75. As I try to make my way to the ordinary world
But I won't cry for yesterday
There's an ordinary world
Somehow I have to find
And as I try to make my way
To the ordinary world
I will learn to survive
Ma non piangerò per il passato
C'è un mondo ordinario
Che in qualche modo devo trovare
E mentre cerco di fami strada
Nel il mondo ordinario
Imparerò a sopravvivere
(Duran Duran, Ordinary world, 1993)
—
Maggio 1995
Quella mattina, finalmente, Elisa pronunciò le parole che Nic aveva desiderato udire da ormai almeno un anno: «Ho deciso di smettere di allenarmi.»
Nic le porse la borraccia. Avevano appena terminato una sessione di palleggio, in anticipo perché Elisa aveva accusato un dolore al ginocchio.
Le sorrise. «Stai prendendo la decisione giusta. Bisogna capire quando arriva il momento di smettere. Vedrai che...»
«Se non ci fosse stata quella cazzo di gravidanza!» sbottò lei con la voce rotta. «Stavo tornando! Sarebbe stato un comeback leggendario, a trent'anni! Ci riescono in pochissimi!» Elisa pianse, come accadeva tutte le volte in cui ripeteva quella frase. Era un disco rotto e Nic non ne poteva più di sentirgliela dire.
«Ma ti rendi conto che puoi tornare in auge facendo l'allenatrice? L'offerta di Tazio secondo me è ancora valida! Diventi un'allenatrice professionista, prendi qualche tennista in erba, una ragazza, ma perché no, anche un ragazzo! Non se ne vedono tante di allenatrici donne in campo maschile, a parte qualche madre. Te lo immagini? Potresti essere la prima! La prima allenatrice donna a portare un tennista maschio in top ten! O a vincere uno Slam!»
Elisa prese un telo dal suo borsone e si asciugò le lacrime. «Sì, E tra quanto? Tra che prendo il patentino, trovo qualcuno, lo faccio crescere... Passano dieci anni, divento vecchia e poi mi inquadrano sugli spalti brutta come una befana!»
Nic sbuffò. «E finiscila con queste cazzate, che sei bellissima e invecchierai benissimo.»
Elisa, in tutta risposta, pianse di nuovo. Nic la lasciò piangere: non la sopportava quando faceva quelle scenate senza senso. Aveva bisogno di essere rassicurata ma lui era stufo di ripeterle che era bellissima: non si vedeva da sola allo specchio?
Andarono a farsi la doccia nei rispettivi spogliatoi. Nic si stava allenando in vista di un torneo, un 250 di preparazione al Roland Garros. Aveva compiuto da poco trentun'anni, e la sua carriera tennistica stava andando ancora molto bene. L'anno prima aveva toccato il suo best ranking, il numero 78 mondiale. Era ormai membro fisso della squadra di coppa Davis, e aveva giocato anche un paio di partite con la nazionale, in doppio, specialità in cui era migliorato molto e dove aveva raggiunto addirittura la posizione cinquantuno.
Vivere a Capriva aveva avuto i suoi vantaggi, doveva ammetterlo. Dopo la morte della madre, su insistenza di Nic, il padre aveva dismesso le vecchie stalle ormai inutilizzate per costruirsi un appartamento indipendente. Il padre aveva preteso che quell'appartamento avesse una porta di collegamento con l'ala di Nic, ma aveva la sua cucinetta e il suo bagno, perciò passava gran parte del tempo lì dentro e andava a dar loro fastidio solo di tanto in tanto, per controllare come stava il suo nipotino.
Daniele era un bambino intelligente, allegro e affettuoso. Aveva tre anni e già conosceva moltissime parole, molte più della media dei bambini della sua età, a detta delle maestre dell'asilo nido.
Il padre di Nic, nonno Giacomo, lo adorava, e per il momento si stava comportando bene con lui. Nic aveva messo in chiaro sin dal primo istante che non doveva permettersi di metter bocca sulla sua educazione e soprattutto non doveva permettersi di picchiarlo. «Se ti azzardi anche solo a dargli uno schiaffetto ti stampo contro il muro» gli aveva detto Nic il giorno in cui l'aveva portato a casa. Il padre aveva mantenuto la promessa, anche perché Nic cercava di lasciare il meno possibile Daniele da solo con lui. Tutte le volte in cui Nic ed Elisa ne avevano avuto bisogno, avevano assunto una babysitter. E da un anno, per fortuna, erano riusciti a trovare un posto in un asilo nido dove fargli trascorrere le giornate.
