simone sollevò lo sguardo e fissò l'appartamento.
"Buona o cattiva?"
"Non saprei, ma dovremmo scoprirlo."
Dopo aver messo al corrente i presenti, ci dirigemmo verso quell'abitazione, con le armi incollate alle mani. Ognuno di noi aveva una pistola, un coltello alla cintura dei pantaloni e un fucile a tracolla. Nessun lamento arrochito echeggiava nelle strade limitrofe, ma bisognava essere prudenti e agire con cautela. In città aleggiava l'odore acre dei corpi putrefatti; tra le aiuole si percepiva lo stonato cicaleccio degli insetti, mentre l'umidità stagnava nell'aria fredda. Quando, con passo felpato, attraversai il vialetto di cemento che accoglieva l'ingresso del palazzo, mi accorsi di un fatto molto strano. Sopra il tetto della struttura, uno stormo di gabbiani giravano in silenzio, senza emettere alcun verso. Sembravano ipnotizzati, quasi robotici, e ripetevano sempre lo stesso giro.
"Centinaia di gabbiani sopra un palazzo" pensò Giovanni ad alta voce. "Ne devo vedere più di cose strane?"
I vetri del portone d'ingresso erano sporchi di sangue: vi erano delle strisce che disegnavano una nave, altre che ritraevano una piccola porta con accanto delle onde. Un cannibale spuntò alle nostre spalle e Simone gli piantò un proiettile in testa. Poi ne arrivarono altri in massa, spingendosi tra di loro. Sbucarono dalla corsia di destra, poi da quella di sinistra, e si infilarono nel viale. I loro movimenti non erano più come prima; adesso erano lenti, ma i loro versi rauchi erano sempre gli stessi. I cannibali trascinavano i loro corpi come fossero macigni, nonostante questi fossero denutriti a tal punto da riuscire a vedere le ossa tra i vestiti fatti a brandelli. Uno dopo l'altro li abbattemmo senza problemi: il sangue schizzò in aria e ricoprì le mura di cemento del viale.
"Ottimo lavoro!" esclamò Simone. "Vedo che i miei insegnamenti sono serviti a qualcosa."
"È anche merito mio!" disse Alessio, increspando le sopracciglia.
"Sì... certo... volevo dire i nostri insegnamenti."
Il suono degli spari attirò altri cannibali: i loro versi rochi si riversarono nell'aria da una zona non molto distante; dovevamo abbandonare la scena alla svelta. Entrammo nell'androne del palazzo, salimmo le scale e ci dirigemmo al secondo piano. La porta d'ingresso era socchiusa; gli diedi un calcio e protesi in avanti la pistola, avanzando. Vi era un corridoio lungo e le stanze erano disposte ai lati. Simone copriva le mie spalle, Alessio era accanto al fratello maggiore, il resto del gruppo in fila indiana.
Nessuno fiatò. I respiri erano fermi in gola, i passi strisciavano lenti sul pavimento, le canne delle pistole erano pronte a sparare. Le stanze erano vuote, con oggetti e vestiti sparsi per terra: uno stereo trasmetteva un suono ridondante, come fossimo finiti all'interno di una gigante conchiglia marina. Per terra divenne umido, poi dall'uscio dell'ultima stanza a sinistra sgorgò dell'acqua. Le piastrelle che rivestivano il pavimento iniziarono a spezzarsi.
"Ho i brividi" sussurrò Taddeo.
Un odore salmastro pervase le mie narici, udii il suono delle onde del mare infrangersi una contro l'altra. La sirena di una nave ci fece trasalire.
"L'avete sentita anche voi?" domandò Taddeo, girandosi su se stesso.
"Sì!" esclamai, con tono secco.
"Dove ci hai portati, Kephas?"
Le finestre iniziarono a cigolare, i mobili a spezzarsi sui loro piedi di legno, le porte delle stanze a socchiudersi. Si udirono rumori di passi pesanti lungo il corridoio.
"Stiamo per morire, me lo sento" bisbigliò Taddeo, con voce sottile, tesa e stretta.
I nostri occhi volteggiarono da una parete all'altra, impauriti, tamburellanti, fino a quando non raggiungemmo l'ultima stanza a sinistra. All'interno vi erano due donne sedute per terra, una mora e una bionda, con le gambe incrociate: le loro palpebre erano chiuse, le braccia rilassate e le schiene dritte, ma non tese.
"Ehilà!" pronunciai con stupore.
Numerosi ceri bianchi disposti in cerchio, rivestiti da una protezione di plastica rossa, erano accesi e proiettavano riflessi color porpora sulla finestra che sporgeva sulla strada. Le due donne, che si trovavano dentro il cerchio di ceri, non si mossero di un millimetro.
