CAPITOLO 25 - FIDATI DI ME!

Erano trascorsi ormai dieci giorni dalla sera del tatuaggio. Io e Luke ci eravamo visti solo un paio di volte, sempre a casa dei ragazzi, per una serata film tutti insieme o per una giornata di studio di gruppo. Devo ammettere che in quel periodo mi ero isolata un po’ da tutti; il dolore per la scomparsa di mia nonna lo sentivo costantemente come una melodia di sottofondo che ti entrava in testa e non riuscivi a scacciare via. Cercavo di sforzarmi ad interagire con i miei amici, ma molto spesso, anche quando eravamo tutti insieme, la mia mente si discostava da tutto ciò che la circondava: parlavo, ridevo, scherzavo ma, il più delle volte, erano azioni che facevo in automatico senza sentirle davvero.

Quell’estraniarmi da tutto e tutti, mi aveva condotta a porre nuovamente una certa distanza con Luke, evitando altre uscite in solitaria. In quel periodo per me era del tutto impossibile cercare di comprendere ciò che si era tornato a creare tra di noi e le innegabili sensazioni provate dopo che le nostre labbra si erano incontrate a più di un anno di distanza dalla nostra rottura; mia nonna era il mio unico pensiero.

Ma se io ero convinta di dover mantenere il giusto spazio per un po’ tra di noi, non avevo fatto i conti con l’oste, perché la controparte di quegli eventi aveva deciso quel giorno di interrompere la mia quiete.

Quella mattina l’avevo passata a lavorare in casa alla mia tesi, mentre Henry era a lezione, concedendomi solo una pausa per andare a fare la spesa dopo pranzo. Stavo ancora finendo di sistemare i vari prodotti sui ripiani della cucina, quando sentii suonare il campanello del portone di casa in modo ripetuto. Mi bloccai con la mano ancora stretta intorno al pacco dei miei amati biscotti con gocce di cioccolato che avevo appena riposto nella credenza. Richiusi lo sportello con un tonfo secco, per poi dirigermi verso il corridoio ed interrompere quel maledetto campanello che mi stava facendo salire istinti omicidi verso chi continuava a premerlo imperterrito.

Appena guardai dallo spioncino, un brivido di terrore mi percorse lungo tutta la schiena. Ogni volta che Luke era venuto a bussare alla mia porta non aveva portato mai nulla di buono; be’, ad eccezione delle paste alla crema.

Trassi forza dalla calma ritrovata in quella settimana, ripromettendomi di non lasciarmi sopraffare nuovamente dalle emozioni mentre gli aprivo.

Ed eccola lì la scimmietta stalker, con addosso una delle sue classiche magliette a maniche corte nere, quando in realtà eravamo ancora ai primi di marzo, accompagnata dal suo solito sorrisetto impertinente e lo sguardo un po’ da folle, in un unico pacchetto che non preannunciava altro se non guai grossi in vista.

«Che peccato, questa volta non hai addosso uno dei tuoi fantastici pigiami, sai quanto mi fanno impazzire!» disse, squadrando da capo a piedi la mia tenuta in jeans scuri e maglione grigio lungo oversize.

“Merda! Vuoi vedere che mentre io cercavo la mia pace interiore lui aveva deciso di passare al contrattacco?!? Dovevo iniziarmi a fidare del mio sesto senso, lo sapevo che non dovevo aprire questa dannatissima porta!”

Ma non potevo permettermi di tentennare in sua presenza, così risposi, palesando disinteresse per la sua precedente affermazione: «Sei venuto qui solo per fare complimenti e a dire scemenze, o vuoi qualcosa?» incrociai le braccia al petto mentre attendevo la sua risposta.

Per un attimo i suoi occhi si rabbuiarono, forse dispiaciuto dal mio continuo aggirare le questioni che riguardavano noi due, ma si riprese in fretta, sostituendo quell’espressione sconsolata con un ghigno battagliero; si preannunciavano davvero grossi guai come preannunciato! Non sapevo ancora cosa avesse in mente, ma ero certa si trattasse di qualcosa di folle, come sempre del resto quando si trattava di lui, perché rivedevo in quell' angolo destro della sua bocca sollevato, lo stesso sorriso di quando mi aveva trascinata al faro.

«In realtà sì, sono venuto qui per chiederti una cosa.»

«Sentiamo», lo spronai con tono fermo, anche se dentro di me vibravo per l’agitazione dell'attesa di ciò che stava per dirmi.

«Devi venire con me in un posto, ma non puoi sapere né dove, né cosa faremo fino a quando non saremo arrivati, insomma, un po’ come ai vecchi tempi.» Lo guardai attonita, pensando per un attimo di aver capito male.