Le entrate di Nic gli consentivano di mantenere tutte le spese. Il tennis andava bene, sopra le aspettative. La loro base di allenamento era Gorizia: erano diventati testimonial del circolo, e di tanto in tanto si prestavano a fare qualche stage che fruttava molto bene sia al circolo che alle tasche familiari; in cambio non pagavano la tessera e avevano accesso illimitato ai campi di allenamento.
Elisa era riuscita anche a trovare qualche nuovo contratto di sponsorizzazione, anche se non sportivo. Nessuno aveva creduto che potesse tornare a giocare a tennis come professionista, quindi tutte le case di abbigliamento l'avevano abbandonata, e lei aveva vissuto come un'onta imperdonabile l'unica offerta che aveva ricevuto, dalla Diadora, di fornitura gratuita del materiale. «La Sergio Tacchini mi pagava profumatamente! Ma per chi mi hanno presa?»
Ma era ancora un volto mediamente noto, ed era bella, per giunta, perciò le avevano offerto qualche contratto di sponsorizzazione per prodotti di genere diverso: aveva posato per campagne promozionali di un panettone, di una marca locale di caffè, ed era diventata testimonial di una catena di grandi magazzini. Il compenso non era stato stratosferico, ed Elisa non era stata propriamente entusiasta di farlo («Sono diventata una venditrice di pentole, che tristezza» aveva commentato una volta), ma li aveva aiutati a sostenere spese di vita quotidiana, viaggi e allenamenti. In un primo momento, durante i mesi in cui Nic non aveva giocato e aveva assistito la madre, le bollette e il cibo erano state tutte pagate dal padre di Nic. Ma da quando Nic aveva ricominciato a giocare, aveva preteso di pagare tutto di tasca sua: voleva sentirsi meno possibile in debito col suo unico genitore in vita.
Il bisnonno Giovanni per fortuna era morto. Daniele non aveva ancora compiuto un anno, quando si era finalmente levato di torno. Nic non era mai stato tanto felice della morte di qualcuno: era davvero una persona che non doveva aver avuto nemmeno un pensiero buono in tutta la sua vita.
Daniele.
Nic aveva deciso che quel nome gli piaceva, anche se ci aveva impiegato meno di mezz'ora a sceglierlo.
Dal quinto mese di gravidanza, Elisa aveva iniziato a parlare del loro futuro figlio al femminile. Nic era convinto che gliel'avesse detto l'ecografo, ma aveva scoperto in seguito che Elisa non aveva mai voluto sapere il sesso del nascituro, e si era messa in testa una vera e propria fantasia di cui aveva convinto tutti. Quando erano tornati a casa con Daniele, il padre di Nic aveva esultato con grande sorpresa e fatto i complimenti a Elisa perché aveva «fatto un maschio.»
Daniele.
Il giorno del parto, in ospedale, dopo essersi (un po') ripreso, dal marasma di emozioni che l'aveva messo sottosopra, Nic aveva chiesto a Elisa come le sarebbe piaciuto chiamare loro figlio.
«È maschio. Il nome lo scegli tu» era stata la sua secca risposta. Nic aveva insistito, ma lei non aveva voluto saperne.
Allora Nic, che non aveva preferenze per nessun nome e non ci aveva mai pensato, memore delle parole di Elisa sull'assonanza tra Elisa e Marisa le propose: «Perché non lo chiamiamo Elia? Somiglia a Elisa!»
Lei aveva storto la bocca. «Mi fanno schifo i nomi maschili che finiscono in A.» Poi si era come afflosciata. «Ma se a te piace, chiamacelo. Non me me frega niente. In questo momento voglio solo dormire, per favore, portalo al nido e lasciatemi in pace.»