"Mi sentite?" chiesi allora, avvicinandomi.
Guardai Simone negli occhi: egli agitò le mani e scosse la testa, stupito. Le donne si tenevano per mano, una di fronte all'altra, e i loro corpi tremavano. Poggiai la mia mano sulla spalla della donna bionda per scuoterla, e all'improvviso mi ritrovai catapultato sul ponte di una nave.
"Ti fidi di me?" chiese un uomo ad una donna, stringendo il suo bacino.
"Mi fido di te" rispose lei, con le braccia tese nell'atto di volare.
Mi girai intorno, ansimando.
"No, aspetta. Non può essere. Dove mi trovo? Cosa sta succedendo?"
Il cuore iniziò a battere come una mitraglia, il respiro si fece affannoso. Le persone che camminavano sulla nave erano tutte vestite di nero: gli uomini indossavano uno smoking, le donne un abito lungo. Uno stormo di gabbiani volavano in cielo, le onde del mare si spezzavano una contro l'altra. L'aria sapeva di salmastro.
"Mio Dio, non può essere!"
Le due donne, che un attimo prima erano sedute nella stanza, mi corsero incontro. Loro non vestivano di nero e, ora che ci prestavo attenzione, nemmeno io.
"Chi sei tu? Come sei arrivato qua?" chiese la donna bionda dagli occhi verdi.
I suoi occhi erano sgranati e le labbra strette.
"Ma cos'è questo posto?" domandai, afferrando il suo braccio. "Dove ci troviamo? È reale? Com'è possibile?"
La donna rimase in silenzio e mi fissò. Quella accanto, dai capelli castani e gli occhi verdi, l'afferrò per l'altro braccio e urlò: "I dieci minuti stanno scadendo, dobbiamo andare, Andrea!".
Un attimo dopo mi ritrovai catapultato nell'abitazione di Palermo: la mia mano era ancora poggiata sulla spalla della donna bionda. Lux mi scuoteva da dietro, palesemente impaurita.
"Kephas! Kephas!" urlava.
Mi voltai di colpo e lei sussultò. La mia testa sembrava un luna park, dove tutto attorno luccicava e girava senza sosta, mescolando i colori in strisce arcobaleno.
"Sei tornato, finalmente!" esclamò Lux. "Sei rimasto immobile per mezz'ora."
"Mezz'ora?" domandai. "Ma saranno passati sì e no trenta secondi!"
La mia testa continuò a girare, le sopracciglia si alzarono fino a curvarsi verso l'alto e la bocca si spalancò. Lo stupore pervase anche il volto di Lux.
"Ma no! Ti dico che è passata mezz'ora."
Lux rimase immobile. Alessio, al suo fianco, aveva la bocca aperta ma non riusciva a far emettere alcun suono alle sue corde vocali. I due ingegneri, dietro Lux, erano seduti per terra con i loro computer sulle gambe, ma i loro sguardi non fissavano lo schermo, bensì i miei occhi. Taddeo era con loro, con le mani tra i capelli e un'espressione impaurita. Simone rovistava tra gli scaffali pieni di polvere, nella stanza dirimpetto. Una mano mi strattonò da dietro e mi girai: era la donna dai capelli biondi. Mi fissava negli occhi, scrutandoli con attenzione. Poi si avvicinò a un centimetro da me, guardandomi dal basso verso l'alto.
"Ti senti scombussolato, non è vero?" mi chiese.
Lisci capelli biondi scendevano sul suo petto prosperoso, arricciandosi verso la fine in corposi boccoli. Una riga che partita da sopra la fronte divideva la capigliatura in egual misura su entrambi i lati del volto. Gli zigomi erano pronunciati, le labbra sottili e delicate, il naso greco e ben delineato, e gli occhi verdi tendenti al grigio.
"Abbastanza" risposi, con leggero imbarazzo.
Pian piano la mia vista tornò a essere nitida, ma non poté di certo dimenticare ciò che aveva visto poc'anzi.
"Ma cos'era quella visione?" domandai. "Sembrava tutto così reale."
"Lo era, infatti" disse la donna, con un sorriso. "Si trattava di una proiezione astrale: i nostri corpi erano qui, ma le nostre anime si trovavano su quella nave... in un altro mondo, in un altro tempo, in un altro spazio."
"Un momento, un momento!" urlò Simone, correndo e scavalcando i corpi atrofizzati dei presenti. "Voi chi siete? E di cosa state parlando?"