“Ma voleva scherzare?!? Io non avevo più alcuna intenzione di farmi trascinare a destra e a manca come un tempo in qualche luogo assurdo! Quei tempi erano belli che morti, ed anche quella Ollie!”

«Sei ubriaco? Guarda che l’ora di pranzo è passata da poco. Mi pare un po’ troppo presto per bere! E se non sei ubriaco, te lo dico subito che sei del tutto fuori di testa, come d’altronde abbiamo appurato più volte. Io non ci vengo con te da nessuna parte se non mi dici dove e cosa andiamo a fare!» sbraitai leggermente, palesando a parole la mia presa di posizione in merito a quell’argomento.

Avrei voluto controllarmi meglio, ma proprio non riuscivo a trattenere la rabbia e l’inquietudine che in sua presenza tornavano ad emergere, soprattutto quando, come in quel caso, si riproponeva qualcosa che mi faceva pensare al passato.

Si passò una mano sul viso e poi tra quel groviglio che lui continuava a definire capelli, nel suo tipico gesto che voleva dire una sola cosa: esasperazione.

«Me lo immaginavo che avresti rifiutato subito, anche se ho sperato il contrario e di non dover stare un’ ora a cercare di convincerti. Ma lo farò ugualmente a questo punto, quindi ascoltami bene!» Prese un respiro profondo prima di continuare. «So che non vuoi fare il bis delle esperienze passate, tipo: arrampicarti sulla scala, farti trascinare da me da qualche parte in piena notte senza sapere dove e così via. Lo so! Ma sottolineo innanzitutto che non è notte e che contrariamente alle altre volte te lo sto chiedendo, invece di caricarti in spalla e portatrici di peso. Sto lasciando a te la scelta, ma vorrei soprattutto che ti fidassi di me, Ollie!»

Nell’udire quelle ultime quattro parole, senza rendermene conto, indietreggiai di un passo, restando senza fiato, come se tutta l’aria che avevo nei polmoni fosse evaporata di colpo.

“Non puoi chiedermi una cosa simile, Luke! Non puoi!”

Tuttavia, il ragazzo a cui avevo donato quel prezioso sentimento e che ora me lo stava richiedendo indietro, dopo averlo reciso lui stesso, sembrò non essersi accorto di quel mio gesto involontario, e continuò nella sua azione di convincimento. «Vorrei che ti fidassi di me e che mi seguissi senza fare storie, perché sono convinto che ti piacerà dove stiamo per andare e, cosa più importante, ti potrebbe aiutare a staccare un po’ la spina da... be’... gli ultimi eventi spiacevoli che ti sono successi.»  

Terminato di parlare, abbassò gli occhi sulle piastrelle bianche del pianerottolo dove era rimasto in attesa, per poi riposizionarli lentamente su di me, mostrandomi la sua trepidazione per la mia risposta.

In quel momento mi trovai in profondo difficoltà. Da una parte non mi fidavo assolutamente di lui, ma era pur vero che aveva chiesto il mio parere in merito, invece di afferrarmi in pieno stile Tarzan e trascinarmi Dio solo sapeva dove; e dall’altra parte c’era il mio profondo desiderio di evadere dal dolore. Era inutile negare che mia nonna mi mancasse ancora, anche fosse passato un anno o venti, mi sarebbe sempre mancata. Il problema principale però risiedeva nel fatto che quella ferita fosse ancora troppo fresca e che in aggiunta, a peggiorare la situazione, un evento di quella mattina mi avesse destabilizzata non poco emotivamente.

Mi era infatti arrivato un pacco da parte di mia madre, con dentro alcune cose che mia nonna aveva predisposto io ricevessi dopo la sua morte. Con mani tremanti l’avevo aperto e, al suo interno, vi avevo trovato quattro album fotografici. Al solo vederli mi ero sentita mancare la terra sotto i piedi, ma non potevo immaginare che quello avevo provato solo vedendoli, fosse un non nulla rispetto a ciò che avrei sentito aprendoli.

All’interno del primo vi erano tutte le foto che mi aveva scattato lei durante la mia infanzia: da quando ero ancora in fasce tra le braccia dei miei genitori, o sulla mia prima bicicletta rossa con le rotelle, fino ai primi barlumi della mia adolescenza. In alcune era ritratta anche lei con me, forse ce le aveva fatte qualche suo amico, o mio nonno prima che morisse, come quella che mi immortalava appena nata tra le sue braccia, avvolta in una copertina bianca con gli orli ricamati di rosa, sedute sul dondolo del portico di casa sua.