«Ma no che non mi piace, l'avevo detto solo perché volevo un nome che somigliasse un po' al tuo... El... El qualcosa...» Elisa era stanca, e Nic avrebbe voluto lasciarla riposare. Ma non voleva nemmeno decidere da solo senza coinvolgerla.
Quindi aveva cominciato disperatamente a pensare: che nomi maschili esistevano che iniziassero con El? Eleonoro? Eliseo? Eleno? Non gliene era venuto in mente nemmeno uno, oltre Elia.
Era stata Elisa a fare una proposta, a sorpresa: «Rafa-èl» aveva detto con aria sprezzante. «Così ti ricorda il tuo amico...»
Nic aveva cercato di non dare a vedere quanto quella proposta lo avesse turbato.
Ma Elisa, con quel suggerimento, gli aveva dato un'idea. «Raffaele mi rifiuto. Non volevo dare alla bambina il nome di una morta, secondo te posso fare lo stesso sfregio a questo bambino? Però sono belli i nomi maschili che finiscono in -ele, non trovi? E come suono ricordano un po' il tuo!»
«Dici?» A Nic il tono di Elisa era sembrato quasi coinvolto, e si era quindi arrischiato a proseguire in quella direzione.
«Allora, ci sono Michele, Daniele, Gabriele, Manuele, Samuele... Emanuele, anche... Emanuele ha anche l'iniziale in comune col tuo nome. Però è un po' lungo, A me i nomi lunghi non fanno impazzire, a te?»
Lei aveva fatto spallucce. «Sono stanca, decidi in fretta.»
«Vediamo... Ce ne sono altri? Gioele, no, non mi piace, troppo strano... Ismaele, no, troppo altisonante... Che ne pensi? Direi uno dei primi che ho detto.»
«Sì, Va bene. Decidi pure tu. Per me è uguale. Lasciami dormire, ti giuro che non mi cambia niente.»
Nic aveva avuto pietà di lei, aveva portato il piccolo al nido dell'ospedale e aveva scelto Daniele. Tra tutti era quello che gli suonava meglio. Era un bel nome, semplice, comune, ma non troppo banale come Andrea, Marco o Francesco.
L'apatia di Elisa non era stata, purtroppo, un problema dovuto solo allo stress del travaglio. Per lunghi mesi dopo la gravidanza era stata immobile a non fare niente, a rifiutare di parlare con chiunque.
Dapprima Nic l'aveva scambiata per stanchezza. Poi si era preoccupato che ci fosse di mezzo qualche malattia. Siccome Elisa si rifiutava di farsi visitare, era stato Nic di sua iniziativa a parlare con il loro medico di famiglia, e quello lo aveva sorpreso parlandogli di fuffa psicologica: «Si chiama depressione post partum, molte donne ne soffrono.»
Sin da giovanissimo, dalle prime volte in cui ne aveva sentito parlare, Nic aveva sempre avuto l'impressione che psicologia e psichiatria fossero scemenze moderne senza senso, roba per gente debole che aveva bisogno di essere rassicurata, ma dopo l'esperienza con Raffaele si era convinto che fossero persino dannose. Raffaele aveva fatto avanti indietro da studi psichiatrici e psicologici sin dai primi tempi della sua dipendenza, e a cosa gli era servito? A niente! Anzi, Nic pensava che avessero persino peggiorato la situazione mettendolo in uno stato mentale negativo: Raffaele si era convinto di essere un malato di mente, un caso disperato, e che quella fosse la ragione per cui si drogava, si autoassolveva dicendosi che non poteva farci nulla. Gli psicologi lo avevano fatto entrare in un circolo vizioso rassicurante, che gli aveva impedito di crescere e affrontare i suoi problemi con maturità.
Nic non voleva che anche Elisa finisse per fare lo stesso errore e non voleva avere a che fare con un dottore che credeva in quelle pseudoscienze. Perciò aveva cambiato medico di famiglia e aveva deciso di affrontare di petto il problema di Elisa.
L'aveva spronata a fare qualcosa per uscire dalla sua apatia.