"Scusami!" replicò la donna dai capelli castani. "Ma qui gli intrusi siete voi. Dunque, chi siete?"
Simone digrignò i denti. Lux arricciò il naso. Alessio strinse i pugni, serrando le labbra.
"Mi chiamo Kephas" ribattei, prima che potesse scoppiare una rissa. "E voi?"
"Io sono Sofia" rispose la donna dai capelli castani "e lei è Andrea. Siamo gemelle, anche se io sono più piccola di qualche ora."
Sofia, al contrario della sorella più grande, aveva i capelli castano scuro con sfumature color porpora. Tanti boccoli partivano dalla cute e si adagiavano sotto il collo. Le sue labbra erano carnose e il naso allungato e sottile, mentre gli occhi verdi tendevano all'azzurro.
"Kephas..." sussurrò Andrea. "Che nome strano... mi sembra di averlo già sentito, però."
La donna fece qualche passo indietro e massaggiò il mento con la mano. Il volto era chinato in basso e il suo sguardo assorto.
"Ah! Ecco!" esclamò, facendo schioccare il pollice e l'indice. "Il prete che ci ha ingaggiato per il lavoro diceva di chiamarsi così."
"Un prete?" chiesi con stupore. "Che tipo di lavoro? Quando? Dove?"
"Ehi!" rispose Andrea. "Sembra che la cosa ti abbia turbato parecchio."
"Parlaci di questo lavoro!" urlò Simone. "E non farci perdere tempo."
"Okay, okay!" disse la donna bionda. "Non scaldarti troppo. Dovete sapere che io e mia sorella siamo delle medium per professione. Circa tre mesi fa, poco prima dell'epidemia, abbiamo ricevuto una chiamata da un prete che diceva di aver sentito parlare di noi. Gli serviva il nostro aiuto, ma diceva di trovarsi a Palermo, e noi non ci eravamo mai spostate da Taranto, nostra città natale. Non ci aveva fornito nemmeno i particolari, quindi decidemmo di rifiutare. Poco tempo dopo, precisamente il 6 gennaio, ricevemmo un bonifico bancario molto convincente, due biglietti per Palermo per la sera stessa e una chiamata dal prete. Allora decidemmo di partire, ma quando arrivammo a Palermo, il numero del prete non era più raggiungibile. Il resto del racconto potete immaginarlo."
Simone allentò la tensione che aveva in corpo, si voltò di spalle e si allontanò dalla scena senza dire una parola. Il resto dei presenti rimase in silenzio.
"Ancora il prete" pensai ad alta voce. "Vi voleva qui e vi ci ha portate. E adesso siamo tutti insieme per lo stesso motivo, ma quale sia non ci è dato saperlo ancora."
"Anche voi siete stati portati qui da lui?" domandò Sofia. "Ma come fai a sapere che stiamo parlando dello stesso prete? Non lo abbiamo nemmeno visto in faccia."
"Oh, fidati..." risposi. "Fidati di me."
All'improvviso lo stomaco delle sorella più piccola brontolò.
"Non è che avreste del cibo?" chiese Andrea. "Io e Sofia non mangiamo da giorni."
Un pensiero sbucò nella mia mente.
"Abbiamo del cibo," dissi "e possiamo garantire la vostra incolumità, ma prima dovete spiegarmi dove sono finito prima."
"Non hai ancora capito?" sbottò Andrea. "Quello era un viaggio astrale! Mai sentito parlare? Le nostre capacità ci permettono di viaggiare con lo spirito in ogni luogo, tempo o spazio. Ma, come in ogni cosa, questo tipo di viaggio presenta dei pro e dei contro."
Non le diedi nemmeno il tempo di finire di parlare, che subito dissi: "Posso rivedere mia moglie?".
I miei occhi bruciarono un istante. Le labbra serrate e gli zigomi tesi.
"Kephas..." disse Andrea con un filo di voce. "Ho imparato sulla mia pelle che è meglio non affrontare certi viaggi."
"Vi darò tutto quello che volete!" esclamai. "Vi prego..."
La sorella maggiore si voltò verso Sofia, chiuse gli occhi e li riaprì. La sorella minore fece un cenno con la testa ad Andrea, mostrando un sorriso appena pronunciato.
"Va bene, Kephas. Ma devi promettermi che quando ti ordinerò di tornare, tu dovrai farlo all'istante, senza perdere un secondo di più."
Simone mi raggiunse alle spalle e mi strattonò con forza.
"Kephas, ma cosa stai facendo? Non le conosciamo nemmeno, potresti finire in un brutto guaio."
"Non preoccuparti, Simone. So quello che faccio."