Avevo stretto gli occhi per non far uscire le lacrime come promesso e, con enorme difficoltà, ero passata al secondo album: erano ritagli della mia adolescenza. Quegli album erano un excursus sulla mia vita, e lei mi stava mostrando tramite le sue foto come mi aveva vista cambiare nel corso degli anni da dietro un obiettivo: una bambina che passo dopo passo si avviava verso la strada per diventare una giovane donna.

In quell’album grigio perla vi erano anche foto che ritraevano me e Meg quando passavamo da lei dopo il liceo, sedute in veranda sorridenti a berci un tè freddo; mi ricordavo tantissimi di quei giorni sempre uguali eppure unici nel loro genere, ma la cosa peggiore era che  li vedevo oramai lontani, impossibile da riavere indietro.

A quel punto avevo dovuto fare appello a tutto il mio coraggio per estrarre il terzo album. All'interno vi erano quasi tutte foto scattate da me, che in passato le avevo mandato o portato io stessa: io ed Henry, i ragazzi, le gite al lago d’estate, i luoghi che avevo scoperto con Luke ed il nostro furgoncino, foto con i miei amici di Londra ed i posti che avevo visitato in Inghilterra. Erano state tutte scattate da me ad eccezione di una. Ricordavo perfettamente quando me l’aveva fatta. Ero tornata per le vacanze di Natale l’anno precedente e mi trovavo seduta ai piedi del camino della sua sala, tutta concentrata a controllare alcuni scatti dalla mia Nikon che avevo finito di mostrarle poco prima. Un leggero sorriso increspava le mie labbra, mentre guardavo una foto stupida che ci eravamo fatti io, Ale, Marcel e Nina, tutti stesi a pancia in giù nel giardino del campus dopo aver terminato una lunga battaglia a palle di neve. Avevo sentito il familiare “click” della Rolleflix di mia nonna e, voltandomi di scatto, l’avevo trovata a sorridermi da dietro l’obiettivo. Ero già pronta a protestare per quella foto a tradimento, ma lei, come sempre, aveva saputo mettermi a tacere con poche parole: «Eri troppo bella mentre rivolgevi un sorriso sincero alla tua macchina fotografica che non ho saputo resistere.»

Quel terzo album però, era stato riempito solo per metà e all’ultima pagina avevo trovato un bigliettino con l’inconfondibile grafia arzigogolata di mia nonna.

Il cuore aveva smesso di battere, solo il mio corpo sembrava tremare allo stesso ritmo di quell’organo che si era invece arrestato. Mi ero alzata in piedi ed avevo iniziato a camminare più volte avanti ed indietro per tutta la lunghezza della mia minuscola camera, nel tentativo disperato di calmarmi. Ma all’ennesimo passo senza meta, avevo capito che non avrei trovato la pace che cercavo tramite quel movimento compulsivo. Ero tornata a sedermi sul letto, andando incontro a quelle parole che mi pendevano come una spada di Damocle sulla testa:

“Ciao, bambina mia,
come stai? So che non possiamo parlare per davvero, ma era troppo divertente da scrivere per non farlo. Ti ho lasciato uno dei doni più preziosi che ho: i miei ricordi di te. Trattali con cura! Ho deciso di scriverti queste poche righe per farti una richiesta: vorrei che completassi tu stessa il terzo album con le foto degli eventi che accadranno nel tuo imminente futuro. Il quarto, invece, lo troverai completamente bianco. Quello desidererei lo dedicassi a quando sarai più grande. Forse sposata con figli, o da sola, o sola con figli, insomma tutto ciò che vorrai tu, piccola mia, perché tu puoi fare ed essere tutto quello che vuoi!
Con infinito affetto.
La tua Nonna”

Non sapevo neppure io dove avessi trovato le forze per non scoppiare in lacrime e riuscire così a mantenere la promessa fattagli. Mi ero più volte premuta i palmi delle mani sugli occhi, respirando a fatica, ma alla fine avevo alzato lo sguardo verso il soffitto e, come mi aveva chiesto lei, le avevo rivolto un piccolo sorriso, mormorando ad una stanza vuota: «Ti diverti sempre un mondo a mettermi in difficoltà.»

Ed ecco il motivo per cui era stata decisamente una mattinata per certi versi da dimenticare o, per meglio dire, di cui avrei voluto scacciare quel dolore che non facevano altro che starmi addosso come una seconda pelle.


«Allora, topino? Non dici nulla? Sì? No? Forse? Dimmi qualcosa, ti prego! Mi stai uccidendo!»