Nic capiva il motivo della sua tristezza: avrebbe voluto ricominciare col tennis. Nonostante l'età, aveva ricominciato a fare risultati positivi proprio nei mesi precedenti alla gravidanza, era normale che si sentisse un po' frustrata dall'essersi dovuta fermare sul più bello. Non ci voleva uno psicologo a capirlo. Non ci volevano malattie inventate come "depressione post partum". Nic non escludeva che Elisa avesse letto quella parola da qualche parte, magari su uno di quei giornalacci per neo mamme che si era messa a leggere negli ultimi mesi di gravidanza, e si fosse auto convinta di avere quella "malattia", peggiorando il proprio stato mentale. Nic era convinto che fosse così per gran parte di quei "problemi psicologici" che andavano tanto di moda. Ogni anno si sentiva qualche nuova definizione, qualche nuova malattia e boom! Ecco spuntare dal nulla migliaia di persone che sostenevano di avere proprio quel problema. A tutto vantaggio delle tasche degli psicologi.
Elisa in un primo momento aveva fatto resistenza, ma si era fatta trascinare sul campo da tennis. Nic non aveva mai creduto potesse ricominciare a giocare, considerata la sua età, ma perché non poteva divertirsi con un po' di sana attività fisica? Non c'era niente di meglio di un po' di movimento per distrarsi e togliersi dalla testa i problemi e le tristezze. Nic lo sapeva bene: il tennis era sempre stata la sua salvezza.
E alla lunga aveva avuto ragione. Ricominciare a giocare l'aveva fatta uscire dall'apatia.
Purtroppo, aveva portato con sé anche una conseguenza spiacevole: Elisa aveva deciso che voleva fare sul serio e rientrare nel circuito professionistico.
I carichi di allenamento li sopportava, ma il suo fisico non era più quello di una ventenne e lei, per giunta, era sempre stata un po' fragile e soggetta a infortuni, quindi ogni volta che esagerava tornavano a venire fuori i suoi vecchi problemi, ora alla caviglia, ora al ginocchio, ora al gomito.
Grazie alla sua fama, era riuscita a ottenere delle wildcard in diversi tornei, ma in ogni singolo incontro giocato aveva fatto figure pessime, sconfitte umilianti che non avevano fatto bene al suo umore.
Allora aveva tentato di ripartire dal basso, dai W15 e W25, ma anche lì aveva ottenuto risultati magri. Le sconfitte erano state meno umilianti, ma di vittorie non ne era arrivata nemmeno una.
Per giunta, si trattava di tornei frequentati soprattutto da ragazze giovanissime e a ogni sconfitta subita da sedici-diciottenni, Elisa aveva pianto dandosi della vecchia patetica, con Nic che cercava di convincerla che non aveva senso paragonarsi alle ragazzine di Non è la Rai.
A tutto questo si aggiungeva un risentimento invidioso nei confronti di Nic.
Per ogni vittoria che lui otteneva lei aveva qualche frase amara, che fosse: «Facile per voi uomini che non avete gravidanze e mestruazioni!» oppure: «Comodo fare un figlio e poi fottersene andando in giro a giocare!»
Se Nic capiva il risentimento dietro al primo tipo di accusa, trovava profondamente ingiusto il secondo: tra lui ed Elisa, era lei, semmai, che si disinteressava in modo preoccupante di Daniele.
Il tennis era il lavoro di Nic, forniva loro gran parte dei soldi con cui sopravvivevano, allenarsi non era molto diverso dall'andare in ufficio, anzi, lo teneva fuori casa molto meno delle classiche otto ore, si era persino comprato un po' di attrezzi per fare potenziamento e resistenza a casa e stare accanto al piccolo. Quanto ai tornei, non stava mai via a lungo anche perché cercava di evitare trasferte in altri continenti. Aveva inoltre intenzione, se avesse continuato ancora per qualche anno, di iniziare a portarsi dietro Daniele nei suoi viaggi per fargli vedere come funzionava quel mondo. Gli sarebbe piaciuto se anche lui fosse diventato un atleta: a Nic il tennis aveva dato uno scopo di vita e tante soddisfazioni, e chissà, con due genitori tennisti forse suo figlio sarebbe potuto diventare persino più bravo di loro.
