9. Per questa volta almeno sarò la tua libertà
Non sarò la tua consolazione,
e neanche il padre del tuo prossimo bambino.
Per questa volta almeno sarò la tua libertà,
per questa volta almeno solo la tua libertà
(C. Lolli, Anna di Francia, 1976)
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Avviso importante: la versione che state per leggere di questo capitolo è stata editata per non violare le regole di Wattpad. Ho tagliato alcune parti e riscritto altre, cercando di non cambiare il senso di ciò che accade. Se volete leggere la versione completa del capitolo trovate un link a un PDF pubblico qui a destra. Vi prego di leggere quella versione perché più completa, autentica e aderente alle mie intenzioni narrative e psicologiche.
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23 marzo 1981
Leonardo Devetak viveva con sua madre, suo padre e i suoi due fratelli maggiori, Paolo e Matteo, in una piccola catapecchia del primo dopoguerra: mura non intonacate e finestre a persiana che cadevano a pezzi, il cui colore verde scuro era in buona parte marcito, lasciando scoperto il legno marrone sottostante. Il cortile di ghiaia ospitava un cubicolo di cemento costruito in epoca molto più recente, che fungeva da garage per l'unica macchina di famiglia, una vecchia Fiat Centoventiquattro, tre bici e due motorini, un Ciao usato da Paolo, il fratello di mezzo, e il Bravo di Leonardo. Sul lato opposto del cortile, un piccolo recinto di galline e la cuccia del loro cane, un bastardino nero spelacchiato di nome Furia che ormai andava per i sedici anni: l'avevano preso prima che nascesse Nico.
Furia abbaiò quando Nico entrò nel cortile, e l'abbaio svegliò il padre di Leonardo, che si era addormentato seduto su uno sgabello all'ombra di uno dei due garage aperti.
«Ohu!» gridò a Nico.
«Ciao» lo salutò lui. Era un vecchio amico del padre, lo conosceva da quando era bambino, e lo ricordava sempre così: pancione e alcolizzato.
Lui piegò il busto in avanti, strizzando la pancia sulle cosce. «Sestu el fì di Iacum Sidin?» Sei il figlio di Giacomo Sidìn?
Sidìn era il soprannome di famiglia, di quel ramo dei Bressan. Significava "tranquillo", ed era un soprannome che a Nico era sempre piaciuto molto, perché lui ci si sentiva, sidìn.
«Sì, soj iò. Soj Nico» rispose lui.
«Oh... il Nico Sidìn! Cui si viôt!» Chi si vede. Ridacchiò, poi borbottò qualcosa in sloveno.
«Leonardo è in casa?» gli chiese.
In tutta risposta, l'uomo borbottò qualcos'altro in sloveno.
Nico decise di lasciarlo perdere. Dialogare con lui quando era ubriaco era impossibile.
Bussò alla porta e gli aprì la madre di Leonardo. «Ah, se non è il Nico Sidìn!» disse vedendolo. La porta aperta fece emergere un suono di fisarmonica dall'interno.
Il cuore si fece piccolo nel suo petto.
Era lui. Era lui che suonava.
«Ven, ven... Quanto tempo che non vieni qua! Quando sarà stata l'ultima volta?»
«Eh, ero piccolo... cinque anni fa forse?»
«Ti ricordi quando avevi provato a dare da bere l'aranciata a Furia? Dio che ridere, ogni volta che mi impenso mi viene da ridere!»
«Eh sì» rispose Nico, che non ricordava affatto quell'episodio, accaduto probabilmente quando era bambino. «Cercavo Leonardo.»
«È in camera sua, vai su. Sta suonando, ma non gli dai fastidio.»
Nico salì le scale.
In camera sua.
Lo aveva evitato per sei mesi. A scuola quando lo incrociava abbassava la testa o cambiava strada, in cortile non ci scendeva mai, nonostante le insistenze della Daiana che voleva fumare: gran parte delle volte ci andava da sola, e qualche giorno si arrischiava a farlo da una finestra della classe, per stare con lui.
In corriera non lo incontrava mai perché Nico la prendeva apposta molto presto per andare a Gorizia, e tardi per tornare a casa, quindi per la stessa ragione non lo beccava mai neanche in Ribi.
E adesso eccolo lì, nella tana del leone. Solo nella tana del leone, con la persona che lo aveva terrorizzato per gli ultimi sei mesi. La fisarmonica suonava forte, a un metro, forse due da lui, solo una vecchia porta di legno ad attutirne il suono. Nico non era esperto di ballo liscio, ma gli sembrava un valzer: un tattà, un tattà.
Prese qualche respiro per calmare il battito accelerato del suo cuore e bussò.
Il valzer si fermò. «Mama, çe ustu?» chiese.