Ero talmente assorta nel ripercorrere gli eventi di quella giornata, da non essermi neppure accorta che quel poveraccio era rimasto davanti a me ad aspettare una risposta per non sapevo neppure io quanto tempo.

Con ancora le sensazioni di quella mattina a calamitarmi intorno, ed il desiderio spasmodico di ritrovare un po’ di quiete, agii d’istinto. «Va bene, ci vengo», dissi, guardandolo negli occhi e notando comparire un sorriso a 32 denti sul suo volto. Era decisamente il caso di frenare un po’ il suo eccesso di entusiasmo.

«Vengo, ma, se non mi piace la situazione, il luogo o che diamine so io, me ne vado! Sono stata abbastanza chiara?» sottolineai la mia posizione in merito incrociando nuovamente le braccia al petto e rivolgendogli il mio miglior sguardo intransigente.

Luke, sbuffò spazientito da quel mio continuo puntare i piedi con lui, ma alla fine sapevo avrebbe ceduto; d’altronde, avevo io il coltello dalla parte del manico.

«D’accordo, topino prepotente! Era quasi meglio quando ti prendevo di forza e ti portavo dove dicevo io! Londra ti ha reso troppo sovversiva per i miei gusti.»

«Abituatici, i tempi in facevo il sacco di patate che veniva trasportato qua e là senza opporre resistenza, sono belli che morti», ribattei, mentre mi infilavo il cappotto e chiudevo la porta di casa.

«Eri un bel sacco di patate: mi creavi pochi problemi e non avevi da ridire sempre su tutto! Ah, no, aspetta! Quello lo facevi anche a quei tempi», ribatté, ridacchiando mentre scendevamo velocemente le scale.

Mi limitai a guardalo storto; non volevo proseguire con quel battibecco che ci avrebbe solo condotti a rimembrare situazioni passate tra noi due che preferivo tenere ben sepolte. Purtroppo per me però, se anche io non volevo ricordare nulla tramite le parole, il passato era fuori dal portone dell’edificio di casa mia ad attendermi in formato furgoncino bianco per le consegne.

Appena lo vidi mi si gelò il sangue. Non salivo lì dentro da non sapevo neppure io quanto tempo e l’ultima volta che ci ero entrata...

“Oddio! L’ultima volta che ero stata lì dentro con Luke ci avevamo fatto l’amore!”

Le guance mi si tinsero di un rosso scarlatto al solo pensiero e quel cretino al mio fianco credo lo avesse anche notato  perché, sghignazzando tra sé e sé, si avvicinò al mio orecchio per sussurrarmi con voce bassa e suadente: «Tranquilla, non ho brutte intenzioni.»

Se poco prima solo le mie guance erano avvampate, potevo solo immaginare di che colore avessi tutto il viso a quel punto.

«Potrei averne io ed usare il furgone per nascondere il tuo corpo da qualche parte dopo che ti avrò fatto a pezzi, ci hai pensato?!?» sputai fuori velenosa, con uno sguardo che lo sfidava apertamente ad aggiungere altro.

Per fortuna  creare risposte pungenti alla velocità della luce era la mia specialità, perché in quel caso mi avevano salvato, mascherando in parte il mio disagio.

«Correrò il rischio», rispose tronfio, per poi allontanarsi e salire sul lato del conducente.

Non mi interessò se avesse avuto lui l’ultima battuta in quello scontro, l’importante era che fosse finito prima che capitasse qualche disastro. Lo seguii, salendo anche io su quel mezzo di trasporto che mi aveva maledettamente messo in difficoltà, ed allacciandomi la cintura di sicurezza, mentre il rombo del motore faceva vibrare leggermente i sedili ad ogni metro che percorrevamo, ricominciai nuovamente ad invocare tutti i santi di questo mondo. In particolar modo mi affidai a San Giuda delle cause perse ed improbabili, a cui dovevo essere particolarmente devota, visto che ogni benedetta volta continuavo a seguire il folle seduto al mio fianco, che con un sorriso vittorioso guidava guardando dritto davanti a sé. D’altronde, quando Luke mi conduceva in qualche sua avventura, c’era solo una cosa che potessi fare: pregare!

Come potrei non dedicare questo capitolo al mio Mastino @sepmgg, creatrice dell'appellativo "Santa Ollie delle cause perse ed improbabili" 😂 Dove starà portando la nostra scimmietta il suo topino? Preparatevi perché ci sarà davvero da ridere! Ci vediamo Lunedì, buon fine settimana a tutti!

Ed ora i saluti... Oggi un altro dialetto proveniente dall'Abruzzo...

CE VEDEMME A N'ATRU PIGIAME!

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