Nic non era una persona di indole molto affettuosa, e non ci sapeva fare coi bambini. Ma amava Daniele e ce la metteva tutta per parlare con lui, giocarci, stargli accanto. Si interessava a tutto ciò che faceva e si fermava spesso a fare chiacchierate lunghissime con le maestre dell'asilo per sapere come si comportasse suo figlio quando era lì da solo, una circostanza che gli metteva parecchia ansia.
«Non abbiamo mai conosciuto un papà così interessato come lei. Di solito sono le mamme che stanno più dietro ai bambini...» gli aveva detto una volta una maestra. Nic era rimasto imbarazzato in positivo dal complimento, solo per poi sentirsi subito a disagio per la frecciatina che era seguita: «Sua moglie non la vediamo mai, ci piacerebbe fare una chiacchierata anche con lei, ogni tanto...» Gli occhi della maestra avevano espresso profondo biasimo.
Nic, più che biasimo, nei confronti di Elisa provava pena e frustrazione. Le maestre, purtroppo, ci avevano visto lungo: non riusciva a legare con Daniele.
Non era mai cattiva con lui, e quando il piccolo cercava di interagire lei si prestava. Ma sempre in maniera annoiata, e dopo uno o due minuti che stava insieme a lui, trovava qualche scusa per fare altro, che fosse allenarsi o leggere. Più di una volta Nic era tornato a casa e aveva trovato Daniele ipnotizzato dalla televisione, o in braccio al nonno, mentre Elisa faceva altro, spesso in una stanza diversa. Quando Nic cercava di farle notare il problema, lei finiva sempre per sbottare e rigirargli contro l'accusa: «E tu allora? Quando ti alleni non ti fai i fatti tuoi?»
Ma il disinteresse di Elisa era molto più profondo: non chiedeva mai di lui quando era Nic a restare da solo con lui ed Elisa a essere lontana, non aveva mai il desiderio di capirlo, si dimenticava costantemente gli impegni che lo riguardavano, ed era persino capitato un paio di volte che si dimenticasse di andare a prenderlo all'asilo, costringendo le maestre a telefonare a Nic o (peggio) al nonno.
Per ovviare a questo problema, Nic si era sentito costretto ad acquistare un telefono cellulare, in modo da essere sempre reperibile. Era uno strumento odioso, si sentiva ridicolo ogni volta che lo tirava fuori di tasca quando si trovava in pubblico e lo spegneva appena gli era possibile, ma era diventato una necessità a causa delle mancanze di sua moglie.
Nic avrebbe voluto fare qualcosa per avvicinare Elisa a Daniele, ma cosa? A chi avrebbe mai potuto chiedere aiuto?
***
Dicembre 1996
«Ho deciso che il prossimo anno mi ritiro.»
Nic non avrebbe mai pensato di faticare tanto a pronunciare quelle parole. Aveva sempre creduto di essere una persona razionale, capace di capire quando sarebbe arrivato il momento di smettere e accettare con maturità il passaggio a una nuova fase della sua vita.
Ma non era stato facile.
«Perché non subito?» Chiese Elisa alzando gli occhi dal volume di filologia romanza.
Nel corso dell'ultimo anno, il suo corpo trentaduenne aveva iniziato a dare crescenti segni di cedimento, quasi all'improvviso dopo che per trentun anni aveva goduto di una salute di ferro.
Nic era consapevole del fatto di essere stato fortunato. Il tennis era uno sport spietato e di colleghi over trenta ne aveva davvero pochi. Buona parte dei giocatori che conosceva aveva passato lunghe parti della propria carriera ferma per infortuni, chi più chi meno. Nic non aveva mai subito danni fisici gravi: qualche tendinite, qualche affaticamento muscolare, uno o due stiramenti. Mai nessuna frattura, nessuna distorsione. La genetica gli aveva dato un fisico ottimo e Nic ci aveva messo del suo curando sempre con raziocinio carichi di lavoro, alimentazione è riposo.
Ma l'età era spietata, e aveva iniziato a chiedere pedaggio.
Nell'ultimo anno erano aumentate le spese mediche e fisioterapiche, e tra uno stop e l'altro non aveva potuto giocare per quattro mesi. Il suo lavoro cominciava a essere sempre meno conveniente e non sufficiente a mantenere la famiglia, considerando che da Elisa continuavano a non arrivare entrate.