«Sono Nicolò.» La voce gli uscì più debole del previsto.
Silenzio.
Rumore di fisarmonica che sfiatava.
La porta si aprì, e Nico osservò sul viso di Leonardo un'espressione rara: stupore. Forse un pizzico di preoccupazione. «Entra» disse.
Dopo pochi secondi era di nuovo lui, col suo sorriso strafottente. «Avevo perso le speranze con te» aggiunse. La sua camera era piccola, quasi interamente occupata dal suo letto singolo, ancora disfatto, e da un armadio con un'anta storta. Al muro c'era un poster di Antonio Cabrini. Una piccola sedia impagliata e la fisarmonica poggiata a terra completavano l'arredamento.
Leonardo prese il pacchetto di sigarette che stava appoggiato al davanzale dell'unica finestra e se ne accese una. «Vuoi?» offrì a Nico, che scosse la testa.
«Non ti dicono niente i tuoi che fumi in casa?»
Leonardo rise, sbuffando fumo. «Mi ha insegnato mio padre, a fumare, pensi che mi dice qualcosa?»
Nico alzò le sopracciglia. «Era ubriaco o cosa?»
Leonardo si strinse nelle spalle. «No, solo cojon. Ma forse è diventato cojon perché beveva troppo, non so. Quando ero piccolo, avrò avuto, boh, sei, sette anni, mi dava le sigarette e mi insegnava a tirare, poi quando venivano i parenti o gli amici mi mostrava tipo circo: guarda che bravo che è Leo a fumare, e giù tutti a ridere che c'era il bambino che fumava. E niente, mi piaceva e ho continuato.»
«E tua madre era d'accordo? E i tuoi fratelli?» chiese Nico sempre più sconvolto.
«Matteo e Paolo fumano anche loro e non gli fregava un cazzo, ridevano anche loro quando fumavo, capace che mio papà ha fatto lo stesso numero con loro due quando erano piccoli. Mia mamma ovviamente non era contenta, ma non poteva dire niente con gli altri tre che mi davano corda. Poi mio papà mi regalava sempre le sigarette come premio quando prendevo bei voti a scuola.»
«Mi pare che non è servito a molto, come incentivo.»
Leo rise. «Per niente! Senti un po', ma siamo qui per parlare delle mie sigarette o per limonare?»
Nico ebbe un singulto. «Ma che cazzo dici?!» gridò.
«Perché sei venuto? Cosa vuoi?» diede un profondo tiro e lo fissò a occhi stretti.
Nico strinse le mascelle. «La prima idea era quella di riempirti di botte.»
«Poi mi hai visto e hai pensato che limonare era più divertente.»
«Ma la finisci?»
I due ragazzi si guardarono in silenzio per qualche secondo, poi Leonardo fece un passo verso Nico.
«Fermati!» disse Nico alzando entrambe le mani verso di lui. L'altro, stranamente, gli diede ascolto.
«Io... io... voglio sapere che cazzo mi hai fatto!» disse Nico.
«In che senso?»
«Mi... mi hai messo in testa idee strane, ecco! E per colpa tua...» Nico non riuscì a finire la frase. Tutta la sicumera che aveva avuto arrivando lì da Capriva era svanita. Avrebbe voluto chiedergli conto della confusione che aveva passato negli ultimi mesi, avrebbe voluto rinfacciargliela, picchiarlo per sfogare la sua rabbia.
Vederlo l'aveva svuotato da qualsiasi volontà.
Leonardo spense la sigaretta sul davanzale, la gettò dalla finestra aperta e andò verso l'armadio: «Vieni che ti mostro una cosa.»
Nico esitò, ma quando Leo aprì l'anta la curiosità vinse sul timore e si avvicinò.
In bella vista su uno dei ripiani c'erano un po' di riviste: qualche fumetto, una rivista di calcio e una di body building. Leo mostrò la copertina di quest'ultima a Nico: si vedeva un uomo esageratamente muscoloso in posa da culturista. «Ti piace?»
Nico arricciò il labbro. «No, mi fa cagare.»
«Sì, anche a me, è esagerato.» Sfogliò le pagine e arrivò a una foto che ritraeva il mezzo busto di un ragazzo biondo a torso nudo. Aveva un bel fisico, muscoloso ma non troppo gonfio. «E questo?»
«Mi stai chiedendo se voglio diventare così allenandomi a tennis?» gli chiese, sapendo benissimo che Leonardo non intendeva dire quello.
Leo si fece serio. «No, mona. Non far finta di non aver capito.»
Nico non rispose. Fissò la foto. Leo gli porse la rivista e Nico prese a sfogliarla. Si soffermò su un'altra serie di foto, mostravano degli esercizi coi pesi e il modello era un altro ragazzo dal fisico normale. Muscoloso ma non esagerato.