Lux mi afferrò per il braccio e, tirandomi a sé, incrociò il mio sguardo.
"Kephas, non può essere reale quello che vedrai. Tua moglie non c'è più, e i vivi non parlano con i morti. Come saprai che è davvero lei?"
Le mie labbra si distesero verso l'alto, mostrando un accenno di sorriso.
"Poggiate le vostre mani sulla mia spalla. Sarà più facile farvelo vedere, che spiegarvelo."
Le due sorelle si presero per mano e chiusero gli occhi, pronunciando delle parole sottovoce. I presenti, incuriositi e perplessi, si aggrapparono a me, stringendo braccia e spalle.
"Kephas!" esclamò Andrea con tono solenne. "Adesso chiudi gli occhi e pensa a tua moglie nel luogo in cui vi siete conosciuti per la prima volta."
Le due sorelle strinsero le mie mani e, non appena chiusi gli occhi, ci ritrovammo catapultati nella spiaggia di Mondello. Mi girai intorno con gli occhi sgranati e le mie guance si gonfiarono dalla gioia.
"21 marzo 2016" sussurrai.
Il cielo era cristallino e i tiepidi raggi del sole avevano spazzato via le nuvole della notte. Il vento soffiava lieve e accarezzava le onde del mare che si allungavano sulla sabbia compatta e granulosa della battigia, per poi lasciare strisce di schiuma bianca nella loro ritirata verso l'azzurro infinito. La sirena di una grossa nave echeggiava all'orizzonte, facendo garrire i gabbiani nel cielo. Mia moglie Marie indossava un lungo abito nero e guardava il mare con le braccia distese in avanti e le mani incrociate, in piedi sul bagnasciuga.
"kephas..." sussurrò Andrea, appoggiando una mano sulla mia schiena. "Puoi andare adesso..."
I miei occhi erano incollati su mia moglie; sentivo il cuore pompare più sangue del solito. Lo stomaco pieno di farfalle. Feci un lungo respiro. I miei piedi disegnarono delle impronte sulla sabbia, spingendo con delicatezza infiniti granelli ruvidi e umidi, fino a quando, granello dopo granello, raggiunsero quelli di mia moglie, avvolti da bollicine di schiuma bianca.
"Marie..." sussurrai, al suo fianco.
Il suo sguardo rimase fermo sulle onde, e il vento fece fluttuare i suoi capelli lisci e ramati lungo le spalle.
"Sapevo che ti avrei ritrovata qui... qui dove ci siamo incontrati per la prima volta. Sembra tutto come allora: i colori, i suoni, l'armonia che c'è nell'aria. Sapevo che ti avrei rivista."
Il sussurro del vento coprì il suo silenzio. Il mare si avvicinò come un mantello azzurro-verdastro e avvolse i nostri piedi, poi si ritirò con quieta calma. Pensai che mia moglie fosse dispiaciuta, offesa, arrabbiata con me. Non si muoveva. Provai a toccare il suo viso con la mano, ma finii per attraversare la sua guancia come se fosse priva di materia, un dipinto meraviglioso e astratto.
"Mi dispiace Marie... non sono riuscito a proteggerti... e non c'è giorno che io non possa pentirmi di come siano andate le cose. Per te, per nostro figlio, e per quello che sarebbe dovuto nascere."
Lei non rispose. I suoi occhi erano immobili sulle onde del mare, ma non luccicavano di niente.
"Marie, parlami, ti prego!"
Ruotai i piedi e mi posizionai davanti a lei, ma con indifferenza chinò il suo sguardo sulla sabbia. Cercai di afferrare il suo volto e spingerlo verso l'alto, ma le mie mani acchiapparono il nulla, un viso vuoto disegnato in un quadro perfetto.
"Perché non vuoi guardarmi? Sono qui! Adesso! Dimmi cosa devo fare, se vale la pena di vivere, se scegliere invece la morte."
Una lacrima scese dai suoi occhi spenti, rigò le guance e dondolò sul mento. Le sue ciglia si chiusero per un istante, inumidendosi. Tra le sue rosee labbra strette apparve uno spiraglio buio di speranza, contornato da rughe simili a onde del mare. Pensai che stesse per parlami. Tutto attorno si spense come se non ci fosse nient'altro che lei e riuscii a sentire persino il suo flebile respiro. Quando la sua unica lacrima si staccò dal viso, e si mischiò al mantello azzurro-verdastro del mare, che avvolgeva di fresco i nostri piedi, il suo viso guizzò in alto e i suoi occhi, adesso neri, mi fissarono con cattiveria.