«Te l'ho detto che voglio prendere il patentino per allenatore professionistico, giusto? Ho pensato di gestirmi un po' di tornei in Italia mentre faccio il corso, e poi lascio il professionismo e comincio ad allenare.»
Elisa aveva già preso il patentino di primo livello, ma non voleva abbassarsi a fare l'allenatrice di circolo. Dopo aver rinunciato alla sua carriera, era entrata in una nuova spirale depressiva, e Nic, per spronarla a essere più attiva, l'aveva praticamente obbligata a iscriversi all'università. Aveva ricominciato il suo percorso in lettere moderne, aveva dato due esami prendendo un ventotto e un trenta, e per il momento sembrava contenta di studiare. Nic non se la sentiva a obbligarla a lavorare. Se l'università la faceva stare bene, l'avrebbe mantenuta volentieri.
«Papà, mi alleni a me?»
«Si dice: alleni me. Papà, alleni me?»
Daniele ripeté la formula corretta, con un broncetto seccato.
«Bravo!» gli disse. «Quando fai sei anni, sì. Se vuoi ti insegno a giocare.»
«Voglio giocare col papà!» disse lui, porgendo a Nic il suo giocattolo preferito, un Teletubbie di peluche.
«Io e la mamma stiamo parlando di una cosa importante» gli disse Nic. Poi andò a prendere dal cassetto un pacco di fogli bianchi e i pastelli a cera. Li appoggiò sul tavolinetto di plastica che usava come piano di lavoro. Prese in braccio Daniele e lo mise a sedere sulla sua seggiolina. «Fai un bel disegno con me e la mamma che giochiamo a tennis, quando l'hai finito giocherò con te.»
Daniele sembrò contento di mettersi realizzare la sua opera d'arte. Elisa lo guardò sbuffando, col viso appoggiato al pugno e il gomito al tavolo. «Com'è che a te ti ascolta sempre?»
«Tu hai poca pazienza e lui istintivamente lo capisce.»
«Dicevamo della tua carriera... Abbiamo problemi di soldi, vero?» disse Elisa.
«Un po' sì. Le spese mediche iniziano a essere troppe. Quest'anno potrei avere più culo, ma non posso fare scommesse rischiose a questa età.»
Elisa ebbe un raro momento di rimorso. «E io non faccio niente...»
«Tu studi.»
«È vero. Ma è risaputo che la laurea in lettere non serve a un cazzo.»
«Però ti piace.»
Elisa scoppiò a piangere.
Nic non riuscì a trattenere un sospiro: perché doveva avere sempre a che fare con persone lagnose? Prima Raffaele, ora Elisa... entrambi propensi alle lacrime. Ma se quelle di Raffaele sembravano sempre giustificate da qualcosa, Elisa spesso piangeva all'improvviso, senza un apparente motivo.
Daniele si alzò dalla sua seggiolina e andò da sua madre, le afferrò i pantaloni della tuta con le manine, aggrappandosi alla stoffa. «Perché piangi, mami?»
Elisa, in un raro momento di tenerezza, lo prese in braccio e lo strinse, pianse un po' su di lui, finendo per farlo piangere sua volta.
«Eddai, Eli. Non intristirlo! Dimmi cosa c'è che non va.»
Elisa si ricompose, diede un bacetto sulla guancia Daniele e gli disse qualche parola consolatoria. Poi asciugò le lacrime dalle guance del figlio e dalle proprie.
«Non so se voglio continuare con l'università» disse.
«Ma hai dato solo due esami! E sono andati bene! Non ti piace questo corso?» disse indicando il libro di testo.
«Ma no... è anche interessante, ma non è quello. Io... io non ti ho detto cosa mi è successo all'esame di inglese.»
La faccia cupa di Elisa non fece presagire nulla di buono a Nic. «Dimmi!»
Elisa sembrò di nuovo sul punto di piangere e Nic sbottò: «Eddai! Vuoi farlo piangere di nuovo anche a lui? Cerca di dirmelo stando tranquilla. Può sentire? È una cosa...?»
«Ma sì che può sentire, cosa vuoi che capisca? E poi non è niente di... adulto.»
Nic la invito a proseguire con un cenno della testa.