«Sì, abbiamo gusti simili» disse Leo sbirciando alle sue spalle.
«Io non ho nessun gusto.»
Una mano di Leo si posò sul petto di Nico che rimase per qualche istante immobile col respiro trattenuto, prima di riuscire a sussurrare: «Non voglio.»
«Sì che vuoi, non fare storie.» Leonardo lo tirò a sé, la schiena di Nico si appoggiò al petto di Leonardo.
«Io non voglio, ho detto. Non voglio... non voglio assecondare questa cosa.»
«Neanch'io volevo assecondarla, quando ero più piccolo. Ma ho capito che è impossibile.» Leo fece una pausa, un paio di respiri pesanti. «Impossibile.»
«Ma cosa dici impossibile! È colpa tua se... se... è tutta colpa tua, cazzo! Se non c'eri tu io adesso stavo a tacconare con la Daiana! E vuoi sapere una cosa? Abbiamo tacconato veramente, ieri, a casa sua a Grado, e le è piaciuto un casino.»
«E a te è piaciuto?»
«Se non mi piaceva non ci riuscivo, no?»
La mano di Leonardo si mosse sul suo petto, e un leggero tremore delle dita rivelò a Nico che forse non era così sicuro di se come sembrava dal tono di voce.
«Finiscila di toccarmi» disse Nico con la voce un po' affannata, senza spostarsi.
La Mano di Leo si bloccò. «Ok. Facciamo così: se vai via non ti fermo.»
Nico rimase zitto e immobile per qualche secondo, con la frequenza cardiaca in costante aumento. «E come faccio se mi tieni?»
«Non ti tengo mica forte. Muovi i piedi e vai via. Se vuoi andare. E ti giuro che non ti inseguo.»
«Ok» disse Nico, restando fermo. Perché stava fermo? Si accorse di avere il pacco gonfio. Quello stronzo di Leonardo stava giocando con la sua testa! Era tutta colpa sua! Tutta colpa sua! «Io non sono così...» disse con un filo di voce strozzato.
«All'inizio neanch'io volevo essere così» disse Leo in un sussurro. Un sussurro che gli solleticò l'orecchio. Come quel giorno nel porcile. Quel soffio che Nico aveva rivissuto migliaia di volte senza collegarlo a niente, una pura sensazione ricordata. La sua testa si mosse da sola inclinandosi un po' all'indietro, perché il suo orecchio ne voleva ancora: un altro sussurro, un altro brivido solo per soddisfare quel desiderio malato, e poi forse avrebbe trovato la forza di andarsene. «E non è che adesso voglio essere così, solo che ho capito che non c'è niente da fare» aggiunse Leonardo in tono sommesso.
Poi appoggiò il viso sulla spalla di Nico, il suo respiro gli solleticò il collo, ora. Leo lo annusò inspirando con forza. «Ti puzzano le ascelle.»
«Oddio, che schifo, scusa.»
«Nah, ho sentito di peggio. Sai, questo odore è stata una delle cose che ho capito cosa mi piaceva veramente. Negli spogliatoi a calcio si sente questo odore, e quando lo sentivo mi immaginavo cose strane. Le ragazze non hanno questo odore, anche quando sudano, è diverso.» Leonardo lo stava annusando ancora, lo stringeva con forza, ora, Nico pensò che ormai sarebbe stato impossibile scappare, non ci sarebbe mai riuscito se lo stringeva così, il bastardo. Gli stava accarezzando i pettorali, facendogli il solletico attraverso la maglietta. Magari avrebbe potuto bloccarlo. Mettere una mano sulle sue e... E cosa? E perché avrebbe dovuto farlo? Nico non capiva più cosa voleva. Era come quel giorno in mezzo ai campi, troppo sangue in circolo. Gli stava annebbiando il cervello.
«Nico, ma ti rendi conto che culo che abbiamo che ci siamo trovati? No, mi sa che non ti rendi conto.»
Il respiro di Nico era affannato, la sua testa si rovesciò ancora di più all'indietro, per cercare aria.
O forse per cercare Leonardo.
Perché resistere? Leonardo aveva ragione.
Nico appoggiò le mani sulla mensola dell'armadio, chiuse gli occhi e si lasciò completamente andare.
——
Note 🎶
E sulle note del bravissimo Claudio Lolli (ascoltatelo!) scopriamo che Leonardo non è stato pestato.
Tutt'altro.
E adesso? Cosa succederà secondo voi? Come evolverà la situazione?
Lo scopriremo insieme giovedì!
Intanto, lasciatemi una stellina per ogni schiaffo che Nico avrebbe voluto tirare e non ha tirato a Leonardo (che forse se li meritava)!
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