"Kephas! Kephas!" urlò una voce femminile. "Vai via di lì! Presto!"
Andrea si mise a correre verso di me, seguita dalla sorella. Le loro gambe si muovevano con frenesia, affondando sulla sabbia, che adesso appariva più profonda e molliccia, e i loro volti sembravano sconvolti da un'orrenda visione.
"Alle tue spalle, Kephas! Il tempo sta per scadere!"
Mi girai frastornato: i gabbiani cadevano come proiettili sul mare, e all'impatto l'acqua schizzava in alto in spirali bianche con riflessi blu. All'improvviso la nave, la cui sirena adesso risuonava lenta, profonda e soffocata, si deformò stridendo, fino ad assumere una forma piatta e sottile, simile a un disco d'acciaio. Quest'ultimo prese il volo verso l'alto, raggiunse il cielo e virò verso il basso, alla velocità della luce. Dopo lo schianto, il mare iniziò a colorare le sue acque di un rosso porpora.
"Afferra la nostra mano, Kephas! Non perdere altro tempo!"
Mentre mi giravo, impaurito, per correre verso le due sorelle, queste vennero inghiottite dalla sabbia, e così anche il resto del gruppo. I loro corpi scomparvero nel nulla, e il suolo iniziò a gorgogliare fumando, creando voragini larghe quanto ruote di un camion. Le bollicine di schiuma bianca divennero piccoli teschi sparsi sulla battigia, che battevano la loro dentatura perfetta come per volermi mangiare, trascinati avanti e indietro dalle onde color porpora. Chinai il volto inorridito e, quando lo rialzai, il viso di mia moglie non era più lo stesso.
"Chi sei tu?" domandai con un filo di voce, rimanendo a bocca aperta, mentre un conato di vomito mi saliva in gola.
Il suo volto divenne malleabile come gomma e mutò forma di continuo, assumendo sempre più lineamenti demoniaci.
"Colui che estirperà la tua coscienza" sogghignò "e la farà prigioniera in una galassia molto lontana e diversa dalla tua."
La sua voce aleggiò come un bisbiglio rauco e sottile. Fronte e guance si gonfiarono sul suo viso, saturandosi di vene color sangue. La bocca si aprì fino a mostrare dei denti aguzzi e lunghi come sciabole, e le pupille si riempirono di un nero viscido che colava sugli zigomi. Lo fissai senza riuscire a muovere un dito, mentre il dipinto di luce e colori, che avevo trovato al mio arrivo, si contorceva in un vortice lento.
"Perché mai dovresti volere la mia coscienza, mostro?"
L'essere disumano sollevò il suo braccio, aprendo il palmo della mano sul mio cuore.
"Per far sì che il Male vinca la sua battaglia."
Un ghigno malefico fuoriuscì dalla sua bocca ed echeggiò senza sosta, aumentando di intensità. Il suo corpo si accese di una luce nera, che pulsava al ritmo del mio cuore. In quell'istante mi sentii mancare.
"Sei mio, Kephas!"
Non riuscivo più a parlare. Sarei voluto accasciarmi al suolo, ma quell'essere mi teneva in piedi con la sua mente. Il suo braccio proteso in avanti si illuminò come una lanterna, e all'estremità apparve una sfera oscura grande quanto il palmo della sua mano. La sfera si contrappose tra lui e il mio cuore, e iniziò ad assorbire la mia energia vitale. Mi sentii mancare nuovamente. I miei occhi tentavano di chiudersi, di abbandonarsi per sempre, ma la mia anima mi diceva di combattere. All'improvviso le mie palpebre fremettero, mentre il corpo veniva attraversato da spasmi irrefrenabili.
"Com'è possibile?" pronunciò il demone, allibito.
La sua sfera, adesso più gonfia di energia, si rimpicciolì di colpo, e sottili venature nere apparvero sul suo braccio. Queste si allungarono su tutto il suo corpo, come radici di un albero secolare intrecciate tra loro, fino a pulsare, acuminarsi, e comprimerlo dalla testa ai piedi. Il demone urlò dal dolore. Le venature simili a radici divennero taglienti, e lo strinsero a tal punto da farlo a pezzettini. In quell'attimo caddi all'indietro e udii un grande tonfo nell'acqua.
"Kephas!" gridò Andrea, sollevandomi la testa. "Come sei riuscito a salvarti?"
Mi agitai come se stessi per affogare, rigurgitando acqua salmastra. Quando guardai il soffitto, capii di essere tornato a Palermo. Gli occhi di Andrea guardavano i miei pieni di gioia.
"Non potreste neppure immaginarlo."
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