«Sono entrata nell'aula dell'esame... e gli altri studenti si sono tutti messi in allarme perché pensavano che fossi una prof!»
Nic aggrottò le sopracciglia. «E allora?»
«Ma non capisci? Sono una vecchia! Che cazzo ci faccio in mezzo a ragazzi di diciannove anni? Faccio ridere! Uno mi ha persino chiamato signora! Signora, cazzo!»
Daniele, infastidito dalle escandescenze di Elisa, ricominciò a piangere.
Nic, che non voleva mal abituare suo figlio a piangere per qualsiasi cosa, lo tolse di braccio a Elisa e lo rimise al tavolinetto.
«Dove vai? Ascoltami!» lo richiamò lei.
«Lo fai piangere, torno subito da te.» Si rivolse poi a Daniele e al disegno che aveva già iniziato a fare, uno strano sgorbio ovoidale con due braccia che spuntavano rivolte circa a quarantacinque gradi verso l'alto. Le maestre della scuola materna avevano detto a Nic che di solito a quattro anni i bambini disegnavano ancora gli arti ad angolo retto e che Daniele mostrava quindi di avere capacità di riproduzione della realtà sopra la media. Nic sperava si trattasse di un precoce segno di consapevolezza motoria.
Una delle due braccia aveva un grosso cerchio collegato a un'estremità. «Questo chi è?» chiese Nic.
Daniele si indicò.
«Elisa, vieni a vedere cos'ha fatto Daniele» cercò di coinvolgerla Nic.
«Lo guardo dopo. Possiamo parlare un attimo?»
Nic la ignorò, come lei stava ignorando suo figlio. «Sei tu? E stai giocando a tennis? È la racchetta questa?»
Daniele annuì con un sorrisetto. «E adesso faccio il papà.» Prese un pastello rosso e comincio a disegnare.
«Bravo! Quando hai finito il disegno vieni a chiamarmi così lo guardo. Daniele era molto assorto e non gli rispose nemmeno, rimase lì a disegnare con la linguetta fuori dalla bocca. Nic tornò finalmente da Elisa.
«Ma te ne frega qualcosa, dei miei problemi?» gli chiese lei.
E a te te ne frega qualcosa di nostro figlio? pensò lui. Si trattenne dal dirlo. «Certo che mi interessa, ma mi interessa anche Daniele. Non mi piace che pianga. E la soluzione alle lacrime non è coccolarlo, e fargli fare qualcosa. Esattamente come per te. Secondo me fai male a mollare l'università, l'università ti dà qualcosa da fare.»
«Ma sono ridicola! Ho trentacinque anni, sono una vecchia! Non ti fa schifo che ti sei sposato con una vecchia?»
«Ma sei scema? Secondo te me ne frega qualcosa che hai tre anni più di me? Siamo coetanei, non dire cazzate.»
«Tra un paio d'anni ti troverai una più giovane, già me lo immagino, cominci a insegnare e ti metti con una delle tue allieve!»
«Stai dicendo delle cazzate talmente colossali che neanche ti rispondo» disse Nic nel tono più tranquillo possibile. Era sempre stato molto bravo a controllare il suo tono di voce, ma da quando era nato Daniele si era posto come principio di vita quello di non alzare mai la voce, innanzitutto con lui, ma anche con tutte le altre persone con cui interagiva. Era diventato talmente bravo a farlo che ogni tanto esagerava, ed Elisa gli chiedeva di parlare a voce più alta perché non capiva cosa Nic avesse detto.
Elisa sbuffò. «Comunque non pensare che se mollo l'università resto con le mani in mano. Non mi sembra giusto che sei solo tu a mantenere la famiglia. Ho deciso che comincio ad allenare. Così poi magari insegniamo insieme al circolo e ti tengo d'occhio che non ci provi con le ragazzine...»
«Se pensi che io abbia voglia di provarci con le ragazzine, non hai davvero capito niente di me.»
«Papà! Ho finito!»
Nic si alzò per andare da lui. Daniele aveva disegnato una figura molto simile a quella che aveva già fatto ma più grande toccava i bordi del foglio sopra e sotto teneva per mano la figura più piccola e nell'altra mano aveva anch'essa quello strano ovale che nella testa di Daniele rappresentava la racchetta. «Mi hai fatto mancino» scherzò.
Daniele ovviamente non capì lo scherzo e rispose con un non sequitur: «Il papà è il tennista bravissimo!»
«E la mamma non la disegni?» Lo incoraggiò Nic. Con la coda dell'occhio, vede che Elisa si stava avvicinando.
Il bambino prese un terzo pastello. C'era ancora parecchio spazio nel foglio, alla sinistra di Daniele, ma non fu lì che disegnò Elisa, come Nic si sarebbe aspettato. Fece una figura piccola, più piccola ancora di Daniele sulla destra, con un pastello verde.
«Perché sono più piccola di te?» gli chiese lei.
«Mami, giochiamo insieme?» rispose lui.
«La mamma non ha tanto tempo, deve lavorare, adesso. Ma se vado a lavorare poi abbiamo i soldi, e se vuoi ti possiamo comprare un fratellino o una sorellina!»
Nic si voltò esterrefatto verso Elisa, mentre Daniele esultava: «Siii! Mi compri un fratellino? Un fratellino!»
«Eli, ma cosa dici? Non promettergli cose che non possiamo mantenere.»
«Perché no? Pensi che sono troppo vecchia per avere un altro figlio?»
«Ma no! Ma se c'è gente che fa figli anche dopo i quarant'anni!»
«Quindi tra cinque anni penserai che sono vecchia?»
Nic provò il desiderio di alzare la voce, per sfogare la frustrazione che quei discorsi gli causavano. Elisa sembrava sempre più ossessionata dalla propria età e Nic non riusciva a capirne il motivo. Tutti invecchiavano e tutti dovevano fare i conti col fatto che invecchiando si diventava più brutti. Ma che razza di valore era la bellezza? Elisa era intelligente, sveglia e dolce: perché non poteva essere felice del fatto che quelle qualità così rare sarebbero rimaste con lei per sempre? Perché si preoccupava della qualità più stupida e frivola di tutte?
«Perché non mi rispondi?» insisté lei in tono lamentoso.
Nic le prese le mani. «Eli, sei bellissima e per me sarai sempre la donna più bella del mondo. Ma non ti ho sposata perché sei bella, ti ho sposata perché sei...»
«Sì, sì, me lo fai sempre questo discorso. Guarda che lo capisco che lo dici solo per consolarmi...»
«Fratellino!» ripeté Daniele.
Elisa gli sorrise. Era sempre più raro vederla sorridere ed era ancor più raro che lo facesse con suo figlio. Che fosse un buon segno?
«Davvero vorresti un altro figlio?» le chiese Nic. «Ti piacerebbe avere una bambina, vero?»
«No» disse lei. «È indifferente.»
«Non puoi controllare il sesso, lo sai vero?» ribadì lui, memore dell'illusione che lei aveva vissuto la prima volta.
Lo sguardo di lei gli sembrò solido, sicuro. «Lo so. È vero che prima di avere Dani...» Elisa rivolse un'occhiata al bambino e non terminò la frase. «Però adesso sto in un posto diverso. E quando da ragazza pensavo alla mia futura famiglia mi immaginavo sempre con due, anche tre bambini. E fratello sorella non importa, vorrei ripartire da qui. Con te.»
«E con Daniele» disse Nic.
«E con Daniele» ripeté Elisa.
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Note
E quindi un altro bimbo is on the way? Ma chi se lo sarebbe mai aspettato? (Tutti i lettori di Play)
Nota: questo capitolo ha una natura molto transitoria. Lo sento come una parte un po' debole ma necessaria della storia, una parte che mi piacerebbe in futuro analizzare, rivedere, sistemare per rendere più avvincente. Per ovviare al racconto in stasi, ho deciso che in via eccezionale questa settimana pubblicherò tre capitoli. Quindi il prossimo appuntamento sarà mercoledì, quello successivo venerdì. Così aspettate di meno per arrivare alla ciccia succosa!
Sarà un'ammazzata ma ce la posso fare! 🔥
Quindi ci rileggiamo mercoledì (martedì notte) e a proposito di fuocherelli, infuocate il capitolo di stelline!
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